Per esprimere la propria determinazione a travolgere, con il cosiddetto “premierato”, l’assetto istituzionale disegnato dalla Costituzione del 1948, la presidente del Consiglio ha usato l’espressione «o la va o la spacca», quanto mai icastica nel riecheggiare la maschia e muscolare volontà di mettere mano ai destini del Paese. Alla successiva domanda sulla disponibilità a dimettersi in caso di bocciatura della riforma da parte dei cittadini in sede di referendum costituzionale (nello scenario del tutto verosimile che le Camere non approvino il premierato e la riforma della giustizia con i due terzi dei consensi) ha risposto con uno spavaldo «chisseneimporta», attingendo ancora una volta alla paccottiglia linguistica del regime – il baldanzoso motto «chissenefrega» usato dagli Arditi durante la Prima guerra mondiale e nell’impresa di Fiume, divenuto slogan governativo nel ventennio fascista – a sottolineare la granitica volontà di rimanere a capo del governo per i prossimi anni.
Le parole sono pietre, e quelle usate da Giorgia Meloni mostrano il basamento, se non già l’architettura, che ordina e squadra i tre stravolgimenti della Costituzione auspicati dal suo governo: premierato, regionalismo differenziato e depotenziamento dei poteri e dell’autonomia della Magistratura.
Risuonano sovrane, nel «o la va o la spacca», nel «chisseneimporta», l’irresponsabilità e l’indifferenza davanti alle conseguenze per il popolo italiano dell’attuazione di tanto sgangherate riforme, al punto che nemmeno il rifiuto da parte dei cittadini influirebbe sulla pretesa della Presidente del Consiglio di conservare ad ogni costo il potere.
Un ben strano atteggiamento, a ben vedere: Meloni cerca legittimazione popolare ed è al contempo sorda alla volontà popolare, che sembra valere solo se a lei favorevole.
«O la va o la spacca» significa agire contro la norma fondante delle democrazie
Si è detto da più parti che inseguire modifiche costituzionali e legislative segnate da un’estrema connotazione ideologica ha, per la Premier in pectore, lo scopo primario di sottrarsi ai difficili problemi che affliggono l’economia del paese, il mondo del lavoro, i servizi per la salute e l’istruzione. E’ una lettura senz’altro vera ma scivolosa, quando la si veda solo come tattica, assegnando un’importanza secondaria alla legge fondamentale, che è la Costituzione della Repubblica italiana. Appare infatti ogni giorno più chiaro che la determinazione a procedere a tappe forzate verso la realizzazione della «madre di tutte le riforme» è animata dal desiderio di vincere la partita del potere, a ogni costo, anche contro le regole, anche a costo di rovesciare il tavolo, pur di giungere a radicali modifiche costituzionali in senso autoritario – poiché questo è l’obiettivo, da realizzarsi mediante l’ulteriore rafforzamento del potere esecutivo ai danni del Parlamento, della Magistratura e del Presidente della Repubblica.
A questo servono anche il progressivo “sacco” dell’informazione pubblica e degli istituti culturali del Paese, assieme all’attacco dei sindaci, che si vorrebbero nell’asservimento gerarchico al “nuovo podestà” costituito dal presidente di Regione, così come si configurerebbe nello scenario dell’Autonomia regionale differenziata.
L’obiettivo è sgretolare l’assetto istituzionale nato dalla Resistenza e il suo naturale sviluppo nella costruzione dell’Unione europea, anch’essa frutto della volontà di arginare i ciechi egoismi e i nazionalismi che avevano condotto all’abisso della Seconda guerra mondiale e della Shoah.
«O la va o la spacca» significa agire contro la norma fondante delle democrazie, con spavaldo menefreghismo, guardando come a un impiccio all’impianto di pesi e contrappesi che ha determinato la libertà e la giustizia voluta da padri e madri costituenti.
Riscrivere la storia, questa sembra essere la pretesa, la hybris governativa. E se attaccare la Costituzione significa perseguire la cancellazione dell’ispirazione fondativa del nostro impianto repubblicano e cambiare il volto alla nostra democrazia – che diventerebbe un regime di delega elettorale in bianco – proporre di incrementare le autonomie regionali, con la conseguenza di inasprire le già rilevanti disuguaglianze nella qualità della vita tra le regioni italiane, significa addirittura rimettere in discussione il lascito della cultura risorgimentale.
Che l’aspirazione al regionalismo differenziato sia in palese contrasto con la retorica nazionalista adottata ossessivamente dal governo in carica sin dal giorno del suo insediamento, è una contraddizione che passa in secondo piano di fronte alla necessità tattica di tenere insieme i riottosi alleati che compongono la maggioranza. In questa stessa logica, si inserisce l’attacco frontale all’autonomia e all’indipendenza della magistratura, da decenni vessillo del berlusconismo, perseguito con incauta determinazione dal ministro Nordio in spregio all’Associazione Nazionale Magistrati e in aperto contrasto con la normativa europea, in un paese ad alto tasso di criminalità dei “colletti bianchi”.
Con queste tre proposte di riforma, gli alleati di governo si prendono una fetta della Costituzione e, infine, costituzionalizzano se stessi, mettendo in atto un paradossale rovesciamento del costituzionalismo. Difficile non scorgere, dietro ad argomentazioni apparentemente tecniche, la volontà di minare alla base l’equilibrio dei poteri su cui si fonda la nostra Carta Costituzionale. Il concorso delle tre riforme volute dal governo disegnerebbe, al suono dell’esiziale «chisseneimporta» di antica memoria, un assetto istituzionale capace di limitare fortemente i controlli e i contrappesi sul potere esecutivo e sul ruolo del Presidente del Consiglio, assecondando le pulsioni – volta a volta autoritarie, localistiche o allergiche alla legge – dei settori dell’elettorato cui il governo e il suo «capo» si rivolgono.
Giorgia Meloni ama dipingersi come «donna del popolo» e usare, a riprova, un linguaggio ben poco consono al ruolo che ricopre, spesso sguaiato e iper-semplificato, di chi «viene dal basso» dopo essere stato lungamente emarginato. Eppure siede in Parlamento dal 2006, ovvero da quando aveva 29 anni; dal 2006 al 2008 è stata vicepresidente della Camera dei Deputati; dal 2008 al 2011 è stata ministro per la Gioventù nel quarto governo Berlusconi, ed è, anche per condizioni di vita, certamente più vicina ai “pochi” che ai “molti”, pienamente parte del ceto politico che ha governato il Paese negli ultimi vent’anni. L’immagine dell’underdog, della reietta, dell’esclusa dalle stanze del potere è un usurato espediente per ingannare un elettorato disilluso da anni di insipienza nella gestione della cosa pubblica da parte di un ceto politico irraggiungibile, concausa della deindustrializzazione del Paese e del progressivo impoverimento materiale e morale delle persone.
Il partito di maggioranza relativa ha vinto le elezioni del 2022 con il 26% dei consensi, grazie a una legge elettorale truffaldina in una tornata in cui ha votato appena il 64% degli aventi diritto. In termini assoluti, i votanti a favore di Fratelli d’Italia sono stati il 16, 64% del corpo elettorale.
Riscrivere la storia, questa sembra essere la pretesa, la hybris governativa.
Anziché intraprendere un’ambiziosa opera di demolizione dell’assetto istituzionale, in aperto contrasto con le opposizioni parlamentari e con oltre il 50% dell’elettorato che queste rappresentano, in un Paese in cui quasi la metà dei cittadini non va più a votare e coloro che si recano alle urne si suddividono in schieramenti contrapposti, sarebbe opportuno esibire maggiore modestia, senso dello Stato e ricerca di soluzioni il più possibile condivise.
Come nel 2006 e nel 2016, è compito dei partiti di opposizione, delle associazioni, dei sindacati e dei cittadini tutti, smascherare la volontà di potere autocratico e senza controlli che la Presidente del Consiglio e il suo governo cercano di imporre con riforme che rischiano di far regredire la nostra Repubblica, precipitandola in una deriva autoritaria e antidemocratica.
Libertà e Giustizia, 2 giugno 2024