La “madre di tutte le riforme” e l’approccio ungherese alla Costituzione

15 Aprile 2024

Articolo pubblicato su La Stampa
Donatella Stasio, 14 Apr 2024

Titolo originale Se il modello Orbán minaccia la consulta

La “madre di tutte le riforme”, l’elezione popolare diretta del premier, avanza verso il primo giro di boa della lunga navigazione imposta alle modifiche della Costituzione. Ma nel frattempo, ecco avvicinarsi già qualche “figlia”. La prima – più volte annunciata e ora data in arrivo per fine aprile – dovrebbe essere la separazione delle carriere tra giudici e pm, con annesso sdoppiamento del Csm, non più a maggioranza togata e non più presieduto dal Capo dello Stato: una riforma in linea con l’idea dell’uomo solo al comando che non tollera limiti al proprio potere, meno che mai da giudici indipendenti. Nella stessa direzione si muove anche l’idea di incidere sulla composizione della Corte costituzionale, quanto meno nella componente di derivazione parlamentare – 5 giudici su 15 – a beneficio delle destre e con tanti saluti al pluralismo delle voci voluto dai costituenti. E così, in attesa delle manovre governative sul voto delle Camere, ecco che sui media di riferimento compaiono singolari proposte – che siano boutade o meno, è bene registrarle – come quella di far eleggere anche i giudici oppure di dare al presidente del Consiglio il potere di nominarli e al Parlamento di ratificarli. 

È lo spirito politico dei tempi. Già da cinque mesi, ormai, la Corte lavora in 14, non senza ricadute sul carico di lavoro dei giudici, sui tempi del processo, sul confronto collegiale, sulle votazioni (in caso di parità, il voto del presidente vale doppio). A novembre 2023 è uscita Silvana Sciarra e a dicembre usciranno Augusto Barbera, Franco Modugno, Giulio Prosperetti, tutti giudici di nomina parlamentare. I media di area governativa annotano: sarà quello “il punto più delicato e potenzialmente incisivo dell’intera legislatura”.  

Una mentalità più simile a quella che, in Polonia e in Ungheria, ha portato alla normalizzazione delle Corti costituzionali, svuotate dei loro poteri e occupate di fatto dalle maggioranze di governo. 

Donatella Stasio

Come sappiamo, Giorgia Meloni ha rivendicato pubblicamente la “prerogativa” del governo in carica di “dare le carte” nella partita sull’elezione dei giudici costituzionali, visto che, secondo lei, altrettanto avrebbe fatto in passato la sinistra, concorrendo così ad una Corte partigiana. Si dà insomma per scontato che anche gli altri 10 giudici (5 magistrati eletti da Cassazione, Consiglio di Stato e Corte dei conti, e 5 professori o avvocati nominati dal Capo dello Stato) siano “di sinistra” o che lo siano in maggioranza, come sosteneva Silvio Berlusconi per screditare verdetti a lui sgraditi. Siamo tornati a quegli anni.  Pensiamo solo al Ddl sul fine vita presentato da Forza Italia al Senato: invece di dare doverosa attuazione alla sentenza della Consulta 242 del 2019 – che ha depenalizzato il suicidio assistito in determinate condizioni – quel testo ripristina la punizione, anche se più bassa, scavalcando con disinvoltura lo scoglio del “giudicato costituzionale” che dovrebbe essere un muro invalicabile.

Le affermazioni sulla Corte “di sinistra” sono lontane dalla realtà (basta conoscere il profilo dei giudici) tanto quanto la mentalità della maggioranza di governo è lontana dalla Costituzione, ragion per cui ritiene inconcepibile che giudici, anche non “di sinistra”, possano riconoscere valori e convergere su decisioni non allineate allo spirito politico dei tempi. Una mentalità più simile a quella che, in Polonia e in Ungheria, ha portato alla normalizzazione delle Corti costituzionali, svuotate dei loro poteri e occupate di fatto dalle maggioranze di governo. 

In Italia, questo pericolo dovrebbe essere scongiurato dai quorum molto alti stabiliti per l’elezione dei giudici costituzionali (2/3 nelle prime tre votazioni e 3/5 nelle successive), proprio per far convergere sui prescelti la maggioranza più ampia, trasversale agli schieramenti politici. Questa convergenza è talmente importante, per la funzione che svolge il giudice costituzionale, che i quorum richiesti sono persino più alti di quelli previsti per il Capo dello Stato o per modificare la Costituzione. E tuttavia, l’attuale coalizione di governo li sfiora: le mancano solo 11 voti per raggiungere i 3/5 e ci potrebbe arrivare con l’aiuto di Italia Viva (16 seggi tra Camera e Senato), con cui sembra condividere più di una battaglia.

Finora la parola d’ordine è stata rinviare. La terza votazione del Parlamento in seduta comune è prevista per il 23 aprile ma finirà con una fumata nera. All’epoca, Sciarra è stata eletta su designazione di Pd e 5Stelle e quindi dovrebbe essere sostituita da un profilo analogo, concordato da maggioranza e opposizione. Ma nulla si muove. Il governo “dà le carte” in modo da spingere in avanti la partita decisiva, fino a dicembre, quando i giudici da eleggere saranno 4 e potrà più facilmente imporre le sue “prerogative” (sic). Una prassi, quella del “pacchetto”, non nuova. Ma mai si era arrivati a un pacchetto di 4 giudici da sostituire in blocco, fa notare il costituzionalista Pietro Faraguna, segnalando, su laCostituzione.info, che da dicembre, e fino alla sostituzione effettiva (che richiederà del tempo), la Corte lavorerà in 11 e sarà costretta a fermarsi se uno solo dovesse ammalarsi, perché non si può scendere sotto la soglia di 11 giudici. Rischio reale se si pensa che già dal mese precedente, novembre, i giudici in scadenza non possono partecipare alle udienze.

È grave che la giustizia costituzionale rischi la paralisi. Eppure, anche questa cattiva prassi istituzionale sembra accettata come ineluttabile, a cominciare dai presidenti delle due Camere, rimasti finora silenti invece di richiamare i gruppi parlamentari alla loro responsabilità per impedire che la Corte resti ostaggio di inaccettabili diktat politici.   

Nella strategia di delegittimazione della Consulta, funzionale a cambiarne i connotati, tutto fa brodo, anche le dissenting opinion postume dell’ex vicepresidente Nicolò Zanon, rispetto ad alcune sentenze, raccolte in un volumetto appena uscito per Zanichelli. Nobile istituto di origine anglosassone, la dissenting opinion di Zanon è stata subito piegata a strumento di lotta politica dalla destra, che l’ha puntata come un’arma contro la Corte per dimostrare che ha adottato “verdetti politici” quando ha deciso sui vaccini, sulle intercettazioni dei parlamentari, sul referendum “eutanasia” e via dicendo, trovando sponda nelle file di IV, dove la Corte è stata definita “un problema per la democrazia”. 

Non è certo in chiave di delegittimazione che Zanon ha reso pubbliche le sue dissenting, ma questo, purtroppo, è stato l’uso politico fatto in concreto. Un uso strumentale per indebolire la Corte, tanto più nella prospettiva di un diverso equilibrio tra i poteri. Ecco, allora, che al grido “Basta con la politicizzazione occulta della Corte!”, quelle dissenting vengono usate anche per lanciare la singolare proposta di eleggere i giudici costituzionali, come il premier, oppure di attribuire a quest’ultimo il potere di nomina dei giudici, da sottoporre poi al vaglio delle Camere, sul modello degli Stati Uniti. “Ce n’è abbastanza – si sostiene – per capire che le quattro nomine parlamentari di altrettanti giudici costituzionali che la maggioranza (sic, ndr) dovrà decidere entro l’anno solare sono forse il punto più delicato e potenzialmente incisivo dell’intera legislatura”.

Ecco che cosa accade in una democrazia fragile, quando un istituto nobile come la dissenting opinion viene venduta come il “verbo” della Costituzione, per delegittimare la Corte e aprire il varco alla sua “normalizzazione”, mentre è solo una legittima, rispettabile, opinione di minoranza. 

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