Processo Lucano. In attesa della sentenza d’Appello, le parole della difesa

Il 20, presso la Corte d’Appello di Reggio Calabria, si è tenuta l’ultima udienza dedicata alla difesa di Mimmo Lucano. Gli avvocati difensori Giuliano Pisapia e Andrea Daqua hanno illustrato le loro valutazioni della sentenza di primo grado emessa dal Tribunale di Locri ormai quasi due anni fa.

Giovanna Procacci, docente di sociologia, segue il processo dalle sue prime fasi. È coautrice, con Domenico Rizzuti, Fulvio Vassallo Paleologo, del libro “Processo alla solidarietà” edito da Castelvecchi. Ha scritto un report che ci autorizza a pubblicare.

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Salvo sorprese, questo dovrebbe essere il mio ultimo report dalle udienze del processo su Riace e Lucano in corso presso la Corte d’Appello di Reggio Calabria. Il 20 settembre si è tenuta l’ultima udienza, dedicata alla difesa dell’ex-sindaco di Riace: gli avvocati difensori, Giuliano Pisapia e Andrea Daqua, che da anni lo difendono a titolo gratuito, hanno illustrato le loro valutazioni critiche della sentenza di primo grado emessa dal Tribunale di Locri ormai quasi due anni fa. Al prossimo appuntamento, fissato per l’11 ottobre, si aprirà la Camera di Consiglio per definire la sentenza di secondo grado.

Con le parole dei difensori di Lucano è riapparso come per incanto il dibattimento. Quel dibattimento che la sentenza di Locri aveva ignorato, tutta schiacciata com’era sulle argomentazioni dell’accusa, al punto da non tener in nessun conto le vicissitudini che avevano subìto nel corso della discussione processuale. La logica della prova, della sua debolezza o della sua mancanza, vibrava di nuovo nell’aria, dopo che quella sentenza l’aveva relegata a indizio, supposizione, pre-giudizio, se non addirittura a gratuiti voli pindarici su intenzioni passate e future.

Giuliano Pisapia ha voluto mettere a fuoco la figura di Lucano, perché in un processo penale, ha detto, l’elemento soggettivo è fondamentale: vi si giudica una persona, non solo degli atti. E lo ha fatto partendo dalla lettura di una sua lettera ai giudici. “Come tutti gli esseri umani posso aver commesso degli errori, ma ho sempre agito con l’obiettivo e la volontà di aiutare i più deboli e di contribuire all’accoglienza e all’integrazione di bambini, donne e uomini che fuggivano dalla fame, dalla guerra, dalle torture”. Lucano racconta di aver vissuto anni di grande amarezza non solo e non tanto per la limitazione della libertà personale, quanto per l’ingiusta campagna di denigrazione che si è abbattuta su di lui e sull’esperienza di Riace. Per questo ha continuato a dedicarsi, da privato cittadino, alla riapertura e alla gestione del Villaggio Globale di Riace che continua a ospitare persone con fragilità. “Non si è interrotta, dunque, quella che considero la missione della mia vita, a prescindere da incarichi pubblici e finanziamenti statali. Altro che associazione a delinquere!”.

Ecco, dice Pisapia, “io non parlo di un santo. Mi interessa chi è colui che oggi è imputato e al momento ha una sentenza con una condanna esorbitante”. La sentenza di primo grado ha volutamente disconosciuto i valori che hanno ispirato tutta la sua azione pubblica e il carattere ideale di questa sua missione. A questo servono i giudizi morali, le derisioni, i veri e propri insulti che infarciscono la sentenza e che hanno scandalizzato tanti giuristi che vi hanno visto la negazione dell’imparzialità del giudice. Eppure costituiscono un pezzo importante della sentenza: la denigrazione di Lucano fa parte di una strategia di sospetto nei confronti di chiunque agisca in nome di valori, osserva Luigi Ferrajoli, perché dietro non può che esserci un secondo fine, una ricerca di vantaggi personali. Così anche per Lucano si è sostenuto che inseguisse un vantaggio economico. Dalla lettura degli atti processuali, però, risulta che non aveva un soldo sul proprio conto corrente, che ha messo tutto a disposizione degli altri, perfino i premi che ha ricevuto, che vive in condizioni di povertà. “Falcone diceva di seguire i soldi. Vi prego, seguite i soldi di Lucano, non li troverete”.

Allora, di fronte all’impossibilità di provare il vantaggio economico, si è preteso che Lucano abbia agito per vantaggi politici, per creare un sistema clientelare che gli garantisse una lunga carriera politica. Ma come si fa a dire che ha fatto quello che ha fatto per motivi politici se, come tutti sanno, ha ostinatamente rifiutato di candidarsi per un posto praticamente assicurato al Parlamento Europeo? “Questo dovrebbe già chiudere il processo”, osserva Pisapia, perché manca il dolo e manca la consapevolezza e la volontà di perseguire un vantaggio personale – due fattori essenziali per stabilire un reato penale.

Lucano è una persona che ha sempre avuto come priorità il bene altrui. Come aveva detto Monsignor Bregantini al Tribunale di Locri, è qualcuno che ha anticipato lo spirito dell’Enciclica “Fratelli tutti” di Papa Francesco. Certo, anche chi agisce a fin di bene può arrivare a violare norme, ma questo comporta dei rilievi che vanno chiariti, non rinnega certo la finalità virtuosa dell’azione. Se il sistema di accoglienza a Riace era cresciuto in modo esponenziale, vuol dire che Riace si era messa a disposizione di istituzioni in difficoltà nell’affrontare un problema nazionale. Negare il valore di questo contributo, trasformare l’accoglienza a Riace in un’azione criminale di accaparramento, insinuare che la povertà di Lucano sia un’astuta menzogna, sono modalità proprie di quello che Ferrajoli ha indicato come il processo offensivo, dove il giudice si considera nemico del reo, non cerca prove certe, ma solo conferme di una colpevolezza presunta.

Dopodiché Pisapia è entrato brevemente nella discussione di alcuni capi d’imputazione, in particolare quelli che riguardano i cosiddetti “lungo permanenti”, le verifiche su rendicontazioni e documentazione da parte delle associazioni, una carta d’identità considerata falsa. Su nessuno di questi capi d’imputazione, ha detto, il dibattimento ha provato in modo certo la responsabilità di Lucano; per questo ne ha chiesto l’assoluzione.

Si è rivolto direttamente ai giudici: “La vostra sentenza sarà importante perché, specialmente in questo periodo in cui la situazione dei migranti è particolarmente difficile e complicata, avere tante Riace aiuterebbe a risolvere tanti problemi e a evitare situazioni drammatiche che un Paese come il nostro non dovrebbe guardare da lontano, ma dovrebbe essere capace di affrontare”. E ha concluso con una chiosa, evidentemente riferita alla sua esperienza di avvocato e di politico. “Quando la politica entra nelle aule di giustizia, la giustizia scappa inorridita dalla finestra. Per me è qualcosa di insuperabile: un conto è la giustizia e un conto è la politica. Devono avere ognuno i propri ruoli e non devono entrare nei ruoli altrui”.

A questo punto ha preso la parola l’avvocato Andrea Daqua, per esaminare nel dettaglio i capi d’imputazione su cui la sentenza di primo grado ha costruito la condanna di Lucano a più di tredici anni di reclusione. Per mostrarne debolezze e contraddizioni, è ripartito dalle anomalie delle relazioni su Riace: dalla prima relazione prefettizia fortemente negativa, finita in mano a Il Giornale ancor prima di arrivare al sindaco; alla seconda relazione della Prefettura, sollecitata dallo stesso Lucano, che esprimeva un giudizio positivo dell’accoglienza, che però il Prefetto secretò per circa un anno. Fino all’ispezione congiunta di Prefettura e Sprar, affidata a Sergio Troilo e Enza Papa, con l’obiettivo di svalutare Riace e che portò all’improvvisa chiusura dello Sprar. Il ricorso di Lucano contro quella misura fu accolto, fino alla conferma definitiva da parte del Consiglio di Stato, che definì Riace un “modello encomiabile” e stabilì che lo Sprar doveva essere riaperto. Intanto però era stato chiuso.

Daqua descrive la sentenza di primo grado come il punto di arrivo di un’indagine unidirezionale che, invece di accertare i fatti, ha eliminato ogni elemento in contrasto con l’impianto accusatorio precostituito da quelle ispezioni. Ne è prova quell’intercettazione a discarico che il tribunale di Locri si era rifiutato di prendere in considerazione e che i giudici d’appello hanno ammesso riaprendo l’istruttoria. In quell’intercettazione, l’ispettore Del Giglio rivelava a Lucano che “lo Stato non vuole il racconto della realtà di Riace [perché] l’obiettivo integrazione è soltanto una parola buttata là” e confessava di ritenere personalmente che “Riace, al di là delle disfunzioni eventuali o delle anomalie amministrative, quindi della burocrazia, abbia realizzato una realtà evidentemente ancora unica sul territorio nazionale. Dovete difenderla”.

Così, il Tribunale di Locri si è appiattito sull’accusa, ha stravolto i fatti, ignorato la documentazione prodotta dalla difesa e i contributi dei suoi consulenti, travisato il contenuto di testimonianze, distorto il contenuto delle intercettazioni, fino ad assumere un linguaggio che trasuda un fumus denigratorio fuorviante. Daqua ha portato molti esempi per denunciare l’uso distorto delle intercettazioni, realizzato in modo chirurgico e tendenzioso. Frasi inesistenti inserite, errori di trascrizione che cambiano il senso delle parole, interpretazioni stravolte per confermare convinzioni precostituite.

Esemplare il caso dell’intercettazione ambientale del 10/07/2017 in cui Lucano e Capone parlano del frantoio; il tribunale mette in evidenza il ruolo di Lucano nell’indicare “le false dichiarazioni che avrebbero dovuto rendere concordemente in merito a quelle spese effettuate”, e questo grazie alla frase “E’ per i rifugiati, gli devi dire”. Peccato che le parole “gli devi dire” non esistono nella registrazione audio, compaiono, sì, nella trascrizione della polizia giudiziaria che l’accusa aveva usato nel dibattimento, ma non ci sono nella trascrizione ufficiale fatta dal perito del tribunale. Questo rivela qualcosa di molto grave: l’appiattimento del giudice sulle argomentazioni dell’accusa, fino al punto di contraddire il tribunale stesso e di perdere la sua terzietà.

Grave anche perché proprio questa intercettazione svolge nella sentenza di Locri un ruolo chiave: secondo il tribunale Lucano, non sapendo ancora di essere indagato, starebbe qui costruendo le false dichiarazioni da diffondere a proposito del frantoio, rivelando così che in realtà da quell’acquisto si aspettava un ritorno economico. Questa interpretazione distorta diventa uno spartiacque: perché per dare valore probatorio a questi elementi, la sentenza esclude tutte quelle intercettazioni da cui si desume invece che il frantoio va effettivamente a vantaggio dei rifugiati considerandole artefatte in quanto, essendo successive a quella data, ormai l’indagine era nota. Quell’intercettazione sarebbe insomma la prova della torsione della verità che Lucano avrebbe astutamente architettato… e non una ricostruzione preordinata che esiste solo nella mente del tribunale.

In realtà, continua Daqua, il frantoio rappresenta un’attività conforme agli obiettivi e allo spirito dello Sprar, che promuove progetti speciali per l’integrazione e non c’è nessuna prova che si tratti di un’appropriazione privata. Il frantoio è al cuore dell’accusa di distrazione di fondi pubblici, ma il reato di distrazione richiede un uso improprio delle somme distratte e non c’è prova di uso improprio del frantoio. Come non c’è del resto per le altre case che pure rientrano nell’accura di peculato, di cui anzi la difesa ha fornito precisa documentazione, dimostrando che sono state usate per l’accoglienza dei migranti. D’altronde, tutti i fondi che arrivavano ai progetti di Riace confluivano in un unico conto corrente – pubblici, privati, anche rimborsi di progetti precedenti. Siccome il tribunale ha fatto i suoi accertamenti a livello di cassa, era difficile riuscire a distinguere analiticamente quali fondi venivano di volta in volta spesi. E’ stato questo il contributo della consulente Madaffari, che aveva portato il libro mastro contabile del Comune di Riace, dove invece risultava anche la fonte, ma il tribunale ha ignorato del tutto le consulenze prodotte dalla difesa.

Quanto all’imputazione più grave, l’associazione a delinquere, di cui Lucano sarebbe il capo indiscusso, Daqua riprende dal dibattimento le testimonianze prodotte dalla stessa accusa che escludono il reato associativo. Più volte il Presidente Accurso aveva chiesto al colonnello Sportelli di precisare se c’era in gioco un rapporto collettivo, dei legami di concertazione, una consapevolezza di questi legami; sempre Sportelli aveva risposto negativamente. Enza Papa aveva dichiarato che gli uffici dello Sprar erano messi in difficoltà dalla frammentazione del sistema Riace, con tutte quelle associazioni che non comunicavano fra di loro, ognuna andava per conto proprio, non c’era organizzazione. Non ci sono insomma i presupposti per il reato associativo. Ma il tribunale ricorre come al solito ad un’intercettazione in cui si parla della necessità di coordinarsi e la porta come prova di quel legame, che gli stessi testimoni dell’accusa negano; peccato che il coordinamento di cui si sta parlando sia un coordinamento di tipo funzionale. Un’altra forzatura intollerabile.

In conclusione, Daqua dichiara che si tratta di una “sentenza ingiusta ed errata per tutti i capi di imputazione”. Per questo, come Pisapia, chiede l’assoluzione di Lucano da tutti i reati a lui ascritti dalla sentenza di primo grado. E incalza i giudici: “Voi avete la possibilità di correggere un macroscopico errore”. Lo faranno?

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