Y.N. HARARI,  ‘I BIG DATA? ALIMENTANO LE DISEGUAGLIANZE’

13 Ottobre 2021

Londra – Che mondo ci attende dopo il Covid. Perché un altro virus, non biologico, sarà ancora più pericoloso. “Il crimine delle diseguaglianze”. L’utopia di una società eguale. La dittatura degli algoritmi e dei Big Data. La prossima Guerra fredda digitale. E perché la storia non si ripete.
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Silenzio, parla Yuval Noah Harari. Israeliano, 45enne senza smartphone, uno dei più grandi intellettuali, storici e divulgatori contemporanei, domani torna nelle librerie con il secondo volume  (I pilastri della civiltà) del graphic novel del suo bestseller Sapiens (Bompiani), favoloso viaggio nella storia – e nel futuro – dell’umanità.
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Perché anche la versione graphic novel, Harari? 
«Molti non leggono libri classici o non sono abituati al linguaggio accademico. Dunque siamo noi studiosi e scienziati a dover fare uno sforzo. Abbiamo una grande responsabilità, a maggior ragione durante una pandemia o nella lotta al cambiamento climatico. Altrimenti, lasci spazio a complottismi e fake news».
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Qual è la lezione più grande del Coronavirus?
«La necessità di una cooperazione globale. Purtroppo non abbiamo raggiunto l’obiettivo».
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Nel senso che i vaccini vanno quasi sempre solo ai Paesi ricchi?
«Quello sicuramente. Ma c’è di peggio: a due anni dalla pandemia non abbiamo ancora un piano e una leadership globali per superare questa crisi e affrontare i disagi economici scaturiti. L’Oms è un organismo svuotato e influenzato dalla politica. Quali obiettivi potremo mai raggiungere su temi altrettanto colossali e ancora più complicati come l’ambiente o l’intelligenza artificiale?».
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Però la scienza è stata straordinaria: vaccini anti Covid in meno di un anno.
«Ciò mi rende molto ottimista: potrebbe davvero essere l’ultima grave pandemia. Ma la politica non ha ancora imparato ad agire tempestivamente e a livello globale: ricordate Donald Trump, quando sospese i fondi all’Oms in piena pandemia?».
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C’è un grande dibattito sui passaporti vaccinali e sulle restrizioni anti Covid. Lei, che ha scritto libri futuristici fino al transumanesimo come “Homo Deus”, che ne pensa?
«Durante un’emergenza, simili misure di “sorveglianza” sono necessarie, e io sono a favore. Il problema è che a lungo termine potrebbero essere il cavallo di troia per un controllo capillare della società. Dunque è cruciale che siano misure temporanee e che, soprattutto, siano bidirezionali, ovvero che anche stati, governi e giganti del web siano più trasparenti. Cosa che purtroppo non sta accadendo. Se la sorveglianza è a senso unico, alla lunga si rischia di diventare un Paese autocratico o totalitario come la Cina».
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È preoccupato per la democrazia?
«Dovremmo esserlo sempre. Perché se le dittature sono erbacce che possono crescere ovunque, la democrazia è un fiore che va preservato, ha bisogno di tempo e condizioni favorevoli. Non nasce dal nulla, come ci ha dimostrato l’Afghanistan. La democrazia si basa sull’accettazione dell’altro, di chi la pensa diversamente. Purtroppo vedo che in vari Paesi, Usa inclusi, l’odio tra fazioni sta crescendo sempre di più, anche perché fomentato da politici che puntano a erodere la democrazia. Di questo passo, dove nessuno ha più rispetto dell’altro, sono possibili due scenari: una guerra civile o un governo fortemente autoritario».
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Quanto teme il potere degli algoritmi online, che ci fanno vedere solo le cose che ci piacciono, oscurando il resto? 
«È inquietante. Purtroppo gli algoritmi si basano su un modello di business: tenerti il più possibile incollato alla piattaforma per fare più soldi, stimolando emozioni ed “engagement”. Perciò, online, complottismi e teorie “no vax” funzionano meglio dei fatti».
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Come se ne esce? 
«Bisogna bombardare le persone con i fatti, per esempio sui vaccini, ma non in maniera ripetitiva, bensì emozionale ed empatica».
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Le diseguaglianze sono protagoniste dell’ultimo capitolo della sua opera: “Uno dei peggiori crimini dell’umanità”. 
«Purtroppo, dalla rivoluzione dell’agricoltura, una società giusta ed eguale si è dimostrata impossible nella Storia, vedi anche le utopie del XX secolo. Il problema più grande oggi è la concentrazione di potere nei giganti del web e soprattutto nei Big data».
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Ossia l’incommensurabile quantità di dati personali che cediamo ogni giorno online, spesso inconsapevolmente.
«Esatto. Un furto, direbbe Shoshana Zuboff. Se prima le diseguaglianze erano nei possedimenti terrieri, oggi lo sono nei big data, l‘asset più prezioso della nostra epoca. È estremamente rischioso che questa enorme mole di dati sia in mano a giganti come Facebook, Google, Alibaba, etc. Se non stoppati subito, le disparità saranno sempre più estreme. Potrebbe scatenarsi un nuovo colonialismo digitale».
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E come possiamo cambiare le cose? 
«I governi possono e devono limitare i poteri di queste multinazionali. In 20 anni tutte le nostre informazioni, dal semplice cittadino a giudici e giornalisti, potrebbero finire a Pechino o a Washington. Sarebbe catastrofico».
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Assistiamo sempre più a black out delle reti digitali e informatiche. Quant’ è fragile il nostro mondo nuovo?
«Il pericolo di un virus digitale è più grave di quello di un altro organico-biologico. Perché tutto è oramai online, ancor più post pandemia. Basta un black out di pochi giorni per scatenare il caos. Non siamo preparati, siamo in pericolo. Ci avviamo verso una guerra fredda digitale, tra Usa, Cina e altri Paesi».
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Altro che i nuovi “ruggenti anni 20” che qualcuno auspica, come dopo la pandemia a inizio secolo scorso. 
«Non ho mai creduto che la storia si ripeta. Perché molto dipende da decisioni individuali e circostanze particolari. Dopo questa pandemia, potremo incolpare gli stranieri e diffondere complottismi. Oppure, sviluppare un profondo senso di collettività, cooperazione e fiducia nella scienza. Sono due futuri diversi, ma entrambi possibili. Altro esempio: quando esplose una grande pandemia come l’Aids, la comunità omosessuale venne abbandonata al suo destino dai governi: “Che muoiano, i gay”. Invece, questi si strinsero nell’emergenza. Si aiutarono sempre di più. E la comunità ne uscì molto più forte. Perché, come sempre, people have the power ».
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la Repubblica, 12 ottobre 2021

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