La Festa di Liberazione è la più bella tra quelle civili, la madre della Festa della Repubblica che celebriamo il 2 giugno. Coincide con la primavera e cade non lontano dalla Pasqua e dal Passover (la Pasqua ebraica), anch’esse festività di liberazione e di speranza. Dimentichiamo spesso, mentre le festeggiamo, la lunga e dura traversata nel deserto dalla quale provengono, le esperienze di passione e di sofferenza di coloro che hanno scelto il rischio, visto o subito la morte. Il documento più importante delle sofferenze che aprirono la strada verso la Liberazione è certamente la raccolta delle Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana (8 settembre 1943-25 aprile 1945). Alcune di esse erano incluse nei libri di storia delle scuole pubbliche dell’obbligo e superiori. Non so se sia ancora oggi così. Se non lo fosse, occorrerebbe chiedere al responsabile del Dicastero della Pubblica Istruzione di colmare questa lacuna.
Le lettere sono un documento toccante di uomini che sanno che verranno fucilati di lì a poche ore, spesso dopo aver subito torture. In uno stile dignitoso e sobrio, i condannati a morte davano addio alla vita. Ai genitori, alle fidanzate o alle mogli, ai figli e agli amici chiedevano di essere perdonati per il dolore che arrecavano loro e di non dimenticare la ragione del loro sacrificio, di conservarla nella memoria e di tramandarla. Erano tutti giovani e giovanissimi. Tutti sicuri della giustezza della loro scelta e della ingiustizia che li aveva portati a quell’epilogo.
Chiedevano di ricordare il loro sacrificio non cercato ma subìto – tutti loro avrebbero voluto vivere, nessuno era felice di morire. L’eroismo patriottico e partigiano non è martirio. Molti insistevano, anzi, a non dirsi o voler essere considerati eroi, perché il loro sacrificio era l’esito di una condizione di estrema ingiustizia che si era abbattuta su di loro e non consentiva altra scelta. Come alcuni scrivevano, una società che costringe i propri cittadini a fare scelte tragiche per poter vivere in pace con la loro coscienza è profondamente ingiusta. Per tutti i condannati, il ricordo era una ragione di forza. “So quello che mi attende domattina, ma sono forte per il vostro ricordo”.
La memoria ha il potere di squarciare il velo del tempo che, come un tiranno, tutto divora. Niccolò Machiavelli riteneva che fosse la sola possibilità di immortalità delle cose umane. Egli pensava soprattutto alle gesta straordinarie dei fondatori di stati, singole individualità che con scelte estreme, e anche a costo di violare i principi morali, creavano o salvavano repubbliche. La Resistenza è stata una coralità di tante scelte individuali ispirate da diverse passioni o fedi, ma tutte indirizzate ad uno stesso scopo: abbattere la tirannide, riconquistare la libertà.
Le lettere ci dicono che ciascun resistente giunse alla scelta di combattere contro il nazifascismo a partire dalla propria personale riflessione o dalla propria esperienza di vita: come membro di un partito politico, come ex-militare con il senso di dover servire il Paese, come un singolo mosso dal sentimento morale di giustizia. Molte persone, unite da una sola ed uguale determinazione. La coralità acquistava carattere distintivo di una personalità individuale straordinaria, simile ai fondatori delle repubbliche di cui parlava Machiavelli.
Scriveva Pietro Benedetti alla moglie il 12 aprile 1944: “Ma che fare? Vi sono nel mondo due modi di sentire la vita. Uno come attori, l’altro come spettatori. Io, senza volerlo, mi sono trovato sempre fra gli attori. Sempre tra quelli cioè che conoscono più la parola dovere che quella diritto. Tutta la mia educazione, fin da ragazzo, mi portava a farmi comportare così”.
Educazione come formazione di abiti mentali, morali e comportamentali – questo è il sedimento che la memoria crea e dal quale viene a sua volta alimentata. Le azioni corali, il “noi politico”, più ancora di quelle eccezionali di individui straordinari, sono rese possibili grazie al tessuto etico-politico che si traduce in educazione e tiene vivo un patrimonio storico di passioni e di conoscenze, le quali nel tempo sedimentano idee e ispirano la volontà. L’oblio è, da questo punto di vista, come uno sbriciolamento di quel tessuto comune che l’educazione sedimenta e alimenta; è erosione della coralità. Una scuola che istruisce nelle conoscenze tecniche, ma non educa i sentimenti morali e civili e non forma l’abito critico a riflettere sul significato delle scelte individuali e collettive, è insieme un esito e una causa di quell’oblio.
Nel suo libro Un tempo senza storia, Adriano Prosperi ha parlato recentemente di “malattia dell’oblio” e di “obbligo del ricordare come unico argine difensivo dal pericolo di ripetizioni” degli orrori passati — il ricordo, quindi, non come inutile erudizione ma come alimento della volontà ed educazione dei sentimenti. Prosperi ci ricorda le riflessioni di Walter Benjamin sull’Angelus Novus di Paul Klee, un angelo che vola lontano dal passato sul quale tiene fisso lo sguardo; dalla memoria riceve la forza di andare avanti nella tempesta che lo avvolge e l’ispirazione a fare nuove scelte. Un progresso è tale solo se chi lo promuove è consapevole della “tempesta” che è costato e delle differenze e delle similitudini con quel che si è lasciato alle spalle.
https://www.treccani.it/, 25 aprile 2021