L’audience del populismo

29 Maggio 2018

Nadia Urbinati Consiglio di Presidenza Libertà e Giustizia

Il governo che sta per nascere è indubbiamente di stile populista, anche se (e per nostra fortuna) l’essere una coalizione lo renderà meno padrone. Anche questa è una dimostrazione della maggior sicurezza che ci dà una democrazia parlamentare. Ma il tema da affrontare qui è un altro; pertiene alla natura propagandistica permanente della democrazia populista. Per cogliere questa sua natura di governo basato su un permanente e diretto rapporto con l’ audience, dobbiamo soffermarci sulla colla che tiene insieme i diversi temi di un movimento, e poi governo, populista: l’anti-establishment. È importante anche per evitare una facile e mal riposta illusione: per battere il populismo si deve volere che esso stesso diventi establishment, che neghi cioè se stesso nei fatti. Questa inferenza è purtroppo mal congegnata e dà adito a un’ inutile speranza.

La reazione del populismo non è tanto contro le élite in generale, ma contro le élite politiche. Questo spiega perché i leader populisti non abbiano bisogno di provenire dai ceti popolari per reclamare, con successo, la loro estraneità alla casta e il loro essere ” come” i cittadini ordinari. Ciò che è necessario è che non appartengano all’ establishment politico, perché è questa non-appartenenza che rende la loro posizione simile a quella dei cittadini ordinari. Questo spiega perché milionari come Ross Perot, Silvio Berlusconi e Donald Trump rientrino perfettamente nella propaganda anti-élite.

Particolarmente in tempi di sofferenza economica e sociale di larghi strati popolari, gli argomenti anti- establishment possono facilmente sovrapporsi alle distinzioni tradizionali di destra e sinistra, unificando sostenitori di politiche sociali e di politiche neo-liberali ( reddito di cittadinanza e flat tax) sotto il capiente ombrello della retorica populista.

 

L’ anti- establishment populista si concretizza in un appello a sostituire il popolo sbagliato (quello ” inautentico” dei ” pochi” beneficiari dalla democrazia dei partiti) con quello vero. Chiaramente, quella populista non è una richiesta rivoluzionaria. Si tratta molto più semplicemente di un processo di sostituzione dell’ élite esistente con un’ altra.

Dato tutto questo, si potrebbe pensare che il populismo al potere si condanna con le proprie mani perché mentre la forza della propaganda anti-establishment funziona quando sta all’ opposizione, diventa controproducente una volta entrata nella stanza dei bottoni.

Ma questa visione rosea non tiene conto di questo fatto: i movimenti populisti si alimentano solo per mezzo dell’audience, non hanno altra risorsa che la propaganda. Ciò significa che il populismo al potere impiegherà risorse ingenti nel cercare di dimostrare che, nonostante sia al potere, non è establishment, non è casta. E ciò spiega le due possibili strategie che sceglie di seguire: una campagna elettorale permanente con l’ intento di ” provare” che sta facendo un lavoro sovrumano per resistere alle forze avverse che lo vorrebbero trasformare in establishment, oppure, e addirittura, la tentazione di cambiare la Costituzione. Nei casi radicali (come il Venezuela o l’Ungheria) vengono e vennero usati tutti e due i pedali. Nei casi più blandi, (Stati Uniti) viene usato solo il primo.

Comunque sia, la macchina populista è sempre in azione, anzi lo è ancora di più quando ha il potere, perché deve dimostrare che il potere non la cambierà. A questo è finalizzata la sua manichea distinzione establishment/cittadini ordinari, e la ricerca di un “avvocato del popolo” rientra perfettamente in questo schema. Poiché si tratta di una pura costruzione ideologica che si alimenta su e da se stessa, i fatti contano poco, anche perché possono essere facilmente accomodati ad arte. Quindi non vi è proprio nulla di che rincuorarsi nel vedere i populisti al potere, poiché essi hanno messo già in conto di dover dimostrare, contro le prevedibili previsioni dei nemici, di non cadere nel tranello dell’establishment. 

Repubblica, 26 maggio 2019

Politologa. Titolare della cattedra di scienze politiche alla Columbia University di New York. Come ricercatrice si occupa del pensiero democratico e liberale contemporaneo e delle teorie della sovranità e della rappresentanza politica. Collabora con i quotidiani L’Unità, La Repubblica, Il Fatto Quotidiano e con Il Sole 24 Ore; dal 2019 collabora con il Corriere della Sera e con il settimanale Left.

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