Perché scienza e politica devono essere libere

15 Novembre 2020

Gustavo Zagrebelsky Presidente Onorario Libertà e Giustizia

 

Nel dibattito attuale esistono parole diverse e vicine che generano confusione. Nessuno ha il monopolio delle definizioni, ma a tutti si deve chiedere di chiarire che cosa sono gli strumenti concettuali che usano. Iniziamo dunque da qui, cercando di precisare che cosa si può intendere per scienza e per politica, e quale posto esse rispettivamente occupano: questione antica, anzi antichissima, ma che si ripropone sempre di nuovo, soprattutto in tempi critici d’insicurezza. Si tratta di un aspetto della questione a proposito del rapporto tra natura e artificio, questione alla quale nessuno, tantomeno io, può illudersi di porre la parola fine. 

Tuttavia, è possibile, anzi necessario, precisare il significato che si intende attribuire a queste due parole: scienza e politica. La scienza si occupa di ciò che è “per natura”; la politica, di ciò che è “per artificio”. Altrimenti detto, la scienza si rivolge a dure e testarde verità che stanno al di fuori della volontà e dei desideri degli umani; la politica riguarda mutevoli e discutibili preferenze. La scienza si propone di conoscere; la politica, di scegliere. In sintesi, la scienza si occupa di ciò che è indipendentemente da noi; la politica, di ciò che vogliamo che sia e crediamo che possa dipendere da noi. Una distinzione chiara? Non direi: c’è il dubbio che la “scienza politica”, insegnata in tante università, nasconda un ossimoro insidioso. 

Innanzitutto, un chiarimento. Usando la parola politica, non intendiamo cose che riguardano la politica dei partiti, ma ciò che ha a che vedere con ciò che si fa, da chiunque si faccia, per modellare e governare la dimensione pubblica della vita, cioè la pòlis. Per questo “politica”. Un concetto larghissimo che comprende, certamente, l’attività dei partiti, ma non l’esaurisce. Esclude i pensieri e le attività che nascono e muoiono nella dimensione individuale e privata e che, a bene pensarci, sono assai poco numerose. Non è vero che tutto è politico, come diceva l’ingenuo ’68, ma è vero che moltissimo è politico. 

Nelle società libere, scienza e politica sono a loro volta libere. Anzi, il segno più chiaro delle società che amano la libertà è la libertà della scienza (e dell’arte, naturalmente) e della politica. Ciascuna di esse pretende di non avere limiti: se si prostituissero, come fu per la chimica, la fisica, la sociologia, l’arte sotto il bolscevismo e il nazismo, e in generale in tutti i regimi totali o totalitari, le condanneremmo come tradimenti. Lo stesso per la politica: nei regimi liberi, la politica è, per definizione, libera di darsi i suoi fini. Che ne sarebbe se fosse costretta a ubbidire a una religione, a una ideologia, a una verità pre-confezionata? «L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento»; tutti i cittadini sono liberi di associarsi per determinare la politica nazionale: così parla la Costituzione. Libere, ciascuna nel suo ambito, ma ciò non significa che non si incontrino. Al contrario. L’espansione dell’una implica la riduzione dell’altra. Contro ciò che si pensa generalmente, lo spazio della scienza, della scienza “pura”, incontaminata dalla politica, si è ridotto grandemente a vantaggio di quest’ultima. L’umanità è sempre più in condizione di creare condizioni artificiali, cioè politiche nel senso ampio anzidetto, là dove un tempo operava la “natura incontaminata”. 

Perfino ciò che riguarda la vita e la morte, la costituzione degli esseri viventi e le loro dotazioni sessuali, le funzioni cerebrali, tutte cose fino a non molto tempo fa appartenenti integralmente alla natura intatta, è entrato nella sfera delle realtà artificiali. La bio-politica è questa espansione, da un lato, e questa restrizione, dall’altro. Se e quando gli esseri umani riusciranno a creare la vita dal nulla o sconfiggere la morte con le loro arti demiurgiche, si potrà dire che l’artificio ha vinto su tutta la linea. L’artificio si nutre di scienza ma, al momento stesso, le dice: ora io ti sottraggo il campo dove tu dominavi incontrastata, perché mi hai dato tu stessa gli strumenti per sconfiggerti e lì per fare le mie scelte, cioè “fare politica”, per l’appunto “bio-politica”. 

Una vittoria, tuttavia, molto rischiosa perché tutto, letteralmente tutto, dipenderà allora da “decisioni” e le decisioni appartengono non alla scienza ma alla politica. Non esisterà più alcuna dimensione spoliticizzata dell’esistenza e non potremmo dire: noi qui non possiamo entrare; dunque, prendiamoci un po’ di riposo. Non ci sarà rassegnazione perché tutto si vorrà sperimentare “politicamente”. Poiché la politica è il luogo dei conflitti, è possibile che si precipiti in una Babele, oppure che qualcuno si erga a decidere un ordine, arbitrario o “algoritmico”. È questo il nostro destino, dopo avere celebrato la vittoria della scienza onnipotente sulle religioni, sui miti, sulle superstizioni, insomma su tutto ciò che ci pare antiscientifico? Per la verità, le società libere consapevoli della loro fragilità hanno cercato di cautelarsi e sostituendo gli incantesimi hanno proclamato che vi sono “cose” che non si possono toccare, su cui non si può decidere. Queste cose sono innanzitutto la dignità e i diritti umani. Li abbiamo inscritti con parole solenni in costituzioni, convenzioni e dichiarazioni. La speranza, o l’illusione, è che essi così, siano diventati intoccabili, non più “decidibili” perché decisi una volta per tutte. 

Ma come possiamo stare tranquilli e non pensare che, invece, ciò che è stato deciso una volta potrà essere “ri-deciso” un’altra volta? Come può una dichiarazione vincolare chi l’ha fatta? L’auto-vincolo non è vincolo, ma possibilità sempre aperta. Le costituzioni non sono garanzie assolute perché sono esse stesse la massima espressione della politica che, come le ha fatte, così le può cambiare. E, ora, il termine medio, la tecnologia. La scienza e la politica entrano nella vita attraverso la tecnica e la sua scienza pratica, la tecnologia. Senza tecnologia, la prima è superflua; la seconda è fatua. Hanno bisogno della tecnologia. A sua volta, la tecnologia ha bisogno sia dell’una che dell’altra. La scienza le dà alimento; la politica, direzione. A meno che la tecnologia perda il suo proprium, cioè la sua natura strumentale, e s’insuperbisca fino a diventare un regno a se stante, causa e fine di se stessa. Diventi cioè autoreferenziale. Questo è il grande rischio del nostro tempo, la società in mano a una tecnica che alimenta se stessa e mira al proprio incondizionato potenziamento. Senza accorgersene, diventa una bomba che può cadere nelle mani di chi ha interesse a usarla per fini che i tecnocrati ignorano. Anzi, vogliono ignorarli pensando così d’essere puri. Errore fatale! 

La “neutralità etica” della tecnologia fu uno dei tormenti di Primo Levi, espresso innumerevoli volte e, soprattutto, in scritti ricchi di pathos intitolati Covare il cobra e Così fu Auschwitz. Siamo figli di quell’Europa dove è Auschwitz. Viviamo nel tempo in cui la scienza ha partorito il codice razziale e l’ha messo in atto con le camere a gas. Chi può dirsi di vivere sicuro. Ciò che ha turbato Levi fino alla fine della sua vita è la “tecnologicamente avanzata” ditta Topf di Wiesbaden che, producendo inceneritori di rifiuti, fornì attrezzature ad Auschwitz e poi ritornò come se niente fosse all’attività precedente, ritenendo superfluo cambiare la propria ragione sociale. Analogamente, per la Bayer produttrice dell’aspirina e dello Zyklon b, inventato – ironia della storia – da un ebreo tedesco per la disinfestazione di insetti parassiti, che fu poi destinato alle camere a gas, sulla linea di una spaventosa coerenza. La “grande follia” della tecnologia che Levi ha cercato di svelare è un segreto universale che non cessa di minacciarci quando si crede di poter creare tecniche avendo sempre la coscienza a posto. 

La morale evapora e tutti possono sentirsi innocenti. Il catastrofismo del nostro tempo, misticheggiante e, a sua volta, irresponsabile, fa suo il motto di Martin Heidegger: nessuno potrà salvarci, solo un Dio. Noi qui contrapponiamo la voce misurata di Levi. In una società libera non fingiamo di non avere alternative: «Non lasciarti sedurre dall’interesse materiale o intellettuale, ma scegli entro il campo che può rendere meno doloroso e meno pericoloso l’itinerario dei tuoi coetanei e dei tuoi posteri. Non nasconderti dietro l’ipocrisia della scienza [tecnica, secondo le nostre definizioni] neutrale: sei abbastanza dotto da saper valutare se dall’uovo che stai covando sguscerà una colomba o un cobra o una chimera o magari nulla». 

Queste parole dovrebbero aprire un nuovo capitolo alla nostra riflessione, su che cosa può tenere insieme scienza, tecnica e politica nella libertà. Qualcuno direbbe, e io tra questi: la cultura. Cultura e coltura hanno la medesima radice. La cultura bonifica la società perchè non cada in mano ad apprendisti stregoni, così come la coltura bonifica i terreni per impedirne l’invasione delle erbacce. La cultura è vicina alla coltura dei prati e dei campi. Gli intellettuali sono come i contadini. Sono fratelli, ciascuno nel proprio ordine di cose. Le analogie possibili e illuminanti ci porterebbero lontano.

La Repubblica, 14 novembre 2020

 

Nato a San Germano Chisone (To) il 1° giugno 1943. Laureato a Torino, Facoltà di Giurisprudenza, nel 1966, in diritto costituzionale, col professor Leopoldo Elia.

  • Professore di diritto costituzionale e diritto costituzionale comparato alla Facoltà di Giurisprudenza e alla Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Sassari dal 1969 a 1975.
  • Professore di diritto costituzionale comparato alla Facoltà di scienze politiche dell’Università di Torino dal 1975.
  • Professore di diritto costituzionale alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Torino, dal 1980 al 1995.

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