A chi teme che si immetta il bacillo della politica “contro”, occorrerebbe far presente che quanti scendono in piazza in questi giorni, semmai, sono lì in reazione a questo bacillo che da anni ammorba la politica. Dunque non va tolta autorevolezza a chi li rappresenta in tv: basta con il “tu”.
Vi è un principio semplice alla base della democrazia: la quantità viene prima della parola e dà voce. Il Manifesto delle 6000 Sardine appena pubblicato e prima ancora l’imprevista loro emersione in Piazza Maggiore, a Bologna, dicono essenzialmente questo. E lo fanno con gentilezza ed eloquente chiarezza, senza aggredire. Una gentilezza che manca a molti conduttori e ospiti televisivi quanto si rivolgono a Mattia Santori, uno degli ideatori delle Sardine bolognesi, con il “tu”, come a volergli togliere autorevolezza.
Segno questo di un fenomeno più vecchio e profondo, che ha a che fare con la diffidenza verso i movimenti che sorgono spontanei, le manifestazioni di giudizio pubblico che fuoriescono dalle istituzioni e dai partiti. I commentatori politici si sono in questi giorni soffermati su questo movimento delle sardine per esprimere preoccupazione che non si voglia sostituire ai partiti o che non esageri la sua forma opposizionale con l’esito di gettare la politica in un nuovo ring per pugili (come se questa non fosse già la realtà delle cose!). Queste sono preoccupazioni poco perspicaci. Le 6000 Sardine hanno mostrato l’esistenza di due problemi seri nelle società attraversate dal populismo.
Il primo problema è che lo stile populista è onnivoro e assolutista, imperante in ogni momento della giornata e su ogni mezzo di comunicazione – spesso con la compiaciuta cooperazione dei media che vanno a caccia di ascolto sguinzagliando i paroloni e le frasi ad effetto di cui i populisti sono capacissimi e generosi. A fronte di questo uso aggressivo e antideliberativo del linguaggio pubblico il rischio è che tutto e tutti debbano diventare populisti per potersi confronatre con l’avversario.
Come insegna la storia politica dell’America Latina, il populismo costringe ad essere tutti populisti. Il movimento delle Sardine ha affrontato questo problema occupando uno spazio con la fisicità e la quantità, senza parola. Come a voler dimostrare che ci sono le persone non l’audience; che le aggressioni verbali che vengono gratuitamente dispensate ogni minuto contro chi non è dalla parte giusta possono essere messe a tacere con il silenzio maestoso del numero. Condizione prima per impostare un nuovo stile del discorso pubblico.
Il secondo problema è direttamente legato alla rappresentanza nell’era dell’audience. La quale non passa quasi più per partiti organizzati ma attraverso la Rete e il digitale o il televisivo, e che costruisce in questo modo il soggetto collettivo: il popolo della Lega è quello che il suo leader incorpora, quello al quale lui dà parole e faccia. Non esiste molto probabilmente nessuno che empiricamente corrisponda a quella rappresentazione, ma può cominciare ad esistere per effetto di questo assoluto tam-tam propagandistico – le parole creano le cose, appunto. E le Sardine si sono divincolate da questa morsa rappresentativa e hanno mostrato che la rappresentanza è una cosa seria, alla quale deve seguire un qualche riscontro da parte dei rappresentati e del pubblico.
La rappresentanza populista costruita sul dualismo “amico”/“nemico” dipinge un mondo nel quale chi sta dalla parte sbagliata è rappresentato come “non vero italiano”. E le Sardine hanno portato in superficie quegli italiani bollati, denigrati e offesi come “zecche di sinistra” solo perché non solo leghisti. Cittadini dignitosi che non hanno ambizioni di panpolitica, ma vogliono rispetto e soprattutto vogliono la parola, quando serve che abbiano la parola. Per esprimere in maniera piana e serena che l’ubriacatura quotidiana di false e mezze verità e di umiliazione dell’avversario ha un limite, che la corda – appunto come si legge nel Manifesto delle 6000 Sardine – se tirata troppo si spezza.
A chi teme che le Sardine immettano il bacillo della politica “contro” occorrerebbe far presente che loro, semmai, sono nate in reazione a questo bacillo che da anni ammorba la politica. Fermarsi a ponderare sull’uso del linguaggio per atterrare l’avversario non per costruire la dialettica politica; sulla manipolazione della rappresentanza che decreta chi è “vero” popolo; sulla spersonalizzazione della cittadinanza trasformata in audience: questo le Sardine ci invitano a fare. E non è poco nel tempo del roboante populismo.
La Repubblica, 22 novembre 2019