La politologa interviene nel confronto di opinioni lanciato dal nostro giornale. Sostenendo che non dobbiamo temere l’ attrito che spinge i “molti” a contestare i “pochi”: è questa dialettica a mantenere sana la vita pubblica. La Francia dei gilet gialli, più radicalmente dell’Italia dei Vaffa, mette in discussione l’idea del ” patto” tra la ” gente” e le ” élite”, ci spiegano Alessandro Baricco ed Ezio Mauro nei loro interventi su Repubblica. Il tono dell’ analisi è mesto; preoccupato per il rovesciamento di posto: quel che stava sotto ora sta sopra – una lingua povera e una cultura approssimativa. E internet che dà a tutti il passaporto al discorso pubblico.
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Mariana Mazzucato interviene per correggere questa lettura ricordando come le grandi innovazioni, sociali e politiche, siano dipese dalla tensione dei ” molti” verso i ” pochi” più che dalla deferenza.
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Si tratta di due letture della politica ( e della democrazia) – una più egualitaria dell’altra; un assaggio di quelle stesse che hanno accompagnato la storia politica moderna e che, pur con le dovute proporzioni, hanno segnato la nascita e il declino del Partito Democratico. Un partito che ha nel suo dna una visione ingessata del rapporto élite/ gente.
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Per Machiavelli, che subì con l’esilio la Firenze medicea, il conflitto tra i pochi e i molti è l’ossigeno della libertà politica e civile – non l’accondiscendenza per i pochi né la rivolta anarchica dei molti, ma la loro interazione polemica (più che un patto, un compromesso per un mutuo interesse). La storia della libertà politica come storia di ” buoni ordini” – quel che oggi diremmo una costituzione e un sistema di regole democratiche condivise – che non nascono per volere delle aristocrazie e non si mantengono per loro merito; semmai sono l’esito di un potere strappato ai pochi.
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Poiché, si legge nei Discorsi, sono numericamente pochi coloro che amano il potere e di questo amore non sono mai sazi. Il massimo desiderio dei molti è la sicurezza di una tranquillità di vita quotidiana, dei possessi, degli affetti, di quel che oggi diremmo la libertà civile e personale. Quindi i pochi sono certo indispensabili al governo ma non sono i garanti della libertà – senza un controllo permanente, senza una prudente sfiducia preventiva alla loro tendenza a monopolizzare il potere, la libertà è perduta. Il danno arrecato dai pochi è comunque maggiore di quello che verrebbe della scompostezza delle moltitudini.
La nostalgia per le élite che sanno e provvedono trapela nelle opinioni contemporanee; un sentimento di diffidenza verso una lettura conflittuale della politica, nella convinzione guicciardiniana che nella stabile preminenza dei pochi che sanno stia la sicurezza dello Stato – dello Stato, appunto, non tanto della libertà.
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Se la politica è arte dello Stato, questa visione delle élite ha senso. Meno, se la politica è vita libera e civile, e diffidenza preventiva per il potere e chi lo tiene.
È il processo di circolazione e diffusione del potere la ragione per cui è desiderabile che ci siano attrito e conflitto.
A questa visione della politica appartiene una onorabile schiera di intellettuali, non solo repubblicani e classici, ma anche liberali e socialisti moderni. John Stuart Mill era così convinto che il conflitto delle idee e per il potere fosse il sale del progresso da essere disposto ad accettare il rischio di tensioni disordinate. Gramsci compose pagine memorabili sulle élite italiane che si abbarbicavano sul ceto e un sapere stantio per governare popolazioni ignoranti e a loro sconosciute. Mettere in discussione visioni accettate, fare le pulci anche al vero se e quando il vero si atteggia a dogma: questo è argine al privilegio e alla propensione delle classi dominanti a tenere il potere più a lungo possibile.
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Scrive Mazzucato che la dinamica sociale e democratica generata dalla tensione tra i pochi e i molti è un bene, non un fastidio; e si serve della storia classica per dirlo, ripetendo che le repubbliche acquistano e preservano le libertà grazie allo spirito di ribellione.
Perché le élite tendono ad attrarsi e a fare ceto. Si fiutano e si aiutano a vicenda. Qui sta la loro forza organizzativa, al contrario dei molti che sono dispersi. In questo divorzio, e soprattutto nello smantellamento delle forze organizzate che teneva pochi e molti uniti e in reciproca tensione, è il problema del nostro tempo; quello che ha alimentato risentimento in coloro che sentono di essere esclusi, che sanno della vergognosa divaricazione di salari e stipendi, uno schiaffo alla dichiarazione di eguaglianza scritta nella Costituzione.
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La democrazia non sopporta il consolidamento delle classi. E la scossa conflittuale è un bene, un bagno di realtà. Può non piacere l’approssimazione culturale, la caduta di stile e la grammatica incerta – ma l’umiliazione della scuola pubblica e l’abbattimento dei partiti devono pur essere rubricati come fattori determinanti, dei quali sono responsabili proprio coloro, i pochi, che hanno fatto credere di sapere provvedere.
Per un governo come la democrazia, scriveva Bobbio, il processo di trasformazione è una condizione naturale; la nostalgia non vi attecchisce perché se e quando i giochi sono aperti non è per nulla certo che il bene stia nel passato e non anche davanti a noi.
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La Repubblica,16 gennaio 2019