“L’oligarchia è la sola forma di democrazia, altre non ce ne sono, salvo la cosiddetta democrazia diretta, quella che si esprime attraverso il referendum”. Eugenio Scalfari, che scriveva queste parole nell’editoriale di domenica scorsa, ci stimola con la sua lapidaria catalogazione a chiederci se questa riproposizione di Robert Michels sia utile a capire (e soprattutto a gestire) la forma di governo nella quale viviamo, il governo rappresentativo.
Un governo che agli elitisti antidemocratici del primo Novecento sembrava null’altro che un’ astuta riedizione dell’oligarchia appunto, con le masse illuse che bastasse votare per vivere in democrazia.
Parlare di democrazia rappresentativa all’ interno di questo universo concettuale, attivato proprio quando l’ odiata democrazia si presentava sulla scena europea, ha poco senso.
Meno ancora ne ha pensare di rubricare il governo rappresentativo come democratico. Nello schema duale proposto da Scalfari – decidere direttamente oppure essere governati da un’oligarchia – è difficile far posto al governo rappresentativo. Difficile, anche, vedere lo scivolamento del governo rappresentativo verso una concentrazione oligarchica del potere.
Però la democrazia rappresentativa non è un ossimoro. Ha un’ identità e una tradizione sua specifica, con un pantheon di studiosi (certamente diversi tra loro) di tutto rispetto, a partire da Montesquieu e Condorcet, dai Federalisti americani a J. S. Mill, autori a Scalfari familiari.
Circa vent’anni fa Bernard Manin ha sistematizzato queste idee e proposto il governo dei moderni come un ” governo misto”, che tiene insieme forma oligarchica e forma democratica. L’oligarchia non è democrazia. E quando ha un fondamento nel consenso elettorale libero e ciclico può combinarsi con la democrazia (per questo, Madison rifiutava il termine oligarchia e parlava di “aristocrazia naturale”, per distinguerla da quella cetuale che non discende dalla selezione elettorale). L’ elemento democratico non sta solo nel voto (eguale nel peso e individuale) ma nel voto che prende corpo all’interno di una società plurale, fatta di un reticolo di opinioni, liberamente formate, comunicate, associate, discusse e cambiate. È il libero e plurale dibattito che dà alla selezione elettorale (di natura aristocratica, secondo gli antichi e i moderni) un carattere democratico.
Quindi la democrazia elettorale e discorsiva limita l’oligarchia, non è oligarchia. Perché è importante tenere insieme i pochi e i molti, o se si preferisce la distinzione di chi compete (poiché per competere occorre mostrare un’identità distinguibile) con la dimensione dell’ eguaglianza democratica? Tra le tante ragioni che si potrebbero addurre, una soprattutto merita attenzione: per impedire la solidificazione del potere dei selezionati; ovvero per scongiurare la formazione di una classe separata, oligarchica.
La temporalità del potere (la sua brevità di esercizio) che l’elezione immette nel sistema e la subordinazione dell’eletto (o del candidato) all’opinione di ordinari cittadini: questo fa della democrazia rappresentativa non un ossimoro e non una malcelata oligarchia, ma un governo unico nel suo genere, che contesta l’identificazione della democrazia con il voto diretto. E fa comprende perché nelle democrazie moderne la lotta, perenne, è sulle regole che presiedono alla formazione del consenso, all’organizzazione elettorale, e infine alla limitazione del tempo in cui il potere è esercitato. Nella tensione mai risolta fra diffusione e concentrazione del potere (democrazia e oligarchia) sta la dinamica della democrazia rappresentativa.
La Repubblica, 4 Ottobre 2016
L’articolo della Presidente di Libertà e Giustizia si riferisce all’editoriale di Eugenio Scalfari di domenica 2 ottobre sul dibattito tv Renzi-Zagrebelsky.