L’editoriale di Ernesto Galli della Loggia (Corriere della Sera, “Storia e inganni: la Nazione ha ancora un senso” 20 luglio 2018) si iscrive in quella corrente di pensiero che è stata troppo genericamente definita “euroscettica”, un’espressione coniata nel 1985 dal Times per definire l’ostilità del partito laburista britannico contro le politiche liberiste della Comunità Economica Europea. Da allora il termine “euroscettico” viene applicato indistintamente ai (pochi) partiti che si battono per l’uscita del loro paese dall’Unione europea (come l’UKIP di Neil Farage), ai (sempre più numerosi) movimenti contrari alla cessione o alla perdita dell’apparente sovranità nazionale nella dimensione sopranazionale, ad alcuni partiti della sinistra radicale e alle forze politiche di estrema destra xenofobe e antisemite.
Come avviene per la corrente di pensiero europeista nella quale occorre distinguere gli orientamenti moderati o conservatori di chi difende l’UE nel suo stato attuale – con le istituzioni consolidate nel Trattato di Lisbona (2009) e le politiche di austerità rappresentate dal Fiscal Compact (2013) – dalla cultura federalista che sostiene la necessità di sovranità condivise nel quadro di una democrazia europea multilivello, così fra gli euroscettici occorre distinguere fra chi sostiene l’idea di un’Europa intergovernativa nella quale prevalga la difesa degli interessi nazionali e la posizione di chi è contrario in se al progetto di integrazione europea e che ne propugna la fine e che potremmo definire più correttamente “euro-ostile”.
Vale la pena di ricordare che, dalla nascita della Comunità Economica Europea nel 1957, i cittadini e le cittadine di ventidue paesi europei sono stati chiamati quaranta volte a esprimersi per referendum sul processo di integrazione europea dando il loro consenso ventinove volte (a cominciare dal primo referendum “europeo” nel Regno Unito del 1975) e il loro voto contrario undici volte ivi compreso il doppio “no” dei norvegesi all’adesione.
Si è concluso un ciclo durato oltre venti anni, segnato da una globalizzazione caratterizzata da politiche liberiste senza regole, da una crisi economica che è stata la più lunga e profonda che abbia mai attraversato il mondo. La crisi ha prodotto disuguaglianze tra i ceti sociali in conseguenza di un processo redistributivo della ricchezza a scapito del lavoro, del ceto medio e dei giovani e tra i popoli, in cui con la stessa logica non i ceti, ma le economie più forti hanno prodotto un ulteriore impoverimento all’interno dell’UE dove vivono oggi centoventimilioni di persone che rischiano la povertà e l’esclusione sociale.
L’intero pianeta è interessato da processi che, in maniera sempre più interdipendente e con velocità crescente, ne mettono in discussione l’assetto geopolitico e ne accrescono gli squilibri sociali: da quelli concernenti la finanza e le monete alla loro ricaduta sull’economia e sull’assetto sociale, dalla crescita della popolazione mondiale alla disperata migrazione delle parti più deboli di essa che rende sempre più aleatoria la distinzione fra richiedenti asilo e migranti economici, dal consumo eccessivo delle risorse naturali non rinnovabili alla compromissione irreversibile dell’ambiente, dal miglioramento delle condizioni di benessere di una parte minoritaria della popolazione del pianeta al precipitare in condizioni di crescente povertà, fame e malattia di un’altra parte notevole della stessa popolazione.
Questi processi interdipendenti, se non governati da autorità sopranazionali, provocheranno devastazioni degli assetti istituzionali anche nelle democrazie più progredite del pianeta. Le conquiste di civiltà, in particolare quelle che caratterizzano l’Europa, conseguenti a contraddittorie e controverse secolari azioni di dominio mondiale, rischiano di essere messe in discussione. L’illusione degli Stati europei che ritengono di attraversare, immuni, gli sconvolgimenti planetari ai quali assistiamo rinchiudendosi nell’ottocentesca dimensione nazionalista sarà spazzata via, non solo dai flussi migratori africani e asiatici, ma anche dal progredire degli Stati continentali.
Alle problematiche sopra accennate si aggiungono, tra le altre, quelle dell’energia e dell’ambiente che continuano a essere affrontate dagli Stati nazionali, singolarmente e nelle sedi internazionali, con scarse possibilità di successo in assenza di soggetti di governo e di politiche che consentano di fronteggiare e governare i processi interdipendenti che le caratterizzano. Per rispondere al neoprotezionismo USA, al nazionalismo russo, alla trasformazione nella rete dei poteri globali e al neocolonialismo economico cinese, l’UE dovrebbe essere dotata degli strumenti necessari a svolgere un ruolo autonomo di attore politico a livello planetario per contribuire ad avviare un nuovo ciclo nel governo dell’interdipendenza segnato da uno sviluppo equilibrato e sostenibile, dalla distensione e dal rispetto della dignità umana. Se la globalizzazione ha cambiato – nel bene e nel male – il mondo in rapidissima sequenza, l’UE è così apparsa incapace di reagire velocemente e in modo adeguato, prigioniera del potere multi cefalo dei governi nazionali in settori chiave per la gestione di problemi di carattere transnazionale.
Al contrario di un Leviatano o di un Impero europeo che dà ordini a stati e sudditi satelliti dall’alto del Berlaymont (la sede della Commissione europea a Bruxelles), il potere europeo è passato progressivamente nelle mani dei governi nazionali e, per essi, dei capi di Stato e di governo riuniti nel Consiglio europeo all’interno di un’inedita “Santa Alleanza” che costituisce quello che Habermas chiama il
“federalismo degli esecutivi”. Amplificata dalla rivoluzione tecnologica e digitale, la globalizzazione ha sconvolto in questi anni gli equilibri più di quanto si immaginasse, causando una rapida redistribuzione internazionale del lavoro, delle ricchezze e degli investimenti. Se la
portata inedita di tali fenomeni e il loro manifestarsi in veloce sequenza hanno cambiato il mondo, rendendo precari gli equilibri, l’UE è apparsa vittima del suo gradualismo, delle risibili risorse finanziarie del bilancio UE pari all’1% del PIL europeo e gestito da un’euro-burocrazia che costa a ogni cittadino 1.40 Euro al mese.
L’analisi di Galli della Loggia sulla delegittimazione alla radice della dimensione nazionale non è fondata perché:
– le differenze fra gli Stati nazionali non sono state eliminate e le nazioni non sono morte, il primato della Germania non ha imposto il tedesco lasciando l’egemonia all’inglese internazionale in una lingua franca che rimarrà anche dopo il Brexit mentre la Torre di Babele dell’UE continuerà a garantire le culture nazionali
– gli Stati nazionali non si sono smembrati, la Lega Nord è diventata Lega nazionale e gli indipendentisti catalani si siederanno al tavolo del negoziato con il nuovo governo socialista di Pedro Sanchez
– i parlamenti nazionali hanno recuperato parte dei loro poteri con il Trattato di Lisbona mentre non è nato un “macroscopico progetto di potere”, i governi nazionali non sono stati eliminati, non hanno perso di importanza ed è l’ectoplasma del “governo europeo” (la Commissione Juncker) che è diventato esecutore dei governi nazionali
– il pluralismo non è stato negato e gli indirizzi comuni nella sanità, nell’istruzione, nella cultura e nella ricerca sono passati dai tentativi (falliti) di armonizzazione al mutuo riconoscimento. Quel che è buono in un paese è buono anche negli altri anche se non tutto viene accettato da mercati diversi
– la cittadinanza europea non ha sostituito le cittadinanze nazionali (si è cittadini europei se si è cittadini di uno Stato membro) ma ha aggiunto a esse diritti comuni che sono stati consolidati nella Carta europea dei diritti fondamentali. Secondo l’interpretazione della Corte costituzionale italiana (la teoria dei contro limiti”) se una costituzione nazionale garantisce un livello di diritti superiore a quello della Carta, prevale la costituzione nazionale
– la costituzione italiana è arrivata buon ultima nel 2001 nell’adattamento alla dimensione europea per definire e delimitare i “vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario” dopo le costituzioni tedesca, francese, belga, irlandese e spagnola.
Ogni giorno di più la realtà mostra, drammaticamente, che non ci può essere alternativa all’unità europea nella prospettiva di rinsaldare la secessione secolare con l’Oriente e con il Mediterraneo. Per costruire quest’alternativa serve con urgenza una “operazione verità” condotta da un vasto movimento di opinione ben al di là dell’associazionismo europeista, una alleanza di innovatori che nasca dal mondo dell’economia e del lavoro, della cultura e della ricerca, delle organizzazioni giovanili e del volontariato coinvolgendo tutti coloro che vivono l’utilità dell’integrazione europea e pagano le conseguenze dei costi della non – Europa.
Quest’alleanza potrebbe costituire il punto di partenza di una coalizione in vista delle elezioni europee del 26 maggio 2019, che unisca l’internazionalismo socialista, il cosmopolitismo liberale e l’universalismo cristiano senza dimenticare la cultura ambientalista nella sua accezione moderna dello sviluppo sostenibile e della lotta al cambiamento climatico, per andare al di là della farsa democratica del metodo degli Spitzenkandidaten del 2014 – che assegna al candidato del partito di maggioranza relativa la presidenza della Commissione europea e distribuisce a cascata le “poltrone” europee – ponendo le basi di un programma di governo di legislatura intorno ad una candidatura condivisa alla presidenza dell’Unione (Consiglio europeo e Commissione in una “unione personale, come propose Giuliano Amato alla Convenzione sul futuro dell’Europa), scelta eventualmente attraverso delle primarie europee.