Ora che è stato archiviato, col prevedibile esito del non raggiungimento del quorum, il referendum maldestramente ribattezzato NoTriv che si proponeva di abrogare la norma che consentiva la proroga sine die delle concessioni per le attività già esistenti di estrazione di idrocarburi entro le dodici miglia dalla costa, è tempo di qualche riflessione pacata su alcune dinamiche astensioniste, che tanta parte hanno avuto nel risultato del 17 aprile scorso.
L’astensione è naturalmente una scelta lecita: come è noto, la nostra Costituzione fissa il voto come “dovere civico”, ma il diritto italiano non proibisce né tantomeno sanziona chi decide di non votare. Il punto su cui interrogarsi non è dunque se gli astensionisti abbiano agito entro i propri diritti, come sicuramente hanno fatto. È invece consentito avere qualche dubbio sul fatto che sia stata moralmente corretta sul piano dell’etica pubblica la scelta di chi ha optato per l’astensione allo scopo di far fallire il referendum; di chi ha cioè scelto consapevolmente di sommare il proprio voto contro la proposta referendaria all’astensionismo fisiologico e ha così contribuito a impedire il raggiungimento del quorum, dunque la modifica della norma. Per quanto, come nota, un simile comportamento non sia certo una novità e, nei fatti, sia in qualche modo previsto dalle regole del gioco.
È infatti difficile negare, come già segnalava Mario Ricciardi nel suo pezzo di qualche giorno fa, la mancanza di fair play da parte di chi si è astenuto allo scopo di far prevalere il «no» e mantenere quindi in vigore la norma di cui il «sì» chiedeva invece l’abrogazione. Tale mancanza di fair play consiste nel fatto che gli “astensionisti del no” hanno spostato la contesa dall’alternativa sì/no all’alternativa voto/non voto, per poter così contare sul vantaggio attribuito dalla percentuale di quanti non vanno abitualmente a votare e di quanti, per impedimenti oggettivi, domenica non hanno potuto recarsi alle urne. Ancora una volta, quello che dovrebbe essere un duello ad armi pari si è tramutato in un duello ad armi dispari, in cui una parte, trasformando il «no» in un’astensione, ha potuto reclutare nelle fila degli oppositori alla modifica della norma i voti dei disinteressati abituali e degli assenti giustificati.
A ciò si aggiunga una seconda e maggiore fonte di perplessità: è corretto che chi ricopre cariche istituzionali non solo non partecipi al voto, ma addirittura esorti pubblicamente al non voto, con lo scopo esplicito di far fallire la consultazione? Ancora una volta, non sono in gioco violazioni di legge, nonostante alcune forze politiche si siano appellate all’art. 98 del Dpr 361 del 1957 che sanziona penalmente «chiunque investito di un pubblico potere o funzione civile o militare, abusando delle proprie attribuzioni e nell’esercizio di esse, si adopera […] ad indurli [gli elettori] all’astensione». Invitare a non recarsi alle urne pare piuttosto un venir meno ai doveri legati al proprio ruolo: c’è un che di stonato nel fatto che proprio coloro i quali traggono dalla partecipazione elettorale la propria ragion d’essere delegittimino l’istituto referendario in funzione di esigenze politiche contingenti, non importa quanto rilevanti. Tutto questo, peraltro, in un periodo di difficoltà dei processi democratici, con l’astensione in crescita, se è vero che siamo passati, a titolo di esempio, da una percentuale di votanti dell’88% alle elezioni politiche del 1983 a una percentuale del 75% alle elezioni politiche del 2013 (se si vogliono dati più eclatanti non è poi difficile trovarli: basti pensare al misero 38%, scarso, di partecipazione al voto raccolto alle ultime regionali in Emilia-Romagna).
Nel caso specifico di questo referendum, poi, non pare implausibile sostenere che vi sia stata anche una mancanza di rispetto istituzionale verso i nove Consigli regionali che sono stati promotori di questo referendum (e di altri cinque giudicati inammissibili dall’Ufficio elettorale centrale). Del resto, se hanno un senso il federalismo e le autonomie locali, si deve accettare che le Regioni possano dissentire sulle scelte del governo centrale e possano avviare una battaglia politica sui punti di disaccordo attraverso gli strumenti che l’ordinamento concede loro; e se si accetta questo, conseguenza di moralità politica è che si vada alla conta dei voti, non a quella dei non voti. Cioè si misuri, su quello specifico punto, il consenso reale di ciascuna delle due istituzioni in conflitto, non il consenso deformato dall’astensionismo strutturale.
Quella del 17 aprile 2016 non è stata una bella giornata per l’etica pubblica in Italia. Non è stata la prima, non sarà l’ultima; e altre esortazioni al non voto, non voto, in occasione di consultazioni referendarie, ci saranno sicuramente. Pioveranno anche in futuro altri inviti ad «andare al mare», continuando la tendenza inaugurata da Bettino Craxi nel 1991, all’epoca del referendum sull’abrogazione della preferenza multipla per l’elezione alla Camera dei Deputati. Anche se a Craxi, va ricordato, quell’invito, peraltro disatteso dal 62% degli Italiani, non si può dire che abbia portato molta fortuna.
www.larivistailmulino.it, 20 aprile 2016
(*) Corrado Del Bò, professore associato di Filosofia del diritto presso il Dipartimento di Scienze giuridiche “Cesare Beccaria” dell’Università di Milano