REFERENDUM, CHE ‘FASTIDIO’ PER I CITTADINI

03 Aprile 2016

 

“Qui siamo oltre l’esibito fastidio per qualche gufo o professorone”. Stefano Rodotà parla con un tono tra il dispiaciuto e il preoccupato: «Quello era folclore, se vogliamo, mentre oggi assistiamo a qualcosa di molto più grave. Il fastidio di Matteo Renzi questa volta non è per qualche singolo oppositore ma è direttamente per uno strumento costituzionale. Renzi ce l’ha con i referendum, e dice che sono inutili, perché sa che oltre agli effetti concreti sulle norme, quando sono promossi dal basso verso l’alto, dai cittadini o dalle regioni, e non sono plebiscitari come quello che avremo sulla riforma costituzionale, i referendum producono ricomposizione sociale. Ed è invece sulla disgregazione della società che il presidente del Consiglio ha impostato la sua strategia di governo, come dimostra la politica dei bonus, che dà qualcosa a ognuno – il bonus ai giovani, il bonus ai poliziotti, il bonus ai professori – e non a tutti». E «con l’attacco frontale ai referendum, cercando ogni modo per non attuarli, come nel caso dell’acqua pubblica, o dicendo che non bisogna andare a votare, come sulle trivellazioni, Renzi prosegue sulla strada della passivizzazione dei cittadini. Che è una strada che percorriamo da anni. Si diceva che i cittadini sono ormai carne da sondaggio, ma è un’espressione vecchia. Ora sono carne da tweet o da slide».

Professore però, effettivamente, a vedere cosa ne è dell’esito del referendum del 2011, potrebbero sembrare parole di verità quelle di Serracchiani, di Guerini o appunto di Renzi. I referendum possono essere inutili, si aggirano, si ignorano…

«Ma non è certo colpa dei cittadini. È il governo, e il Parlamento, che dovrebbero lavorare per dare attuazione a quanto indicato dalle consultazioni».

Ma non succede. Con quali effetti sullo strumento?

«Con effetti pericolosi e non solo per lo strumento referendario. Perché il ridursi degli spazi di partecipazione istituzionale produce reazioni extra istituzionali: quando si demonizza il referendum, che sia proposto da una raccolta firme o dalle regioni non cambia, si sta dicendo ai cittadini che è inutile rivolgersi alle istituzioni e alla politica. E i cittadini, per come possono, si rivolgono altrove».

La minoranza dem attacca la segreteria del partito sostenendo che mai è successo che il Pci-Pds-Ds-Pd si dichiarasse ostile alla consultazione referendaria. In realtà c’è il precedente del 2003: «Astenersi è un diritto, parola dei Ds», era lo slogan. Fu un errore anche in quel caso?

«È sempre un errore. E richiamare un cattivo precedente per giustificare una mossa politica, vuol dire perseverare».

Quello sull’acqua pubblica è un referendum tradito?

«È un referendum che ha bloccato un processo di privatizzazione ma che si sta cercando di tradire. Senza peraltro preoccuparsi di farlo in maniera smaccata. Scandaloso, ad esempio, è l’articolo 25 del decreto Madia sui servizi pubblici che prevede “l’adeguatezza della remunerazione del capitale investito”, usando esattamente le parole cancellate dal voto sul secondo quesito referendario. È palese l’illegalità costituzionale. Nel 2012 la Corte costituzionale aveva già dichiarato illegittime le norme che riproducono norme abrogate con il referendum».

Ma quel referendum obbliga a una gestione pubblica dell’acqua o ne stabilisce la proprietà pubblica, consentendo anche una gestione privata?

«Oggi si dice con superficialità: il voto non ha escluso la via di una gestione privata. Ma quello che il voto ha stabilito è però che quella privata non può essere la via preferenziale, come stabiliva il decreto Ronchi, con Berlusconi, e come vuole stabilire nuovamente il governo Renzi, sempre con il decreto Madia e con l’emendamento che ha riscritto la legge in discussione in parlamento, che originariamente riprendeva quella di iniziativa popolare. L’indicazione che si fa finta di non vedere è che la gestione dell’acqua deve essere in via prioritaria pubblica, pur nelle forme variamente partecipate, e slegata da logiche di mercato».

L’argomento del governo è che il pubblico produce inefficienza e non ha le risorse per i necessari investimenti sulla rete.

«Ancora una volta è la dimostrazione che si vuole ignorare l’esito referendario: l’argomentazione usata è la stessa di cinque anni fa, come se non ci fosse stato il dibattito. E, esattamente come quando si discusse all’epoca, si dice che la gestione pubblica è giocoforza pessima rimuovendo che i luoghi dove la gestione dell’acqua è migliore sono invece Milano e Napoli, dove è completamente pubblica».

L’indicazione del Pd su quel referendum fu per il sì, anche se – se non per iniziativa dei singoli circoli – non raccolse le firme. Cinque anni dopo, su “l’Unità”, il direttore, rispondendo a un suo articolo su “Repubblica”, scrive: «Non ha più senso la demagogia del bene comune che non fa i conti con la realtà concreta».

«Capisco che leggere i libri è un’attività che si sta perdendo e che il dialogo è ritenuto pericoloso. Ma il discorso sui beni comuni si sta svolgendo in tutto il mondo ed è un percorso opposto a quello che si vorrebbe imporre in Italia, dove le multiutility vogliono impedire che si avvii. Se si leggessero i libri, se ne troverebbero di scritti con particolare attenzione alle modalità di gestione, senza inconsapevolezza né ideologia».

Anche l’uso plebiscitario del prossimo referendum costituzionale sembra indicare una crisi dello strumento.

«Indica invece l’uso congiunturale che si è ormai soliti fare delle istituzioni. Il referendum viene usato quando fa comodo, quando può essere utilizzato per misurare il consenso del leader, mentre nelle altre occasioni se ne parla male. Invece il referendum – così come lo ha voluto il costituente, che ha escluso i plebisciti perché consapevole dei rischi – è proprio quello dal basso, promosso dai cittadini o da almeno cinque regioni. Ed è quello che rivitalizza la democrazia e la politica. Politica che peraltro, in questa fase, è stata fortemente sequestrata da una logica accentratrice. Intorno ai referendum si determina una ricomposizione sociale, di cui c’è molto bisogno, visto che ultimamente è stata favorita invece la frammentazione sociale, considerando superflui, ad esempio, i corpi intermedi».

La scelta di invitare a disertare le urne referendarie fa il paio con le riforme costituzionali ed elettorali volute da Matteo Renzi?

«Mi pare evidente. Anche se a voler legger bene la riforma Boschi c’è persino una contraddizione rispetto a quello che è l’atteggiamento di Renzi, che invita all’astensione scommettendo sul mancato raggiungimento del quorum, con una furbizia che prima di lui hanno usato in tanti, dalla Chiesa a Craxi. La riforma invece modifica i requisiti per la validità dei referendum proprio per scoraggiare il gioco dell’astensione».

Il referendum è l’antidoto alla deriva autoritaria che avete più volte evocato?

«C’è più modernità nei referendum, in questo sulle trivelle e in quelli che avremo nel prossimo anno, per cui si stanno raccogliendo le firme, dal Jobs Act alla scuola, che in tutta la riforma Boschi. Che è anzi una riforma conservatrice, che accentra il potere. Innumerevoli politologi hanno studiato il progressivo accrescimento del potere esecutivo e si sono chiesti come ricostruire gli equilibri costituzionali, come organizzare la politica e le istituzioni nell’era della sfiducia, per citare uno solo di questi scienziati politici, il francese Pier Rosanvallon. Una delle principali risposte è quella dei referendum, che riportano il potere nelle mani del cittadino, fosse anche come legislatore negativo».

 

L’Espresso, 30 marzo 2016

 

 

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