Quando la politica perde di vista la sostanza, comincia a litigare sulla forma. E chi ci va di mezzo è il custode delle regole. Sta accadendo così anche per la riforma del Senato.
La riforma più formidabile dipende da una formalità procedurale. Si può tornare indietro sulla (non) elettività dei senatori? Forza Italia, 5 Stelle, la minoranza del Pd ne fanno un punto dirimente; ma per la maggioranza sarebbe un accidente. Vietato dal sacro crisma del diritto, perché sulla questione c’è già un voto conforme di Camera e Senato; e allora guai a riaprire il vaso di Pandora, guai al presidente Grasso se dichiarerà ammissibile qualsiasi emendamento che ripristini l’elezione popolare.
Sennonché gli emendamenti cadono come coriandoli sul tetto di Palazzo Madama: ne sono stati presentati 513.450. Un altro trucco per impedire il voto, un’altra diavoleria procedurale. In Italia, succede molto spesso.
Quando la politica perde di vista la sostanza, comincia a litigare sulla forma. E chi ci va di mezzo è l’arbitro, il custode delle regole. Difficile applicarle, se ogni giocatore s’appella a una regola diversa. Ma chi ha ragione in questo caso? Per farsene un’idea, tocca sfogliare una margherita con tre petali.
Primo: il comma della discordia. Ossia la durata in carica dei senatori. Nel testo originario coincide con quella degli organi «nei» quali sono stati eletti; la Camera ha scritto «dai» quali. Non è una differenza irrilevante, perché altrimenti i senatori-sindaci rimarrebbero inchiodati alla poltrona fino allo scioglimento del Consiglio regionale che li aveva designati, pur avendo concluso il proprio mandato nei rispettivi municipi. Ergo, ora il Senato deve rivotare. In caso contrario, Mattarella non potrebbe promulgare la riforma: difatti la promulgazione attesta che una legge è stata deliberata «nello stesso testo» dalle due assemblee parlamentari. E d’altronde c’è almeno un precedente. Risale alla Devolution, alla maxiriforma bocciata poi da un referendum. Il testo del Senato diceva «in ogni caso in cui»; il testo della Camera «in ogni caso che»; e il 15 marzo 2005 il Senato lo votò daccapo.
Secondo: l’articolo (e l’arzigogolo). Ospita sei commi, non soltanto quello sulla durata in carica. E gli altri cinque regolano la composizione e l’elezione del nuovo Senato. Lì però i deputati non hanno spostato neppure una virgola, sicché adesso i senatori non possono emendarli. Così stabilirebbe il regolamento del Senato (articolo 104), vietando di rimettere in discussioni le parti non modificate dalla Camera. Sicuro? Intanto, la preclusione vale unicamente per gli emendamenti estranei alla disposizione normativa.
Inoltre si dà il caso che ogni legge debba essere votata «articolo per articolo»; e potrebbe darsi il caso che l’articolo in questione venga respinto in blocco, nel suo insieme. Come a dire che un emendamento interamente soppressivo è ammissibile, un emendamento leggermente
Precedenti Nel 1993 i partiti cambiarono regole sull’immunità parlamentare perché i presidenti delle Camere ammisero modifiche a un testo già votato
Modificativo no. Ma non ha senso: nel più è compreso il meno.
Terzo: la mossa del cavillo. Giacché è di questo che si tratta, quando si studiano espedienti per evitare di contarsi. Ma qui c’è in ballo la Costituzione, non un regolamento di condominio. E anche l’esigenza di viaggiare spediti — cui va incontro la disciplina della navette parlamentare — cede il passo rispetto all’esigenza d’un accordo condiviso. Nel 1993 i partiti cambiarono le regole sull’immunità parlamentare; e riuscirono a cambiarle perché i presidenti delle Camere (Giorgio Napolitano e Giovanni Spadolini) ammisero emendamenti su un testo già votato in copia conforme.
Un altro precedente, ma soprattutto una lezione: senza uno sforzo politico, ogni riforma diventerà una forzatura.
Il Corriere della Sera 29 Ago 2015
Illustri professori,
è dagli albori della “rottamazione” della Costituzione che ci fornite analisi erudite, competenti, appasionate sulle quali riflettere e maturare orientamenti consapevoli. Non passa giorno senza che qualcuno di voi ci aggiorni sui pericoli a cui andremo incontro, sul concentramento dei poteri, sul peggioramento della qualità della nostra democrazia, sulla riduzione della sovranità popolare (già ridotta a mero intercalare).
E quella minoranza di cittadini che legge le vostre riflessioni, ha sicuramente, e da tempo, capito che quella avviata è una vera e propria rottamazione e non solo uno slogan. E di conseguenza ha maturato una sensazione di pericolo immanente al quale non vede alcuna opposizione reale.
E l’angosci sale come l’intensità dell’attesa, mentre dal vostro piano attico perfette e allarmate analisi continuano a scendere fino alla nostra mefitica palude…
Illustri e stimatissimi professori,
non è più tempo di eccellenti documenti accademici, ma di progetti operativi urgenti se davvero anche voi volete difendere la qualità della nostra democrazia e non solo limitarvi alla denuncia!
“Stringetevi a coorte” e sintonizzatevi sinergicamente nella ricerca della via più efficace. La Costituzione, prima che venga rottamata, ci offre ancora la possibilità di reagire con successo prima che il fato si compia sui vostri e nostri desideri. Personalmente ne avrei trovato una che alcuni di voi hanno apprezzato ed avallato, che in sintesi si descrive come la Sovranità Popolare Realizzata, non solo enunciata, che esercita la Democrazia in-Diretta Propositiva imponendo al Parlamento un’agenda di lavori da voi “bollinata” e tale da riportare la Repubblica sulla rotta del progresso evolutivo Costituzionale.
“non è più tempo di eccellenti documenti accademici, ma di progetti operativi urgenti”
Paolo Barbieri
La costituzione vigente è sicuramente rigida, ossia non revisionabile se non con una rivoluzione, per quel che riguarda la scelta ordinamentale di governo quale “democrazia rappresentativa parlamentare”.
Una formula organizzatoria di governo che alla lettera attribuirebbe la titolarità del governo nel senso più ampio (legislazione e governo in senso stretto) ai rappresentanti del popolo eletti in parlamento (governo parlamentare).
Da qui la conseguenza che il parlamento avrebbe dovuto esercitare anche la propria funzione di governo in senso stretto con un organo di nomina parlamentare, la cui autonomia di adottare decisioni politiche avrebbe dovuto intendersi limitata al contenuto del programma politico per il quale il parlamento stesso era stato eletto.
I costituenti hanno evidentemente interpretato il principio di “democrazia rappresentativa parlamentare” in modo del tutto particolare, attribuendo sostanzialmente al parlamento (organo elettivo) la funzione legislativa, e al governo in senso stretto (non elettivo, e non di nomina parlamentare) la funzione di governo nel senso più ampio ivi compresa la funzione legislativa con il solo limite (teorico) di osservare nelle scelte politiche un mai da nessuno precisato indirizzo politico nazionale, ossia praticamente senza limiti di sorta per quel che riguarda l’azione politica.
Il modello organizzatorio di governo adottato dai costituenti, lasciando sopravvivere in senso sostanziale senza che ve ne fosse alcuna necessità istituzionale (la monarchia-esecutivo non esisteva più) il principio della separazione dei poteri (legislativo ed esecutivo), con l’attribuzione all’organo di governo di pressochè illimitati poteri di scelte politiche, ha mostrato sin dall’avvio dell’esperienza dei governi repubblicani notevoli limiti funzionali e una situazione di conflittualità permanente tra parlamenti e governi, con conseguenti crisi politiche di governo e parlamentari.
Questa situazione di conflittualità permanente fra i parlamenti e i governi è letteralmente costituzionale, ossia insita fisiologicamente nella scelta del modello organizzatorio adottato dai costituenti, ed è illusorio ritenere che si possa sanare con acrobatiche leggi elettorali o con le cosiddette larghe intese (inciuci compromissori con cui si vorrebbe eliminare persino il pluralismo).
In conclusione, deve essere modificato il modello organizzatorio di governo previsto nella costituzione vigente, con altro modello organizzatorio con cui si realizzi finalmente il principio di democrazia rappresentativa parlamentare, ossia di governo parlamentare.