Alla prima prova, regge la maggioranza «del Nazareno», cioè quella che sulle riforme costituzionali vede insieme Pd e Forza Italia dopo l’accordo firmato tra Renzi e Berlusconi nella sede del Pd ormai quasi sei mesi fa. In commissione affari costituzionali del senato l’asse democratico-forzista segna anche due gol, di quelli facili. Passano due emendamenti dei relatori assai poco discutibili: correggono errori nell’impostazione del governo. I punti critici vengono aggirati, rinviati. In attesa di giovedì quando Berlusconi dovrebbe dare il suo via libera definitivo. Intanto Forza Italia vota a favore, così rendendo inutile l’espulsione voluta da Renzi dei due senatori critici, Mineo del Pd e il centrista Mauro. Sulla sorte di quest’ultimo pende la decisione finale della giunta per il regolamento. Ma intanto si va avanti, se tutto andrà bene (per il governo) si proverà a chiudere in commissione per l’inizio della prossima settimana. Impossibile invece finire entro dopodomani, giorno in cui il Pd aveva preteso di fissare l’approdo della riforma in aula.
In due ore e mezza di lavoro sono stati approvati (quindici voti a undici) quattro emendamenti all’articolo uno del disegno di legge costituzionale Renzi-Boschi. Due dei relatori, un sub-emendamento trasversale che definisce il nuovo senato come «raccordo» tra lo stato e l’Unione europea e un altro dei riformisti (ex bersaniani) del Pd che inserisce tra le competenze quella di «esprimere un parere sulle nomine del governo». Le votazioni sono girate però alla larga dagli articoli 56, 57 e 58 della Costituzione, quelli che riguardano le modalità di elezione di deputati e senatori. Via libera all’emendamento Finocchiaro-Calderoli che conserva all’assemblea il nome di «Senato della Repubblica» (invece che «delle autonomie»), mentre viene stabilito che solo i deputati rappresentano la nazione, mentre i senatori «le istituzioni territoriali» e comunque solo la camera «esercita la funzione di indirizzo politico». È la fine del bicameralismo paritario.
Il secondo emendamento è quello che si dedica ai senatori di nomina presidenziale, correggendo l’impostazione del governo (che ne voleva 21) e prevedendone solo cinque, scelti (come gli attuali «a vita») tra «cittadini che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario». Resteranno in carica solo sette anni, e non potranno eccedere il numero di cinque. Il che significa che nel primo senato post riforma, dovendosi conservare il posto per gli attuali che sono già cinque più il prossimo ex presidente della Repubblica, non ci sarà spazio per nomine. Anzi, l’unico modo per evitare contrasti con la nuova norma sarà sperare nella rinuncia di uno o entrambi i senatori «di diritto».
Oggi si riprende con doppia seduta di commissione, mattina e pomeriggio, ma ancora con la necessità di girare attorno ai problemi seri che sono la modalità di elezione dei senatori — dissidenti del Pd, Sel, Cinque stelle attuali ed ex vogliono mantenere l’elezione diretta — e la composizione della camera. Su quest’ultimo punto non è in ballo solo l’equa ripartizione del «sacrificio» tra deputati e senatori. La proposta di abbassare il numero dei componenti della camera a 500 risponde soprattutto all’esigenza di rendere più difficile per un partito riuscire ad eleggere (quasi) in solitaria il presidente della Repubblica, dopo la terza votazione. L’emendamento 1.0.11 firmato dagli ex bersaniani può far ballare il governo, e la riduzione del numero dei deputati metterebbe in discussione tutto l’impianto della riforme e della collegata legge elettorale.
In commissione Renzi appare adesso in condizione di imporsi, resta però da vedere se i «riformisti» democratici vorranno riproporre i loro emendamenti in aula — come dice di voler fare Chiti a proposito dell’elezione diretta. In questo caso l’esito è tutt’altro che scontato. Intanto però Renzi gioisce per «l’ottima giornata», insiste a prendersela con «i gufi» e dice di essere «molto convinto e ottimista». Ma aspetta Berlusconi e i primi voti importanti.