Vincoli e debolezze che ci paralizzano

31 Ago 2015

Equilibri che credevamo in qualche modo stabili, dapprima lentamente, e poi con un moto progressivamente accelerato, hanno cominciato ad alterarsi e sembrano avvicinarsi tutti, in un modo o nell’altro, a un punto di rottura.

Si susseguono sullo scenario italiano ed europeo, per non dire mondiale, i segnali di crisi riguardanti assetti complessivi delicatissimi. Equilibri che credevamo in qualche modo stabili, dapprima lentamente, e poi con un moto progressivamente accelerato, hanno cominciato ad alterarsi e sembrano avvicinarsi tutti, in un modo o nell’altro, a un punto di rottura. Ne cito quattro che mi sembrano i più importanti. 1) La migrazione di masse umane sempre maggiori verso i Paesi più o meno sviluppati del Pianeta (non si tratta solo di quelli dell’emisfero Nord: è coinvolta anche l’Australia, e questo è noto, ma pure un Paese come il Sudafrica). I dati sono ormai conosciuti e impressionanti: basti dire che si prevede che quest’anno le richieste di asilo raggiungeranno nella sola Germania la cifra di 800 mila. 
2) La «tempesta demografica perfetta», come è stata definita, che si sta abbattendo sull’Europa sotto i nostri occhi perlopiù indifferenti. Nell’Ue – dove la Germania detiene il record della più bassa natalità mondiale: 8,2 nascite ogni 1.000 abitanti – per ogni donna vedono la luce appena 1,55 bambini. Ai ritmi attuali, per dirne una, in Spagna ogni nuova generazione conterà in futuro un numero di individui inferiore del 40 per cento rispetto a quella precedente. 
3) Le trasformazioni climatiche e, spesso connesso a queste, il degrado ambientale, fenomeno particolarmente grave in Italia; più in concreto: inquinamento, cementificazione del territorio, deforestazione selvaggia, dissesto geologico, esaurimento delle risorse idriche, crescita esponenziale dei rifiuti. 
4) Infine, i mutamenti radicali nell’ambito del lavoro. È pressoché certo che
i nostri sistemi economici stanno andando verso un’incapacità strutturale di assorbire l’offerta di lavoro disponibile. La robotica applicata ai processi industriali e la telematica sempre più diffusa nel settore dell’impiego e dei servizi stanno eliminando un numero alto e crescente di posti di lavoro, destinati per chissà quanto tempo a restare scoperti. È facile immaginare le conseguenze politiche
ma anche economiche (ad esempio, sulla domanda complessiva) di un fenomeno del genere. Ecco dunque quattro scenari che definiscono il tempo avvenire, ma già assai prossimo a noi, come un tempo di crisi destinato prevedibilmente a rappresentare un vero e proprio salto di epoca storica. A fronteggiare il quale in prima fila saranno chiamate le nostre società e i loro regimi politici. È allora naturale chiedersi fino a che punto tali regimi siano attrezzati per tentare di assolvere un simile compito. 

La sola domanda sembra già contenere una risposta negativa. Nella nostra vita politica (un po’ di tutti i regimi democratici, non parliamo poi dell’Italia) manca, infatti, qualsiasi istanza, qualsiasi organismo deputato a riflettere, prevedere e magari programmare qualcosa sui tempi medio-lunghi. Le democrazie europee vivono giorno per giorno. I loro esponenti, alle prese con scadenze elettorali più o meno continue e ravvicinate, possono pensare solo a quanto succederà fino a quel giorno. Al futuro ci penserà il prossimo governo. 

Si vede qui quanto pesi il vincolo del consenso. Infatti, anche se ci fosse l’attenzione (che invece non c’è ) per le avvisaglie di crisi epocale a cui ho accennato sopra, le misure eventualmente volte a farvi fronte per tempo – implicando problemi molto complessi e di lungo periodo che presumibilmente richiedono grandi investimenti di risorse che tuttavia non recano vantaggio ad alcun interesse organizzato qui e ora – ben difficilmente avrebbero mai la possibilità di entrare nell’agenda di un qualunque governo. Non solo, ma il vincolo del consenso proprio della democrazia agisce ancora in un altro modo, forse ancora più paralizzante, nell’ostacolare la capacità da parte delle nostre società di affrontare le questioni critiche che ci stanno davanti. In parte notevole, infatti, tali questioni implicano valori e comportamenti eminentemente individuali (per esempio, nel caso della fertilità come del consumo selvaggio di suolo o di risorse naturali) che dovrebbero dunque mutare in misura significativa. Ma può proprio la democrazia – la quale nella nostra versione liberale è ormai identificata con una sempre più autonoma manifestazione della soggettività – sperare di riuscire a influire in senso prescrittivo sul modo d’essere e d’agire dei singoli? E con quali strumenti? 

In realtà nulla come gli scenari di crisi che incombono sul nostro futuro prossimo – richiedendo un impegno arduo di tutti, di lunga lena e di scarsissimo appagamento nell’immediato – mettono in luce due gravi punti deboli del regime politico e della società in cui viviamo. Il primo consiste nell’assenza di un sentimento collettivo di appartenenza e di destino, riferito a un ethos condiviso dai più. Quel sentimento e quell’ ethos che un tempo avevano la loro premessa tipica nella fede religiosa o nel patriottismo: due cose che i grandi padri della democrazia hanno sempre ritenuto in qualche modo essenziali per l’esistenza di questa, per la sua capacità di affrontare i compiti più difficili, di riconoscersi in un’impresa comune. Due cose che però la secolarizzazione individual-cosmopolita ormai dominante non ha sostituito con niente di analogo valore. 

La seconda cosa che ci manca – che manca al sistema politico delle nostre democrazie – è l’esistenza di una sorta di «potere neutro», cioè di un potere designato sì, ma non solo per via politica, e indipendente dal meccanismo e dalle scadenze del consenso elettorale (sul tipo per intenderci della Corte suprema americana: fondamentale è la durata a vita dell’incarico). Il quale grazie al prestigio riconosciutogli fosse in grado di svolgere non solo una funzione forte di orientamento sull’opinione pubblica, ma per esempio avesse anche il potere d’imporre argomenti specifici nell’agenda degli organi deliberativi (non solo di quelli centrali ma anche di quelli locali) ovvero, a certe condizioni, di sospendere l’iter deliberativo degli organi suddetti in attesa di maggiori approfondimenti. 
Disgraziatamente è arcisicuro che invece le nostre democrazie resteranno quelle che sono. E si avvieranno a occhi bendati, come oggi stanno facendo, verso le tenebre del futuro. 

Corriere della Sera, 31 agosto 2015

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