“L’Europa è un continente rimasto senza idee”: a lanciare l’allarme sul Financial Times è stato Edmund Phelps, Nobel per l’economia. Nel braccio di ferro sulle misure di austerità che hanno messo alla gogna la Grecia (e domani altri Paesi), la parola “creatività” non ricorre mai.
La stagnazione delle economie nazionali, il Pil che da anni, quando va bene, sale (come in Italia) di qualche misero decimale: in questo gioco al massacro entrano le borse, i mercati, la troika, l’invadenza tedesca, le influenze americane o asiatiche. Ma che vi sia un qualche rapporto fra creatività ed economia non viene mai in mente. Secondo Phelps, «gli italiani trovano del tutto accettabile che la loro economia sia quasi del tutto priva di innovazioni autoctone da vent’anni, e sia capace solo di reagire alle forze del mercato globale, come se una nazione non avesse bisogno di dinamismo per essere felice». Ma può esserci felicità senza creatività? Secondo un’indagine del Pew Research Center di Washington (ottobre 2014), in Italia “l’indice di felicità” si ferma a 48 punti (Spagna 54, Grecia 37), mentre i Paesi emergenti, assai più creativi, volano alto: Messico 79, Brasile 73, Argentina 66, Cina 59.
L’Italia è fra i Paesi che Phelps sceglie a esempio di un’economia «meccanica, robotizzata, che ha per ingredienti la ricchezza, i tassi di interesse, i salari; ma ne manca uno, l’abilità e l’inventività degli esseri umani». L’efficienza (spesso sinonimo di ubbidienza) viene confusa con il dinamismo, l’alternanza ai vertici viene scambiata per innovazione, lo storytelling del successo prende il posto di ogni vero sviluppo. Una nuvola di parole occulta il destino dei cittadini e lo subordina alle decisioni, spesso incompetenti, di chi si insedia nella stanza dei bottoni. Il pensiero unico di una scienza economica spacciata per la sola possibile (come se non ne esistessero versioni e correnti alternative) alimenta la rassegnazione fatalistica alle “forze del mercato”, che come una fede religiosa non vacilla davanti alla perpetua crisi, ai continui fallimenti.
Rimettere al centro la creatività come rimedio alla stagnazione e alla crisi è oggi più che mai necessario. In questo senso va la distinzione, proposta dallo stesso Phelps nel suo recente “Mass Flourishing” (2013), fra la “prosperità” dei cittadini (far bene un mestiere per ottenere migliori salari) e la loro “fioritura” (coltivare l’immaginazione, esercitare la curiosità intellettuale, praticare la creatività). Una società può esser prospera senza essere fiorente, ma una società fiorente è sempre prospera: ed è solo nei periodi di massima fioritura della comunità civica che scatta l’innovazione, come si è visto dal Rinascimento al Novecento. Solo in una società fiorente, dove la creatività è un valore riconosciuto, vi sono le condizioni-base per una vita soddisfacente; solo chi può appagare la propria curiosità e inventiva avrà pieno rispetto per se stesso e si sentirà a pieno titolo parte di una comunità. Questo e non altro è il “vivere bene” che sbandieriamo come slogan, ma senza saperlo tradurre in progetto.
La categoria-chiave di questo ragionamento, la “fioritura” (flourishing), viene dalla filosofia morale (basti ricordare Martha Nussbaum e Julia Annas), che ne ha indicato le radici nel pensiero di Aristotele. L’eudaimonia di cui parla l’antico filosofo non è felicità effimera (il “successo”), ma senso di realizzazione della propria vita, delle proprie potenzialità: un sentimento che incardina l’individuo nella comunità (polis) di cui fa parte. La “fioritura” degli individui e delle comunità è precondizione indispensabile per lo sviluppo della creatività ad ogni livello, e dunque componente vitale dell’economia e della società, ma anche della democrazia, dell’equità, della giustizia.
È necessario interrompere, volando alto, il circolo vizioso di cui siamo prigionieri: l’Italia e l’Europa davvero sono a corto di idee, e perciò segnano il passo. La prosperità raggiunta (insieme al timore di perderla) produce più stagnazione che progresso: anzi, la pressione dei mercati e la concentrazione della ricchezza erodono i diritti (all’istruzione, alla salute, alla cultura, al lavoro) generando crescenti ineguaglianze. L’illusione della crescita si limita a qualche success story che riunisce in poche mani gli incrementi di produzione e di ricchezza; ma intanto il lavoro (dei più) diminuisce, e la produttività totale (i cui fattori sono capitale e lavoro) s’inceppa.
“Tasso di inventiva” e “tasso di felicità” sono strettamente collegati, perciò entrambi sono in calo in Italia (e in Europa). La scuola, devastata da riforme che puntano a educare non cittadini ma esecutori ossequienti, taglia le gambe alla creatività potenziale dei giovani, li induce ad appiattirsi sugli ideali aziendalistici di una superficiale efficienza e li spinge a reprimere il proprio talento per inseguire i mestieri e i mantra di un immutabile ordine costituito. La sgangherata discussione sui “conti salati degli studi umanistici”, considerati un lusso in tempo di crisi, elude il loro ruolo essenziale nella consapevolezza dei valori umani, nella capacità di esplorare criticamente il mondo e se stessi, nell’educazione a pensare fuori dal coro. Anche l’economia non è necessariamente perpetuazione dell’esistente, ma dev’essere sperimentazione del nuovo. E solo la “fioritura” degli individui e della comunità garantisce la «pari dignità sociale» dei cittadini prescritta dalla Costituzione (art.3).
Come ha scritto uno storico inglese, David Kynaston, «se la bandiera del thatcherismo era in ultima analisi la libertà dell’individuo, allora dobbiamo ammettere che negli ultimi anni tale libertà è stata così violentemente travolta, che è venuta l’ora di far ricomparire la sua antica compagna di scena: l’eguaglianza».
la Repubblica, 28 agosto 2015