LA DIFESA del confine o il suo allargamento ha armato da sempre la mano degli uomini. L’origine della violenza trova nel confine l’oggetto della sua passione più fondamentale: la distruzione del nemico-rivale muove Caino nel suo sogno narcisistico di essere l’unico, di far coincidere il proprio confine con il confine del mondo. È il delirio di tutti i grandi dittatori. Innumerevoli volte, nel corso della storia, il confine è diventato una questione di vita e di morte. Eppure l’esistenza del confine è necessaria alla vita. Alla vita di una città o di una nazione, ma anche alla vita individuale. Abbiamo bisogno di confini per esistere. È un problema di identità. Si può esistere senza avere un senso di identità? Senza radici e senza sentimento di appartenenza?
La psicoanalisi insegna che la vita psichica necessita di avere i propri confini. Questa necessità non è in sé patologica, né delirante, ma concerne un polo fondamentale del processo di umanizzazione della vita. Ecco perché la famiglia (al di là di ogni sua versione tradizionale — naturalistica) resta una istituzione culturale essenziale alla vita umana. In essa si esprime il bisogno di radici, di casa, di discendenza, di appartenenza, di riconoscimento che definisce la vita in quanto vita umana. Non bisogna sottovalutare l’incidenza di questa forte dimensione simbolica dell’identità.
NEI MOMENTI di crisi tendiamo ad accentuare il polo dell’appartenenza per ritrovare in esso un rifugio contro l’angoscia e lo smarrimento. Per questa ragione le grandi svolte reazionarie sono storicamente sempre state precedute da profonde destabilizzazioni dell’ordine sociale. Il bisogno di conservazione è strettamente connesso alla vertigine provocata dalla caduta del confine identitario. Senza confini la vita perde se stessa, si polverizza, si frammenta. È quello che insegna drammaticamente la psicosi schizofrenica: senza senso di identità la vita si disgrega, non ha più un centro, non sa più differenziarsi, non sa più riconoscersi nella sua differenza. Per scongiurare questo rischio, come la psicologia delle masse insegna, si può invocare un rafforzamento del confine, una sua impermeabilizzazione estrema.
Il “protezionismo” economico diventa in questo caso sintomatico: si tratta di proteggere l’identità di una città o di una nazione minacciata nella sua integrità e nella sua storia; si tratta di difendere il prodotto “interno” dall’invasione di quello che viene dall’”esterno”; si tratta di ristabilire i confini, di preservare la propria identità dal rischio della sua alterazione provocata dalla concorrenza invasiva dell’Altro. È questa una spinta sempre presente nella vita psichica che, come Freud ha indicato, manifesta una resistenza strutturale al cambiamento: di fronte al pericolo dell’alterazione dell’identità l’apparato psichico reagisce, infatti, rafforzando la sua tendenza omeostatica: ridurre le tensioni al più basso livello possibile, evacuare, scaricare l’eccitazione ingovernabile.
E tuttavia esiste un altro polo – altrettanto essenziale allo sviluppo della vita psichica come a quello di una città o di una nazione – che è quello dell’apertura, della necessità di oltrepassare il confine. Se, infatti, la vita non sa scavalcare il regime ristretto della propria identità, se non sa muoversi dal proprio bisogno di appartenenza verso una contaminazione con l’alterità dell’Altro, fatalmente stagna, appassisce, non può che ripetere sterilmente se stessa. In questo senso la famiglia è tanto essenziale alla vita quanto lo è il suo declino. Per questo Lacan affermava che il compito più difficile che attende il soggetto nel suo processo di umanizzazione è quello di fare “il lutto del padre”. La vita, come insegna del resto anche Spinoza, può conservarsi solo espandendosi, oltrepassando il confine che gli è stato necessario alla sua istituzione.
Quando la vita di un gruppo, di una città , di una nazione, di un soggetto si ammala? Cosa davvero fa declinare la vita, cosa la rende patologica? La psicoanalisi propone una risposta sconcertante: la vita che si ammala è quella che resta troppo attaccata a se stessa, che resta vittima della tendenza omeostatica alla propria conservazione, è la vita che ingessa, cementifica, rafforza unilateralmente il proprio confine narcisistico. Se il confine serve a rendere la vita propria, questo confine, per non diventare soffocante, deve, come si esprimeva Bion, divenire “poroso”, permeabile, luogo di transito.
Se invece il confine assume la forma della barriera, della dogana inflessibile, se diviene presidio, luogo impossibile da valicare atrofizza e non espande la vita. Venendo meno l’ossigeno indispensabile dell’alterità, la vita si ammala e declina. La necessità del confine va quindi unita con la necessità del movimento e del transito al di là del confine. In questo senso la difesa della purezza identitaria è sempre animata da un fantasma fobico che non lascia spazio allo straniero. Ma a quale straniero? Il nero, l’ebreo, l’extracomunitario?
Un altro insegnamento prezioso viene dalla psicoanalisi: lo straniero prima di venire da fuori, abita in noi stessi. Ciascuno di noi porta con sé il proprio “nemico”; ciascuno di noi è Caino, ciascuno di noi è straniero a se stesso. Per questo Freud suggeriva di definire l’inconscio come un “territorio straniero interno”. Dove l’ambiguità di quella espressione (“straniero interno”) dovrebbe essere sufficiente per scalfire l’irrigidimento paranoico-immunologico del confine identitario. Non si tratta di esaltare un nomadismo senza radici che cancellerebbe le differenze particolari, di negare ingenuamente la necessità del confine, ma di integrare innanzitutto lo straniero-interno rendendo i nostri confini più plastici.
Avevano ragione Deleuze e Guattari in Mille piani ad ammonirci: attenzione al «fascista che siamo noi stessi, che nutriamo e coltiviamo, a cui ci affezioniamo»; attenzione alla spinta cieca alla conservazione di noi stessi che si nasconde nel proclamare una democrazia finalmente realizzata che anziché rendere porosi i suoi confini li sa solo armare.
la Repubblica – 23 Giugno 2015