Con il capitolo del Jobs Act prosegue, di spregio in spregio, la sistematica demolizione delle nostre istituzioni. L’ultima logica, affermata con spavalda superficialità, vuole che il gruppo parlamentare si asservisca, senza se e senza ma, alle deliberazioni della direzione del partito. Poco importa che quella discussione sia necessariamente generica, potendo al più definire indirizzi e strategie. Poco importa che sia improntata a rappresentare i rapporti di forza interni al partito e che manchi di reali approfondimenti tecnico-giuridici. Lì si discute, lì si decide! Anche dei testi di legge. L’iter parlamentare, la discussione in commissione, quella in aula, gli emendamenti, il voto articolo per articolo, il divieto al mandato imperativo sono solo stupidaggini costituzionali. Ogni osservazione diviene intralcio. Ogni dissenso, tradimento. La vera democrazia, secondo l’interpretazione renziana, è il voto di appartenenza e di fedeltà che i membri della direzione esprimono. E affinché nessuno dubiti che questa sia la nuova frontiera ecco giungere a suggello la richiesta del voto di fiducia sulla legge di delega legislativa.
E’ quest’ultimo un aspetto la cui delicatezza sfugge ai non addetti ai lavori. Con le cosiddette leggi delega il Parlamento delibera di trasferire al potere esecutivo la propria potestà legislativa. Ciò avviene fisiologicamente quando la legge deve definire in dettaglio aspetti tecnici la cui articolazione, richiedendo specifiche e approfondite competenze, mal si concilia con una discussione assembleare. Ma proprio per l’eccezionalità e la rilevanza concettuale dello strumento, la Costituzione afferma che “L’esercizio della funzione legislativa NON può essere delegato al Governo SE NON con determinazione di principî e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti” (si noti: per oggetti non per materie). Vale a dire che il governo può esercitare la funzione legislativa solo all’interno di paletti spazio-temporali dettagliatamente definiti dalla delega. In occasione della legge sul lavoro, che per comica e provinciale spettacolarizzazione viene definita Jobs Act, non è stato il Parlamento a decidere di delegare la propria funzione, ma il governo a pretenderlo, definendo lui stesso i principi e i criteri direttivi cui attenersi e impedendo addirittura, con la richiesta della fiducia, che il Parlamento potesse discuterne la congruità.
Un obbrobrio giuridico. Una prepotenza palesemente incostituzionale. Con l’aggravante che i principi e i criteri direttivi che il governo si è assegnato, seppur generosamente elencati nei 14 commi e nelle 50 enumerazioni che compongono l’articolo unico del disegno di legge, sono estremamente generici. Più auspici e speranze che vincoli legislativi. Più adatti a un programma elettorale che a un testo di legge. Utili a Renzi per dire che la legge prevede un contratto unico con tutele crescenti, un assegno universale per chi perde il lavoro e corsi di formazione professionale per il suo reinserimento, lasciando così credere che qualcosa di molto importante sia stato fatto mentre tutto è ancora da fare (e da finanziare). Lasciando così credere che il drammatico problema della disoccupazione sia stato affrontato con piglio decisionista, mentre è a tutti evidente che il lavoro non si crea per legge. Facendo dell’articolo 18, già reso inoffensivo simulacro dalla riforma Fornero, un trofeo di guerra che rafforza la sua immagine di impavido riformatore.
Ma, al di là dello specifico contenuto, ciò che soprattutto mi offende e mi preoccupa è il vulnus procedurale con la progressiva destrutturazione di ogni tessuto rappresentativo e di tutti i livelli d’intermediazione tra società e leadership. Lo sprezzante fastidio riservato ai sindacati, al Parlamento, alle opposizioni, il dileggio verso chi eccepisce (gufi, rosiconi, professoroni), le accuse a chi contrasta (conservatori a difesa dei loro privilegi), l’estrema personalizzazione di ogni comunicazione istituzionale, l’enfasi salvifica della propria azione, connotano l’ormai avanzata e temo irreversibile deriva populista della nostra democrazia.
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