L’Italia non si è desta, almeno sembra. Appare più passiva che fervida, non soltanto a causa della crisi economica e finanziaria. È rimasta quel che è sempre stata: non ha perso l’antico vizio di delegare ad altri l’onere di risolvere i problemi della comunità. Si è affidata così all’uomo della provvidenza di turno che non nasconde la sua smisurata ambizione, ma promette di cancellare le brutture, la vecchia politica e fa intravedere una vita serena. Il giovanilismo, con un’ipoteca populista, e la velocità del fare sembrano le nuove parole d’ordine. Ma l’età giovane priva di esperienza, di competenza, di conoscenza dei problemi di un governo e di uno Stato non può essere una medaglia al valore. I Leopardi, i Gobetti, i Gramsci nascono poche volte in un secolo. Tralasciando i geni si capisce però che c’è un burrone tra la classe dirigente venuta dopo la seconda guerra mondiale e quella di oggi. Le altalene delle generazioni e della storia. A Renzi non viene qualche sospetto quando, con la sicurezza del neofita, comunica al popolo che risanerà tutto in un battibaleno? Sa che l’Italia è gravemente ammalata, che la crisi della politica, soprattutto, è anche morale, civile, sociale, culturale? I partiti, sbrindellati, in profonda difficoltà, non riescono più a coinvolgere i cittadini. C’è una gran confusione in quel che sta succedendo o meno.
Che sorte avrà veramente la legge elettorale di cui si parla da anni? Adesso è approdata a Montecitorio, tra rotture e compromissioni. Il costituzionalista Michele Ainis, sul Corriere dell’altro ieri, dopo gli emendamenti presentati sulla data di attuazione, poi ritirati, che hanno buttato tutto all’aria facendo sospettare a ragione chissà quali patti segreti tra Renzi, il suo amico Verdini, plenipotenziario di Berlusconi, e altri, ha scritto che sarebbe il caso di riaprire i manicomi chiusi nel 1978 dalla legge Basaglia. Dev’essere approvata prima la legge elettorale o quella costituzionale — una lunga marcia — che dovrebbe fare del Senato una specie di camera dei fasci e delle corporazioni, trasformandolo in un’assemblea con i seggi attribuiti a chi ricopre già una carica elettiva? Si è deciso poi — Renzi e Berlusconi — che si voterà con un sistema per la Camera e con un altro sistema per il Senato. Sembra un’assurdità dopo quel che è successo alle ultime elezioni: i guasti, infatti, sono nati proprio di lì. Ci dovrà pensare di nuovo la Consulta? L’impressione è che la vera posta in gioco siano le elezioni. Si sono accelerati i tempi e l’accordo è nato proprio per impedirle? È chiaro soltanto che questo è il governo Renzi. Un uomo solo al comando, ma non è Bartali, non è Coppi — tempi antichi —, non è neppure Pantani, tempi moderni. Con alle spalle, se si eccettua il non entusiasta ministro dell’Economia Padoan, una squadra grigiastra, «di personalità piuttosto modeste che non gli faranno ombra», ha scritto Marcelle Padovani su Le Nouvel Observateur . «La maggior parte dei ministri sono dei principianti». Matteo Renzi non ha esperienze parlamentari, governative, internazionali, non conosce i regolamenti delle assemblee e la forza della burocrazia ministeriale, ha solo la pratica di presidente della Provincia e di sindaco di Firenze, 377.000 abitanti, con il suo cerchio magico. Vengono i brividi a pensare che dovrà discutere con la Merkel, con Obama, che siederà all’Onu, parteciperà al G8, avrà a che fare con tutti i marpioni del mondo affidandosi al suo chiaro linguaggio di ragazzo — un fanciullino, come dice Giovanni Sartori — che vuol mettere tutti a proprio agio, minimizzare le gravosità della vita, promettere, soprattutto. Detto e fatto. Il presidente Napolitano, visto che è stata esclusa, chissà perché, dal ministero Emma Bonino, esperta e conosciuta nel mondo, dovrà prendersi, tra l’altro, anche l’interim occulto degli Esteri per non far fare una figura barbina al paese della «Grande bellezza». Dall’aldilà gli uomini del CAF, Craxi, Andreotti, Forlani e i loro predecessori non nasconderanno l’invidia. Altro che deprecato manuale Cencelli. La giostra dei sottosegretari non è stata mirabile, tra la rimediata storiaccia calabrese, l’esclusa del Pd in Sardegna perché indagata e subito risarcita, i berlusconiani «pentiti» — sembra — protagonisti delle vergognose leggi ad personam, inseriti proprio al ministero della Giustizia, quel che interessa a B.. I sondaggi per Renzi sono ora positivi, ma se le promesse non saranno rispettate con la velocità del suono farà in fretta a diventare una meteora, come ha scritto il Financial Times e ha ribadito L e Monde di sabato: «Potrebbe diventare una stella cadente». Non tutti i cittadini hanno digerito quel che è successo dalle elezioni dell’anno scorso a oggi, la congiura di palazzo, il Pd che licenzia il suo presidente del Consiglio e mette al suo posto il nuovo segretario, una mescolanza di dramma e di carnevale da cui Enrico Letta e anche Bersani sono usciti con alta dignità. Quella fotografia dei due che si abbracciano nell’aula plaudente di Montecitorio è un documento storico. Ma ad applaudire sono stati anche i 101 suicidi del Pd che hanno votato contro Prodi? Renzi è il figlio «naturale» di Berlusconi, un pupillo che all’ex piacerebbe avere tra i suoi. La sua visione del mondo è radicata nell’arco che comincia nel 1994 e dovrebbe finire ora, con Berlusconi ai servizi sociali o agli arresti domiciliari. A legarli è la politica disinvolta dei due forni, il mito del successo e del potere, il narcisismo, l’uso dell’io, ossessivo. E viene in mente Carlo Emilio Gadda quando, nella Cognizione del dolore scrive: «L’io, io!… Il più lurido di tutti i pronomi!…(…) I pronomi! Sono i pidocchi del pensiero».
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