Io, sopravvissuto a Villa Triste

13 Giu 2014

Nel settimo, e ultimo, articolo di questo ciclo Sandra Bonsanti ha incontrato Vittorio Meoni sopravvissuto alle torture di Villa Triste. Per parlare dei partigiani di ieri e dell’Anpi di oggi. Al telefono mi disse soltanto: «Sto leggendo i suoi ricordi. Io sono Vittorio Meoni, credo di essere l’ultimo ancora in vita dei sopravvissuti alla banda Carità ». Così, naturalmente, gli risposi: vengo a trovarla.

meoniAl telefono mi disse soltanto: «Sto leggendo i suoi ricordi. Io sono Vittorio Meoni, credo di essere l’ultimo ancora in vita dei sopravvissuti alla banda Carità ». Così, naturalmente, gli risposi: vengo a trovarla. Ha 92 anni e uno sguardo che ti scruta dentro, quasi volesse accertarsi che non ti distrai, mentre lui cerca di trasmetterti qualcosa delle pagine di storia che ha vissuto e che è importante non vadano perse. Uno sguardo che solo a momenti si volge ai tetti rossi di Siena che sembrano spiccare il volo dalla sua finestra, vicini, rassicuranti. Dietro la poltrona è appeso il certificato della laurea che discusse il 7 aprile del 1945 in via Laura, firmato da Piero Calamandrei. “Un autografo autentico” dice.
La sua storia di giovanissimo oppositore del regime e poi di partigiano e infine di arruolato fra i soldati italiani che combatterono per la liberazione del nord nelle truppe inglesi, cominciò proprio in via Laura, nelle aule di giurisprudenza e scienze politiche dove alcuni grandi insegnanti (non tutti, gli insegnanti) indirizzarono i giovani alla scienza della libertà.
Meoni è ancora oggi al vertice dell’Anpi toscana, scrive di se e della Resistenza, partecipa a incontri in cui spiega ai giovani di oggi come erano i giovani in tempo di guerra e alcuni capitoli della storia italiana che visse intensamente da militante del partito comunista. Vittorio finì molto presto tra gli studenti “sorvegliati”. Il 2 dicembre 1942 infatti gli studenti erano stati costretti ad ascoltare il discorso di Mussolini alla Camera dei Fasci e delle Corporazioni.
FU ALLORA che Vittorio (non aveva ancora vent’anni) pronunciò parole che gli sarebbero costate care: «La mia in fondo era solo una domanda. Dissi: perché questi invece di gridare “duce, duce!” non gridano: “pane, pane!” ». Fu subito espulso dal gruppo universitario fascista “…per assoluta e dichiarata mancanza di fede fascista”.
«Pensarono di mandarmi al confino, poi intervenne La Pira… ». Il futuro costituente e poi sindaco di Firenze era da tempo vicino a quello studente ribelle e per aiutarlo era riuscito a far intervenire il cardinale Dalla Costa. Dopo il 25 luglio del ‘43 però i fascisti decisero l’arresto di tutti coloro che prima della caduta del fascismo erano stati incarcerati per attività antifascista. Lo presero mentre stava studiando, con altri compagni e lo portarono per la prima volta in una delle sedi della banda Carità. Insieme a lui erano stati presi altri due studenti, uno dei quali avrà un peso importante nella formazione di Vittorio: si chiamava Aldo Braibanti, era comunista e partigiano ed era già stato arrestato una prima volta insieme ad Ugo La Malfa.
Braibanti è stato una delle personalità più complesse e culturalmente importanti della sinistra italiana. E’ morto nell’aprile scorso e ricordandolo in Senato Sergio Lo Giudice ha parlato di quel processo vergognoso per “plagio” alla fine del quale, nel 1968 Braibanti era stato condannato a nove anni di reclusione, poi ridotti a quattro mentre il suo compagno finiva in manicomio.
Meoni ricorda con riconoscenza quel comunista con cui divise cella e minacce, cella e tortura. Ridotto male soprattutto Braibanti perché su di lui infierirono i carnefici sapendo che conosceva i nomi dei partigiani comunisti.
«Io invece non sapevo nulla – ricorda Vittorio – per me fu più facile resistere e tacere ».
Giorni con la fucilazione promessa e rinviata di ora in ora. «A un certo punto Carità chiamò un pugile e disse a Braibanti: “Ora ti affido a lui per mezz’ora poi si riprende l’interrogatorio”. Ma Aldo non aprì bocca nonostante fosse ridotto in condizioni pietose». Come resistevate alla tortura? Vittorio non mi risponde, ora si volta a fissare la sua Siena, la città nella quale ha spesso ricoperto cariche pubbliche per dedicarsi poi all’insegnamento, all’Associazione nazionale Partigiani d’Italia e a fondare l’Istituto storico della Resistenza. Dopo le torture lui e Braibanti furono trasferiti alle Murate, dove restarono per due mesi. Da un carcere a un altro, ma spiega: «Uscire dalle mani di Carità fu come essere liberi… il carcere militare non era nulla a confronto ». Il resto lo racconta d’un fiato. Fa male ancora oggi, settant’anni dopo, ricordare l’eccidio di Montemaggio, quando un fascista del plotone d’esecuzione gridò ai 18 partigiani seduti a terra a cui era stato ordinato di togliersi le scarpe: «Non c’è più misericordia». Un attimo e Vittorio si buttò nel bosco, un proiettile lo colpì al rene, attraversò un polmone e uscì accanto al cuore. Ma si salvò. «Quel giorno del 18 marzo 1944» ha ricordato Meoni in un bel libro intitolato “La libertà è come l’aria” «si era compiuto il maggior massacro di partigiani della provincia di Siena e credo della Toscana da parte esclusivamente dei fascisti repubblichini, senza l’intervento tedesco». Dall’ospedale di Siena dove era ricoverato fu di nuovo consegnato a Carità e portato a Firenze, a Villa Triste in via Bolognese. Erano i primi di giugno del ‘44. Tutto si ripeteva ancora e ancora Vittorio riuscì a finire al carcere militare delle Murate. Aveva 21 anni. «Furono alcune decine i detenuti politici fatti uscire dal carcere nel mese di giugno» ha ricordato lo storico Ivan Tognarini, «tra loro anche Vittorio che ritrovò la libertà grazie ad un ordine di scarcerazione la cui firma era chiaramente falsificata».
«Eravamo così impegnati nella lotta che non pensavamo al dopo, a come sarebbe stata
la libertà: volevamo solo che quel regime finisse. Non ci ponevamo, non potevamo farlo, altri pensieri, altre speranze». Non c’era tempo, allora.
Ma oggi? «Oggi, se viene meno la memoria storica e quell’ideale che ci dette la forza a noi che eravamo poco più che ragazzi di combattere per la libertà, allora tutto può accadere, anche che emergano forze eversive. Si rimpiange il fatto che in Italia non ci sia una destra democratica. Ma la destra italiana è strutturalmente orientata a forme di autoritarismo, di presidenzialismo. E poi, spiegatemi: esiste davvero e in quale Paese una destra democratica? Per questo io non capisco perché la sinistra si è infognata nella discussione sull’eliminazione del Senato: che senso ha? Tutte le forze politiche perdono tempo invece di concentrare le loro energie a risolvere i problemi sociali. La Costituzione, la nostra Costituzione, non è un ostacolo, basta che ci sia la volontà politica di risolvere i problemi. Altro che marchingegni…».
Le preoccupazioni di Vittorio Meoni sono condivise da tutta la dirigenza dell’Anpi che sta celebrando in questi giorni i settant’anni di vita. L’associazione, a cui va il merito indiscusso di aver informato, tramandato, istruito e ricostruito le pagine di una storia italiana, la più “gloriosa” del ventesimo secolo, si
dedica oggi a trasformare i ricordi e le testimonianze in materia viva per i più giovani. Perché, come si chiede il presidente nazionale Carlo Smuraglia, «forse tutti non abbiamo fatto abbastanza e noi ancora possiamo fare di più». Ci sono momenti della lotta di Liberazione che ancora oggi chiedono di non essere fraintesi: hanno subito, nel tempo, gli attacchi di storici improvvisati o interessati a sbiadire la memoria. «Ma – dice Smuraglia forse troppo spesso ci siamo difesi invece di andare all’assalto. Dobbiamo reagire con più forza, in un tempo in cui il revisionismo ci minaccia ed è tollerato».
Il messaggio che l’Anpi invia dalla celebrazione romana alle decine di migliaia di soci in tutta Italia è che “non si può accettare che si riscriva con la penna una storia scritta col sangue”. Dunque rimangono i vecchi canti che commuovono e si tramandano oggi da nonno a nipote, rimangono le immagini di straordinari congressi, manifesti, prese di posizione per la libertà e le istituzioni nei momenti neri della nostra storia del dopoguerra. E ce ne sono stati molti: scorrono vecchi telegiornali e interviste, immagini in bianco e nero di protagonisti della storia della libertà e anche delle istituzioni. I grandi presidenti dell’Anpi, Sandro Pertini al Quirinale, le battaglie contro le riforme berlusconiane della Costituzione.
E rimangono i fazzoletti tricolore e “Bella ciao” e “Siamo i ribelli della montagna”… Nulla di tutto questo sarà mai accantonato. Mentre si scava ancora sulle parole “giuste” da usare quando ad esempio si parla dei morti alle Fosse Ardeatine: forse non bisogna chiamarli “martiri” o “eroi” perché furono tutti e 335 presi senza che potessero scegliere da che parte stare, secondo il principio del dieci italiani contro un tedesco morto in via Rasella. Dunque “vittime” è la parola giusta, e gli altri sono i “carnefici”. La Resistenza non ha bisogno di retorica: ha bisogno invece di verità e di giustizia. Ma giustizia non è stata fatta, se la fuga di Kappler dal Celio fu sostenuta dalle istituzioni italiane e la versione ufficiale fu che la moglie lo aveva portato via nascondendolo in una valigia… «No, non è stata fatta giustizia» insiste lo storico Alessandro Portelli prima di guidarci un’altra volta in quelle grotte grigie che sembrano l’antro dantesco «perché il significato di questi morti non è diventato il nostro senso di nazione»: una nazione invece che avrebbe dovuto riconoscersi in quella infinita fila di uomini inginocchiati in attesa del colpo, uno solo, al cervelletto, tutti maschi, di ogni età da 14 a 75 anni.
Una nazione che ha permesso alla “menzogna” (sostenere che Roma era stata dichiarata “città aperta” e dunque i gappisti di via Rasella avrebbero tradito la tregua e dunque da lì venne inesorabile la vendetta) di radicarsi negli animi e nel risentimento di tanti italiani. Non andarono così le cose. Roma non fu mai città aperta. Obiettivo dei tedeschi, con gli alleati che erano ormai alle porte, era quello di terrorizzare la città. Le vittime non dovevano nemmeno essere viste, bastava si sapesse che l’eccidio era avvenuto, e i corpi e le fosse furono ricoperti di immondizie fin dopo la liberazione, fino al mese di luglio, giorni bollenti di sole, come oggi che ascoltiamo l’Anpi raccontare come andò veramente quell’unico “massacro metropolitano” di tutta la guerra, e i giovani di oggi e i vecchi di allora cercano un filo d’ombra che non c’è.
Un appello dell’Anpi, anni Sessanta, dice: “Volevamo una vita quotidiana chiara, onesta e pulita…”.
«Come potevamo immaginare allora la corruzione che oggi ci devasta?» mi chiede Vittorio Meoni sapendo che nessuno può dargli una risposta che lo consoli e ricorda di quando, appena finita la guerra, andò a lavorare a Roma nel Partito comunista povero e onesto. «C’era già Berlinguer responsabile dei giovani del Pci, la vecchia direzione era in via Nazionale, poco dopo andammo alle Botteghe Oscure. La vecchia sede fu trasformata in alloggi per i compagni che venivano a Roma, e quando mi sposai ci dettero una stanza: una sola, facevamo da mangiare, lavoravamo, dormivamo. A un certo punto si venne a sapere che c’era un appartamento, uno solo, riservato a un compagno soltanto. Io cominciai ad arrabbiarmi, chiedevo perché quel trattamento di riguardo e noi che eravamo in due… Finalmente un giorno Togliatti rivendicò al partito la fine di Mussolini e sapemmo che quel signore era Walter Audisio… Non protestai più, dissi in giro che chi aveva eseguito la sentenza di morte di Mussolini meritava un appartamento tutto per sé».
Poi il ritorno a Siena e l’impegno con i giovani affinché tengano conto «nella vita quotidiana di questo passato di lotta e sacrifici, premessa per la loro libertà. E perché sappiano che la Costituzione è stata il risultato di un movimento, di una rivoluzione sociale e politica che è stata la Resistenza. Basta pensare a Terracini, presidente dell’assemblea costituente, undici anni di carcere durante il fascismo… Io andai ad assistere a diverse sedute della Costituente… La prima volta mi presentai in camicia e i commessi di Montecitorio non mi fecero entrare.
Allora trovai una giacchetta usata, vecchia e lacera, sembravo un teppista ma non poterono allontanarmi».
Esco finalmente di casa, in queste strade che protessero mia madre in fuga dai fascisti, in questo Oltrarno che non dimentica. In piazza Santo Spirito qualcuno mi ferma. Lo stesso avviene a San Niccolò. E mi consolo: esistono anche dei pensieri sereni su quei giorni, qui, con la coscienza di aver combattuto per la libertà, di esser stati dalla parte “giusta” si può anche sorridere. Mi dice il mio amico Fancelli: «Sai, Sandra, in via dei Serragli, al numero… ci deve essere ancora, nel cortile, quel pietrone del ponte alla Carraia che fu sollevato dalle mine e sfondò il tetto. Chi vuoi che l’abbia rimosso… Per tanto tempo è servito a tagliarci sopra il baccalà». In via San Niccolò, nello storico circolo, ricordiamo con Silvano Sarti, infaticabile presidente dell’Anpi di Firenze, con Luigi Remaschi e altri del quartiere il giorno in cui una cannonata sparata dai tedeschi dall’altra parte dell’Arno piombò sul tetto di un edificio a due passi da lì. Uccise un ciuco, arrivò subito un gruppo di partigiani, lo fecero a fette e cibo per sfamare la popolazione.
Alcuni altri mi fermano: «E’ vera la storia degli scarponi dei tedeschi, del rumore che non si cancella mai, anche mia madre me lo diceva…».
Piccolissime schegge di memoria. Ricordi che valgono per una stretta di mano e anche per un sorriso di intesa, un dono che viene da allora, dalla bambina che ero nei giorni della grande battaglia di Firenze, settant’anni fa.

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