Sabato dirò al partito dove andare con il 40,8%”: una promessa, ma anche una minaccia. Matteo Renzi torna oggi dal viaggio in Cina e praticamente già sotto la scaletta dell’aereo (almeno metaforicamente) lo aspettano ministri, collaboratori, amici e oppositori. Perché è stato fuori solo 4 giorni e i dossier da esaminare si sono accumulati. Con una serie di grane già scoppiate o sul punto di scoppiare. Ieri il governo è andato sotto in Aula a Montecitorio sulla responsabilità civile dei magistrati.
Il premier, anche se cerca di minimizzare, è arrabbiatissimo. Tanto che a stretto giro di posta fa sapere che si rimedierà in Senato: “È una tempesta in un bicchier d’acqua”, “una fase del processo legislativo”: la maggioranza al Senato cambierà la norma. Visto quel che è successo a Montecitorio, dove i franchi tiratori dem sono riusciti a mandare sotto una maggioranza amplissima, con i numeri risicati in Senato, i rischi aumentano. Senza voler scomodare chi immagina trattative inconfessabili con Berlusconi.
Per ovviare ai dissensi sulle riforme, Renzi ieri a Palazzo Madama ha vestito i panni dell’“epurator”, sostituendo Corradino Mineo, nella Commissione Affari costituzionali, che continuava a restare su posizioni distanti da quelle del premier. Nonostante il pressing su di lui. Al suo posto un pezzo da novanta: il capogruppo Luigi Zanda.
“Una ferita all’autonomia del singolo parlamentare e al pluralismo interno del Pd, un segno di debolezza”, commenta Stefano Fassina. Anche perché nella stessa riunione dell’ufficio di Presidenza, il Pd ha fatto fuori dalla Prima commissione anche l’altro dissidente illustre, Vannino Chiti e Luciano Pizzetti. L’appiglio è formale: Mineo non era un membro permanente della commissione, dal momento che aveva sostituito Marco Minniti, andato al governo. Gli altri due membri-sostituti erano Roberto Cociancich al posto di Luciano Pizzetti, anche lui entrato nel governo, e Migliavacca al posto di Vannino Chiti, che ha avuto un ruolo da presidente della commissione Politiche Ue. Fatto sta che alla fine l’unico sostituto non confermato è Mineo e Chiti resta fuori. L’altro dissidente, Mauro, era già stato estromesso dal Pi il giorno prima. Un metodo forte per chiarire che nessun ostacolo ci dev’essere sul cammino delle riforme.
“Il gruppo del Pd è compatto nel voler fare le riforme, non era possibile tenere appeso un paese alle voglie di protagonismo di Mineo”, spiega un senatore dem. E poi, “Renzi deve presentarsi all’incontro con Berlusconi facendo vedere che vuole andare fino in fondo e che ha risolto i problemi nel partito”. Se saranno risolti, si vedrà solo strada facendo. Intanto sabato c’è l’Assemblea Pd che deve eleggere il presidente: il candidato più forte è Matteo Orfini, voluto dallo stesso segretario, ma che si trova in mezzo a una serie di veti da parte della minoranza bersaniana. In forse anche la nomina della nuova segreteria sabato: sono molte le tensioni, anche tra gli stessi renziani, rispetto a ruoli centrali come l’Organizzazione. Per cui Renzi sta pensando di rimandare tutto.
Ma chi lo conosce ritiene che deciderà venerdì notte da solo. A stretto giro di posta i cambi all’ufficio di presidenza del gruppo parlamentare a Montecitorio, che il premier fa fatica a controllare. Domani infine il Cdm con i provvedimenti sulla Pa e i poteri a Cantone.
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