Talora si fa fatica a rimanere contrari alla pena di morte e oggi è difficile pensare che il posto più consono agli assassini — sicari e mandanti, egualmente immondi, di tre persone, fra cui un bambino di tre anni, Nicola, ucciso e bruciato al pari degli altri — non sia la forca o altra analoga soluzione acconcia. Il sangue di Nicola — come quello di Domenico Gabriele massacrato mentre giocava a calcetto, di Giuseppe Di Matteo sciolto nell’acido e di molti altri bambini — è una macchia incancellabile che sfigura la faccia del mondo. È una sconfitta che dimostra come la guerra contro la malavita organizzata sia, nonostante molti sforzi generosi ed eroici sacrifici, una guerra perduta e destinata a essere perduta se non viene condotta altrimenti. Gli antichi greci avevano due termini per indicare la guerra o meglio due tipi di guerra. Uno indicava la guerra per così dire limitata già nei disegni iniziali, quella che si propone non di distruggere l’avversario, ma di indebolirlo, di contenerlo, strappandogli un buon bottino e limitando le sue possibilità: quando la Francia e la Germania si scontrano nel 1870 nessuna delle due pensa, in caso di vittoria, di distruggere Berlino o Parigi, ma solo di rendere l’avversario meno temibile e di portagli via qualcosa. L’altro tipo di guerra è quello che prevede e persegue, quale obiettivo inevitabile, la distruzione dell’avversario: Roma che sparge il sale sulle rovine di Cartagine mai più risorta, la Germania rasa letteralmente al suolo alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Contro la malavita organizzata, merdosa macelleria, lo Stato non persegue — forse non lo può, forse non lo vuole — una guerra di annientamento, bensì di contenimento, che non esclude trattative, patteggiamenti, compromessi. La malavita organizzata è un cancro e un cancro non può essere contenuto, arginato, ridotto in certi limiti. Può essere solo estirpato, amputato e poi gettato nelle immondizie. Forse non è materialmente possibile, in questo caso, amputarlo — forse perché si è già infiltrato in alcuni organi vitali dello Stato, forse perché la guerra d’annientamento è difficilmente compatibile con la normale vita burocratica, forse per impossibilità oggettiva o per altre ragioni. Ma se non è possibile, bisogna sapere di aver già perduto e che si può soltanto cercare di limitare le perdite, di salvare il salvabile.
Non perdiamo troppo tempo a parlare degli assassini, secondaria manovalanza del massacro. Protagonisti sono le vittime e specialmente Nicola. È morto a tre anni e la sua morte grida vendetta più del sangue di Abele, ma non è giusto pensare solo alla vita che non ha avuto. Anche la sua esistenza, come dice una pagina memorabile di Stefano Jacomuzzi a proposito di un bambino morto per malattia, è stata «piena di fatti, di parole, di sentimenti, voglie, grida, risa, pianto, corse, gioconde ghiottonerie, interrogazioni, stupori». In quei suoi tre anni Nicola probabilmente ha vissuto più dei suoi automi assassini. È soprattutto lui che conta in questa storia. Quanto ai suoi boia, per fortuna il Signore che accarezza i bambini è anche quello che ha sterminato con una lava di fuoco Sodoma e Gomorra. Talvolta viene da sperare che l’inferno davvero esista e sia eterno.
Vivo da dieci anni in un Paese dove la pena di morte e’ pratica pressoché’ quotidiana anche se tutti, persino coloro che in qualche modo combattono quel barbaro costume, appena percepiscono che qualcuno inorridisce criticando la loro Nazione, si scusano dicendo: “Si’, la pena di morte e’ praticata ma non in tutti gli Stati!”. Come se si dicesse “Si’ la pena di morte e’ praticata in Europa Unita ma solo in Italia e in Francia”, tanto per minimizzare. In soli quattro mesi nello stato di questa grande e illuminata nazione in cui vivo, sono state eseguite quattro pene capitali. Ogni volta sono uscito in strada davanti al tribunale del mio piccolo paese con i miei bravi cartelli di sdegno e i miei bravi conati di vomito che mi colgono sempre pochi minuti prima delle 18, ora canonica degli ammazzamenti legalizzati. Comprendo l’orrore di Claudio Magris di fronte allo scempio di quei bimbi straziati dalla mafia. Comprendo la rabbia. Ma confortiamoci l’un l’altro continuando a credere nel profondo che l’esecuzione capitale di simili criminali non farebbe altro che aumentare la violenza che già’ esiste. Il sangue chiama sangue. La nazione da cui scrivo, in cui vivo e di cui faccio parte, e’ intrisa da sempre di cultura macabra e questa mentalità’ richiama su di se’ odio, distruzione, , morte (le stragi nelle scuole sono solo un piccolo esempio). L’odio porta odio e quando si innesca questo processo si entra in un tunnel di terrore dal quale e’ difficilissimo uscire. Se davvero lo Stato italiano volesse sradicare il Male l’avrebbe già’ fatto da tempo, certo. Sono d’accordo invece su un’operazione di annientamento: essa sarebbe auspicabile poiché’ gesto di totale pulizia generato dalla disperata necessita’ di farla finita. E’ azione diversa dalla lucida, macabra, sadica freddezza dell’uccisione di un individuo dopo l’altro attraverso tecniche e tecnologie allucinanti in nome della Giustizia. Ma fintanto che ci sara’ chi elegge persone infami, capaci di dialogare coi i criminali (vedi il tristemente famoso incontro con Berlusconi), va da se’ che sara’ ben difficile che un annientamento del Male avvenga.