La maggioranza di governo si riduce, le intese da larghe si fanno strette, e sembra pure che si restringa il programma delle riforme costituzionali. Ricordate? Il “cronoprogramma”, diciotto mesi per vincere una sfida che dura da anni, comitati di saggi, una sessantina di articoli da modificare: una costruzione barocca, per certi versi politicamente e culturalmente insensata, culminata nel disegno di legge costituzionale di manipolazione dell’articolo 138 della Costituzione, l’essenziale norma di garanzia scritta per mettere il testo costituzionale al riparo da forzature congiunturali. Ora si parla di tornare sulla via maestra, di circoscrivere le modifiche da apportare alla Costituzione e di seguire la procedura dell’articolo 138 nella sua integralità.
Che cosa accadrà in concreto, è troppo presto per dirlo. E tuttavia questa tardiva resipiscenza merita un momento di attenzione. Tardiva, perché fin dai giorni della formazione del governo Letta s’era detto che sarebbe stato più corretto, e anche più funzionale, avviare una revisione sui punti già assistiti da un sufficiente consenso (uscita dal bicameralismo perfetto, riduzione del numero dei parlamentari). Se fosse stata subito imboccata questa strada, oggi potevamo essere vicini all’approvazione di questa non indifferente riforma. Ma questa resipiscenza, proprio perché tardiva, fa nascere problemi che debbono essere subito messi in evidenza, che non possono essere furbescamente elusi o occultati.
Il primo riguarda il fatto che proprio questa inversione di rotta conferma che ormai la Costituzione viene considerata come una semplice pedina di giochi politici a breve, di convenienze. Non siamo di fronte ad un vero recupero della cultura costituzionale, ma quasi al suo contrario. Che questo, oggi, possa avere un effetto positivo, non è certo indifferente. Ma la complessiva temperie istituzionale non muta e altri effetti, tutt’altro che positivi, possono prodursi.
L’attenzione, allora, deve essere rivolta al disegno di legge di modifica dell’articolo 138, già approvato dal Senato in seconda lettura e che sta per essere portato alla Camera per la sua approvazione definitiva. Che fine farà? Sarà messo prudentemente in un angolo o si procederà con la logica delle azioni parallele? In quest’ultimo caso saremmo di fronte ad una sorta di stralcio, con un paio di questioni – bicameralismo, riduzione dei parlamentari – affidate alla procedura di un articolo 138 non modificato, mentre la questione di fondo, dunque la modifica della forma di governo, rimarrebbe prigioniera dello strappo determinato dalla manipolazione dell’articolo 138, divenuta così ancor più evidente e clamorosa.
È una soluzione inaccettabile, in cui si riflette soltanto la disperazione di una maggioranza che proclama in ogni momento d’essere forte perché sa benissimo d’essere debolissima, e che assomiglia sempre di più a quel barone di Münchausen che voleva uscire dalle sabbie mobili tirandosi per i propri capelli. Un doppio binario non è ammissibile. Si certificherebbe che, là dove si riesce a costruire quel consenso largo necessario per le riforme costituzionali, si possono rispettare le regole. Dove, invece, questo non è possibile, si procede per strappi e forzature. Che razza di democrazia “costituzionale” diverrebbe la nostra?
Considerando il merito delle riforme, poiché vi sono molti modi di affrontare le questioni ricordate, si deve discutere seriamente almeno quali sarebbero gli effetti dell’abbandono del bicameralismo perfetto per quanto riguarda la nomina del presidente del Consiglio, che può avere riflessi sul ruolo del presidente della Repubblica; la questione della fiducia al governo; il procedimento legislativo, che non può essere totalmente concentrato in una sola camera. Inoltre, la furia un po’ cieca che ha portato a ritenere, troppe volte con argomentazioni soltanto di risparmio di spesa, che l’efficienza si raggiunga con il taglio dei parlamentari, dovrebbe essere temperata da una riflessione che, mantenendo fermo questo criterio, tuttavia si chieda quanto tutto questo inciderebbe sulla rappresentanza dei cittadini. Scomparsa, infatti, l’elezione diretta del Senato, questa sarebbe tutta affidata agli eletti alla Camera dei deputati, il cui numero diventa determinante. Emerge così la questione generale del mantenimento, attraverso la riforma, del carattere parlamentare e rappresentativo della nostra Repubblica.
Si giunge così ad un punto chiave. Sembra di scorgere, dietro questo possibile cambiamento di linea, anche la volontà di creare condizioni più propizie alla riforma della legge elettorale. Se, tuttavia, questa assumesse caratteristiche sostanzialmente ipermaggioritarie, sacrificando tutto all’affermazione falsa che in tutti i paesi democratici immediatamente dopo il voto è sempre automaticamente identificata la maggioranza di governo (e la Germania di oggi? e la Gran Bretagna di ieri?), la forma di governo ne risulterebbe modificata in maniera surrettizia, impropria.
Non sollevo difficoltà. Cerco di indicare i punti di una discussione che può essere proficua se viene liberata dalle forzature e dai secondi pensieri che l’hanno finora accompagnata, e rischiano di inquinarla ancora. E, soprattutto, se viene ricondotta al nuovo contesto politico così bene individuato ieri da Piero Ignazi, ricordando quanto sia mutato da quello originario, di cui era parte organica un’altra idea di riforma costituzionale. Questa è la novità dalla quale non si può sfuggire, e mi pare che lo abbia opportunamente messo in evidenza, con anticipo, Pippo Civati sottolineando come, al di là del fatto contabile, non vi siano più politicamente i “numeri” per la riforma dell’articolo 138. Questa è la riflessione alla quale non ci si può sottrarre, a meno che la politica non si incaponisca nel ritenere che l’unico orizzonte possibile sia quello della brevissima convenienza, senza recuperare un briciolo del rispetto dovuto alla sua fondazione costituzionale e al modo in cui questa, con ben diversa sensibilità, è ormai percepita in una parte sempre più larga della società italiana.
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