Cultura e diritti, un’altra idea di Italia

01 Ottobre 2013

Come potrebbe «promuovere l’elevazione economica e sociale del lavoro» (art. 46) un governo che in nome dell’austerità ignora il diritto al lavoro (Costituzione, art. 4)? Come potrebbe affidare «a comunità
di lavoratori o di utenti determinate imprese […] di preminente interesse generale» (art. 43), se lo stesso presidente del Consiglio (coi ministri Quagliariello e Franceschini) firma la proposta di modifica radicale della Costituzione in quanto scritta «nella temperie della guerra fredda » e non più adatta al «mutato scenario politico, economico e sociale»?

SettisDestinazione Italia: più o meno questo sarà stato lo slogan in voga nelle capitali europee alla fine del Quattrocento. E infatti la Penisola divenne presto terreno di scontro fra eserciti spagnoli, francesi, “imperiali”: fu così che il regno di Napoli passò per secoli sotto la Spagna e il ducato di Milano fu dominato prima dalla Spagna poi dall’Austria, per non dire del sacco di Roma perpetrato dai lanzichenecchi, con il Papa asserragliato in Castel Sant’Angelo (1527).
Destinazione Italia si chiama il recente decreto del governo, mirato ad attrarre investimenti stranieri, ma varato in sinistra coincidenza con la svendita di Telecom (o Telco) a un’impresa spagnola, mentre già suonano le campane a morto per Ansaldo Energia (destinata ai coreani) e per Alitalia, che dopo un farsesco “salvataggio” costato al contribuente cinque miliardi sta per passare in mano francese. L’Italia è dunque in vendita? I cittadini assistono impotenti al teatrino di una retorica dello sviluppo che produce recessione, di un’austerità senza traguardi e senza successi, di una “stabilità” sempre più chiaramente sinonimo di paralisi. Il rimedio viene additato in nuove svendite di patrimonio pubblico (anche di beni culturali), e la quotidiana erosione dei diritti (al lavoro, all’educazione, alla salute, alla cultura) viene giustificata in nome dell’Europa, come se fosse un invasore straniero. Come se l’Italia non potesse concorrere a scrivere un’agenda europea di ben altro segno.
Da anni i beni pubblici e le stesse istituzioni dello Stato vengono smantellate da “destra” e da ”sinistra”, con una larga intesa che i governi Monti e Letta hanno solo reso più esplicita. Abituata agli agi e alle pigrizie della rendita parassitaria, buona parte della classe imprenditoriale italiana ha da decenni imbandito il banchetto dove si dividono le spoglie di un’Italia in rotta. Spolpandone il corpo martoriato proprio mentre si autoelogiano come accorti manager, imprenditori e operatori finanziari si trasformano in sensali, comprano a basso prezzo per rivendere (all’estero) a prezzo ancor più basso, e trovano chi li definisce “eroici patrioti” (così Berlusconi chiamò l’armata Brancaleone del “salvataggio” Alitalia). Si chiama “privatizzazione” e viene considerata la panacea di tutti i mali, ma non crea nuova ricchezza, bensì la trasferisce alle oligarchie dei furbi e degli sciacalli, a svantaggio delle classi meno agiate e dei giovani; genera disoccupazione, esilia i diritti e fragilizza la comunità, contro lo stesso principio di «promozione della coesione sociale e territoriale» affermato dal Trattato di istituzione della Comunità europea (art. 16). È quella che David Harvey chiama accumulation by dispossession:
la ricchezza pubblica (cioè dei cittadini) viene espropriata per concentrarla in poche mani. Compito congeniale a quella «immane piramide di sfruttatori» emersa dal fascismo e dal dopoguerra, «che coltiva l’insensibilità nei delitti contro il pubblico denaro e appesta tutto, confonde tutto, dando all’Italia la sua pietosa fama di furberia, tortuosità, vanità, bassa sensualità ». Questa diagnosi di Corrado Alvaro vale ancora; è ancor vero che l’«antica, onoranda borghesia creatrice, con attitudine alla mercatura, all’industria, all’agricoltura» di cui l’Italia poté vantarsi «si conta ormai sulle dieci dita».
Per frenare l’emorragia ci sarebbero due strade (o una combinazione fra le due): una politica di investimenti pubblici, come suggerito da Guido Roberto Vitale, e l’applicazione dell’art. 46 della Costituzione, che «riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare alla gestione delle aziende», come ha ricordato Susanna Camusso. C’è da scommettere che il governo non tenterà né l’una né l’altra. A qualsiasi investimento di fondi pubblici si oppone infatti non tanto la sbandierata congiuntura economica, ma la sistematica rimozione della monumentale evasione fiscale, protetta da tutti i governi come un fortilizio. L’Italia è al terzo posto al mondo per evasione fiscale, preceduta solo da Turchia e Messico (dati Ocse): 154,54 miliardi di euro di tasse non pagate nel solo 2012 (valutazione Confcommercio); e basterebbe recuperarne il 10 % per affrontare le prime emergenze senza nuovi sacrifici e imposizioni. Di dare esecuzione alla “democrazia economica” prevista dalla Costituzione, poi, non se ne parla: come potrebbe «promuovere l’elevazione economica e sociale del lavoro» (art. 46) un governo che in nome dell’austerità ignora il diritto al lavoro (Costituzione, art. 4)? Come potrebbe affidare «a comunità
di lavoratori o di utenti determinate imprese […] di preminente interesse generale» (art. 43), se lo stesso presidente del Consiglio (coi ministri Quagliariello e Franceschini) firma la proposta di modifica radicale della Costituzione in quanto scritta «nella temperie della guerra fredda » e non più adatta al «mutato scenario politico, economico e sociale»? Se queste parole (datate 10 giugno) echeggiano quelle della finanziaria J. P. Morgan (28 maggio) secondo cui «le Costituzioni dei Paesi della periferia meridionale mostrano una forte influenza socialista, riflesso della forza politica delle sinistre dopo la sconfitta del fascismo », e perciò vanno cambiate? Se la stessa relazione Morgan indica nell’Italia «il test essenziale di questo cambiamento»?
Ma l’Europa non è un impero esterno che, dopo aver conquistato gli Stati membri, possa imporre manu militari
un proprio sistema di regole difformi dall’ordinamento di ciascun Paese. Dev’essere un concerto di voci, anche dissimili, in cui ogni Paese possa portare la propria tradizione culturale, civile, giuridica. Il Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea «lascia del tutto impregiudicato il regime di proprietà esistente negli Stati membri» (art. 345), dunque lo statuto della proprietà pubblica e privata in Italia è e resta quello della sua Costituzione (sovraordinata ai Trattati Ue): la proprietà privata dev’essere finalizzata all’«utilità sociale» (art 42), i beni pubblici e comuni sono garanzia indispensabile all’esercizio dei diritti fondamentali dei cittadini (come riaffermato dalla Commissione Rodotà). All’Europa come una sorta di Germania extralarge,
caricatura delle idee europeistiche da cui nacque l’Unione, è necessario sostituire un’altra idea di Europa, un’Europa delle culture e dei diritti, dove le drammatiche disuguaglianze fra i cittadini, anzi fra gli stessi Paesi (la Grecia!) non vengano attribuite a una sorta di fatalità di natura (le “leggi dei mercati”), ma intese come una stortura da correggere, come la prova provata di errori gravi nella costruzione del sistema. Se mai l’Italia vorrà essere fedele alla propria Costituzione, questa è la sua prima missione in Europa.

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