Così la Mafia colpì Firenze

24 Maggio 2013

All’1,04 del 27 maggio 1993 scoppiò l’inferno in via De’ Georgofili. Per qualche ora si pensò a una fuga di gas, anche se non c’era odore di gas ma di polvere da sparo. Era stata una bomba di micidiale potenza a sventrare Firenze. A 20 anni dalla strage ordita da Cosa Nostra che produsse morti, feriti e danni irreparabili al patrimonio artistico, LeG è vicina ai familiari delle vittime. Giovanna Maggiani Chelli presidente dell’associazione sarà sul palco a Bologna nel corso della manifestazione del 2 giugno. Leggi il programma delle celebrazioni.

L’unica cosa chiara sin dall’inizio fu il bersaglio degli attentatori: il patrimonio artistico. E, sebbene l’Italia sia stata funestata da numerose stragi, mai prima di allora erano stati colpiti i tesori d’arte. Le indagini coordinate dalla procura di Firenze, che hanno individuato nei vertici di Cosa Nostra gli organizzatori dell’attentato di via de’ Georgofili e delle altre stragi compiute a Roma e a Milano nel corso del ’93, e nei loro sicari gli esecutori degli attentati, hanno svelato, tuttavia, che l’attacco ai monumenti fu suggerito da soggetti esterni alla mafia. Già lo aveva detto Salvatore Cancemi, il reggente della famiglia mafiosa di Porta Nuova, che il 22 luglio ’93, due mesi dopo la strage di Firenze e cinque giorni prima degli attentati a Roma e Milano della notte fra il 27 e il 28 luglio, si consegnò ai carabinieri: «Cosa Nostra non ha la mente fina di mettere un’autobomba come quella di Firenze». In seguito un altro pentito di rango, Giovanni Brusca, ha spiegato che fino al luglio del ’92 gli obiettivi di Cosa Nostra erano sempre stati uomini delle istituzioni e mai si era pensato a un attacco al patrimonio artistico e storico. Fu un oscuro personaggio, Paolo Bellini, estremista nero, assassino, ladro di quadri e di oggetti di antiquariato, informatore dei carabinieri, a far comprendere ai mafiosi che l’attacco ai tesori d’arte avrebbe potuto piegare lo Stato. Aveva conosciuto nel carcere di Sciacca il boss Antonino Gioè e lo aveva ricercato nel ’92. Brusca assisteva nascosto ai loro incontri. «Noi lo guardavamo come persona che apparteneva ai servizi segreti, 100%, non 99». Non che fosse venuto come mandante. Questo Brusca lo ha escluso «categoricamente». Ma dava dei suggerimenti che «venivano posati su un vassoio». E fu durante queste conversazioni che saltò fuori il discorso della torre di Pisa. «Se tu a Pisa vai a togliere la torre, è finita Pisa». «Da quel momento noi cominciammo a mettere gli occhi sulla Toscana», ha spiegato Brusca: «E lui insisteva per compiere qualche cosa. Insisteva: voi dovete fare questo. Era tartassante, cioè ogni 15 giorni».
IL DÉPLIANT
Un ulteriore elemento sulla scelta dell’obiettivo è stato fornito nel 2008 da Gaspare Spatuzza, già braccio destro di Giuseppe Graviano, boss del mandamento di Brancaccio. Spatuzza fu uno dei componenti del gruppo di fuoco che eseguì l’attentato di Firenze e per questo è stato condannato all’ergastolo. Dopo una profonda crisi morale e religiosa, si è pentito del suo passato di assassino. Il 3 febbraio 2011, in aula bunker, ha chiesto perdono a Firenze, «questa città in cui sono arrivato da terrorista e che ho sfregiato nel cuore». Spatuzza ha raccontato che dopo l’attentato di via Fauro a Roma contro Maurizio Costanzo (14 maggio ’93), Giuseppe Graviano, il suo capo, lo convocò in un villino di Santa Flavia, nei pressi di Palermo, presenti anche altri boss e soldati di Cosa Nostra, e annunciò: «C’è da fare un lavoretto a Firenze. Siamo qui per mettere tutto a punto». Sul tavolo c’erano dei dépliant di viaggio. «Già loro avevano gli obiettivi. I dépliant erano là per fare vedere a noi gli obiettivi da colpire».
L’ESPLOSIVO
Le rivelazioni di Spatuzza hanno permesso di recente alla procura di Firenze e alla Dia di risalire alla fornitura delle ingentissime quantità di tritolo utilizzate nella campagna di stragi del ’92-’93. Secondo le accuse, è stato un povero pescatore di Porticello, Cosimo D’Amato, cugino di Cosimo Lo Nigro, uno dei componenti del gruppo di fuoco, a provvedere alle necessità di Cosa Nostra, ripescando dai fondali marini bombe inesplose della seconda guerra mondiale. Gli inquirenti ritengono che provenga dal fondo del mare la maggior parte dell’enorme quantità di tritolo (fra i 1.280 e i 1.340 chili) utilizzata da Cosa Nostra per gli attentati del ’92-’93. Ieri D’Amato è stato condannato all’ergastolo per concorso nelle stragi. Una volta inertizzati e aperti gli ordigni, il tritolo pietrificato veniva macinato, ridotto in sabbia e confezionato in forme simili a quelle del parmigiano. Del loro trasporto in “continente” per gli attentati del ’93 venne incaricato un camionista palermitano, Pietro Carra, che eseguì gli ordini molto a malincuore, nascondendo le forme nel sottofondo del suo autoarticolato. Appena individuato e arrestato scelse di collaborare.
LA BASE
Per poter compiere l’attentato di Firenze, Cosa Nostra aveva bisogno di una base logistica in città o nelle vicinanze. Nel mese di aprile del ’93, quando evidentemente la decisione di sferrare l’attacco era già stata presa, Gioacchino Calabrò, boss di Castellammare del Golfo, convocò Vincenzo Ferro, studente di medicina e figlio del capo mandamento di Alcamo Giuseppe Ferro (in quei giorni in carcere), e gli ordinò di mettersi in contatto con lo zio Antonino Messana, fratello di sua madre Grazia e muratore a Prato, per chiedergli la disponibilità di un garage. Lo zio non voleva saperne. Lavorava onestamente, aveva tre figli. Non voleva aver niente a che fare con i mafiosi. Ma Calabrò si arrabbiò di brutto e costrinse Vincenzo Ferro a fare ben quattro viaggi a Prato per convincerlo (o meglio costringerlo) non solo a mettere a disposizione un garage ma anche a ospitare alcuni suoi emissari. Lo zio si rassegnò, a condizione che Vincenzo fosse presente. Avrebbe potuto avvertire le forze di polizia ma non lo fece, né prima né dopo l’attentato. Della mafia non voleva saperne, ma non al punto di denunciarne i crimini. Se avesse parlato, all’Italia sarebbe stata risparmiata la campagna di stragi del ’93. Ha pagato il suo silenzio con una severa condanna.
IL GRUPPO DI FUOCO
Il 23 maggio Antonino Messana chiamò il nipote in Sicilia e gli chiese di salire a Prato, perché gli emissari di Calabrò erano arrivati. Vincenzo Ferro trovò, sistemati in una stanza al primo piano, Gaspare Spatuzza, detto
‘u tignusu per la sua calvizie, che all’epoca aveva 29 anni, Giuseppe Barranca, detto “ghiaccio”, 37 anni, Francesco Giuliano, 24 anni, detto Olivetti, e Cosimo Lo Nigro, 25 anni, detto cavallo o testa di cavallo o anche bingo, perché (come ha raccontato il pentito Pietro Romeo) quando piazzava l’esplosivo e sentiva il botto diceva “bingo”. Barranca, Giuliano e Lo Nigro facevano parte della famiglia mafiosa di Corso dei Mille, il cui boss, Francesco Tagliavia, era stato arrestato proprio il giorno precedente (il 22 maggio). Solo in anni recenti, dopo il pentimento di Spatuzza, Tagliavia è stato accusato delle stragi del ’93 per aver partecipato alla loro ideazione, aver messo a disposizione i suoi uomini e averne finanziato le trasferte in “continente”, anche se forse non era d’accordo con la strategia della guerra allo Stato a colpi di autobombe. Secondo Spatuzza, nel corso di una udienza a Palermo, si presume nel gennaio ’94, affidò a Lo Nigro un messaggio per il suo capo mandamento, Giuseppe Graviano, detto “madre natura”: «Dì a madre natura di fermare il bingo ». Il 5 ottobre 2011 Tagliavia è stato condannato all’ergastolo per le stragi. Ieri è cominciato il processo di appello.
I SOPRALLUOGHI
Vincenzo Ferro, studente di medicina e mafioso riluttante, nel ’96 ha scelto di collaborare con la giustizia. «C’era bisogno che qualcuno rompesse questa catena nella mia famiglia, altrimenti eravamo destinati a essere mafiosi a vita», spiegò all’epoca. Grazie a lui, gli inquirenti hanno potuto ricostruire i sopralluoghi compiuti dal gruppo di fuoco nel centro di Firenze. I mafiosi di fatto avevano requisito anche le auto della moglie e dei figli di Antonino Messana. Lo Nigro e Giuliano andarono a studiare i luoghi sia il 23 che il 24 maggio. La seconda volta vollero che Vincenzo Ferro li accompagnasse. Dalla stazione raggiunsero a piedi piazza Signoria, attraversarono velocemente il piazzale degli Uffizi (dove dissero a Ferro di accelerare il passo) e raggiunsero il Lungarno. Andarono a cena in un ristorante e poi fecero a ritroso lo stesso percorso. E’ molto probabile che l’obiettivo indicato dai capi per far esplodere l’autobomba fosse il piazzale degli Uffizi e che i sicari lo abbiano scartato perché era presidiato da telecamere e forse anche perché affollato. Così si sono salvate le opere più preziose conservate nell’ala Est degli Uffizi. Ma dalla parte opposta è stato l’inferno.
IL FIORINO
La notte fra il 25 e il 26 maggio i quattro sicari, utilizzando la Fiat Uno intestata alla moglie di Antonino Messana, si incontrarono con il camionista Pietro Carra, caricarono le forme di esplosivo sulla Uno (dove tre anni più tardi furono trovate tracce del tritolo trasportato) e le depositarono nel garage di casa Messana. L’indomani, 26 maggio, verso le 17-18, Giuliano e Spatuzza si allontanarono a bordo della Uno e rientrarono dopo circa un’ora con l’auto e con un furgone Fiat Fiorino che montava un portabagagli e che (come fu appurato poche ore dopo la strage) era stato rubato in via della Scala. A causa del portabagagli, il Fiorino non entrava nel garage. Allora i mafiosi lo smontarono, poi si chiusero dentro con il Fiorino e ci restarono più di un’ora. Verso mezzanotte Giuliano si allontanò sulla Uno e Lo Nigro sul Fiorino e prima di partire chiese a Vincenzo Ferro un sigaro. Poco dopo anche Spatuzza e Barranca se ne andarono sull’auto del cugino. Rientrò il solo Spatuzza, che si chiuse in camera. Barranca (come si seppe poi) era salito sul camion di Carra, per rientrare con lui a Palermo. E durante il viaggio comprò una radio allo spaccio del distributore Agip di Migliarino Nord, sull’autostrada Firenze Mare (gli inquirenti hanno ritrovato lo scontrino), restando poi per tutto il viaggio attaccato alla radio.
IN VIA DE’ GEORGOFILI
A mezzanotte e 40 minuti del 27 maggio un testimone notò che un Fiorino veniva parcheggiato davanti alla torre de’ Pulci. Una teste riferì il 30 maggio, tre giorni dopo la strage, che aveva notato sia il Fiorino che una Fiat Uno bianca. Per una miracolosa coincidenza, all’1,04, quando il furgone esplose con un boato spaventoso che fu sentito anche nei quartieri periferici, in via de’ Georgofili non stava passando nessuno, altrimenti sarebbe ridotto in brandelli. Gli abitanti, feriti e sconvolti, si precipitarono in strada mentre giungevano i primi soccorsi. Per qualche ora si pensò a una fuga di gas, anche se non c’era odore di gas ma di polvere da sparo. All’alba fu chiaro che non era stato il gas. Il gigantesco portone di legno massiccio di un palazzo vicino era stato completamente scardinato e nel cortile c’era il motore del Fiorino, scagliato a distanza dalla micidiale esplosione. E i vigili, rimuovendo le macerie, portarono alla luce un enorme cratere di forma ellittica, del diametro, da un lato, di quasi 5 metri (4,95), e dall’altro di quasi 3 (2,90), e profondo quasi 1 metro e mezzo (1,41). Era stata una bomba di micidiale potenza a sventrare Firenze.

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