Quando, il 15 marzo, le Camere si riuniranno per la prima volta (in un giorno, le Idi di Marzo, che a Roma ha una sua storia) si troveranno di fronte non uno ma due scenari complicati. Non solo quello politico: di cui tutto il mondo ormai sa. Ma anche quello istituzionale. Perché?
Perché il Parlamento sarà nuovo, ma i suoi regolamenti sono vecchi. Di per sé non sarebbe un male, anzi: la forza di una istituzione è proprio nella stabilità delle sue regole. Al di là della discontinuità delle persone che, di volta in volta, la compongono. Ma è un guaio quando quei regolamenti sono pieni di incertezze, di contraddizioni, di omissioni. Tra le colpe dell’ultima legislatura perduta (2008-2013) forse la più grave è proprio questa: di non aver provveduto a sanare le debolezze che ognuno vedeva ad occhio nudo nel funzionamento delle Camere. Non si trattava di cambiare la Costituzione. Per migliorare un po’ le cose bastava mettersi d’accordo per rimediare ai buchi neri, alle incoerenze dell’impianto procedurale. Ma neppure questa limitata intesa è stata possibile. Così la legislatura si è chiusa con un Parlamento che poteva passare dall’asservimento ai più stravaganti interessi personali del premier; alla puntigliosa resistenza contro riforme di interesse generale. Un Parlamento di cui si poteva dire ad uno stesso tempo (e si è detto in campagna elettorale) che fosse ingovernabile o che fosse, invece, una semplice protesi del potere di governo.
Il programma di revisioni regolamentari che poteva (e doveva) essere attuato è così ora davanti al nuovo Parlamento come un compito dimenticato. Tra le cose non fatte, rimangono le incomprensibili differenze tra le regole procedurali del Senato e quelle della Camera. Tra di esse vi sono quelle che non permettono un quadro di tempi certi per le decisioni sulle iniziative del governo e per l’esercizio dei diritti d’opposizione. Vi sono quelle sul calcolo degli astenuti nelle votazioni: per cui una legge o addirittura un governo possono, con gli stessi numeri, ottenere il voto favorevole alla Camera e non al Senato. Vi sono quelle sui limiti diversi che nelle due Camere si pongono all’ostruzionismo: sia nelle procedure preparatorie in commissione, sia nelle proposte di emendamenti, sia nella ripetizione delle verifiche del numero legale.
Poi ci sono le omissioni di coordinamento tra le due Camere. Non si è cercato di unificare tra Montecitorio e Palazzo Madama (anche per risparmiare soldi) le fasi conoscitive, le indagini, le istruttorie, gli uffici studi. Non si sono ancora costruite – dal momento che la Grande Crisi ha spiegato a tutti i limiti della nostra sovranità parlamentare – né le procedure né la sede unica per la partecipazione diretta e permanente del Parlamento alle decisioni dell’Unione europea (in sintonia con la precisa “legge comunitaria” varata dal governo Monti). Non si è consentito l’ingresso dei rappresentanti regionali in Parlamento, nell’ambito della speciale Commissione, già proposta (da 12 anni) in norme costituzionali. Insomma: non si è fatto niente su questioni che non soltanto sono importanti giuridicamente. Esse soprattutto incidono sul grado in cui il lavoro delle istituzioni parlamentari può essere seguito e capito dai cittadini.
Le centinaia di nuovi e giovani parlamentari entreranno così in una istituzione fragile che certo non resisterebbe ad un giuoco “a rompere”, condotto sino in fondo. Ma a che servirebbe rompere: se non ad una caotica e disperata distruzione, anticamera di qualche tragedia politica? Non c’è a Roma un compatto meccanismo parlamentare da sventrare, com’è stato immaginato da chi pensa ad una specie di assalto ad un Palazzo di Inverno. C’è invece una macchina in affanno: da adeguare ai tempi, tra tutte le incertezze dei tempi. Il difficile non è dunque cercare di sabotarla dal di dentro: il difficile è rimetterla in moto – anche attraverso la forza di nuove regole interne – per farle ritrovare l’energia perduta. Che poi è l’energia della rappresentanza.
La parola “parlamentarizzazione” significava, un tempo, il recupero alle istituzioni statali di eletti espressi da movimenti anarchici o, comunque, anti- sistema. Oggi può significare esattamente il contrario. I nuovi parlamentari vengono tutti o da partiti-non-partiti o da un partito, il Pd, profondamente trasformato dalle “primarie”. I gruppi parlamentari non possono essere più considerati come le “sezioni istituzionali”, le famose “cinghie di trasmissione”, dei partiti. È da questa situazione inedita che possono sorgere la spinta e le aperture – anche regolamentari – per far recuperare all’istituzione appunto il vitalismo della rappresentanza. Il Parlamento, con questo spettacolare rinnovamento di personale, può cioè diventare l’interporto delle rappresentanze smarrite. La rappresentanza dei lavoratori-isolati-dimassa. La rappresentanza degli “invisibili”, dei non-cittadini. La rappresentanza della “società informata” che vive la Rete: prima come strumento di associazione virtuale e poi come mobilitazione politica reale. La rappresentanza dei territori abbandonati.
Ecco: se questo recupero di vitalità rappresentativa sarà possibile e diventerà reale, allora “parlamentarizzazione” indicherà il ritrovamento di queste molte Italia in un rapporto continuo e diretto con la democrazia parlamentare. Una democrazia che in quel rapporto, quasi naturalmente, può trasformare se stessa: nella sostanza politica prima che nei suoi regolamenti. La speranza è che la “nuova classe” di eletti si metta subito al lavoro. Decisa non ad una sterile “occupazione” del Parlamento: ma alla sua trasformazione per “occupare”, per “parlamentarizzare”, il Paese.
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