C’è una mina vagante nel dibattito politico di questi giorni: il progetto di riforma istituzionale. Le idee sono molto confuse e anzi contraddittorie. Non ci sono obiettivi comuni tra le forze politiche. Le proposte più azzardate e provocatorie vengono dall’irriducibile Cavaliere che – more solito – vuole davvero sovvertire l’ordinamento e “l’architettura costituzionale”, come dice lui. La prima riforma dovrebbe prevedere “maggiori poteri al capo del governo” , poi “i decreti legge sottratti al vaglio del Capo dello Stato”. Naturalmente interventi sulla composizione della Corte costituzionale e soprattutto – culmine del progetto per rovesciare le regole della Carta del 1948 – “elezione diretta del Presidente della Repubblica” (leggi anche l’articolo di Alessandro Pace su ‘Repubblica’ : “Costituzione, le bugie del Cavaliere“).
Come tutti ricordiamo, un progetto di riforma simile, sostenuto per mesi dal centrodestra (Pdl e Lega), è stato bloccato nell’autunno scorso al Senato dall’opposizione del Pd e Italia dei valori. Nella nuova legislatura che si apre ora, il tema delle riforme costituzionali si ripropone.
In che modo e con quali obiettivi?
Come ha spiegato con grande lucidità il presidente onorario di LeG Zagrebelsky al paese occorre una “stagione costituzionale“, che significa riportare la Costituzione attuale al centro del sistema politico e del dibattito. “Con un partito impegnato a sostenere: il mio programma è la Costituzione, il ripristino della Costituzione, nella vita politica e nella coscienza degli italiani”. Perché il rispetto della Costituzione non si riduce “alla semplice non-violazione”, osserva il giurista, “ma richiede attuazione delle sue norme, da assumersi come programmi d’azione politica”.
Anche Valerio Onida, costituzionalista, nel consiglio di presidenza di LeG, ha indicato qualche settimana fa (sul “Sole 24 Ore”) quali “riforme mirate” della Carta sarebbero possibili, con un metodo corretto: le modifiche della Costituzione “non si fanno ‘a pacchetto’, in cui in Parlamento si rischia di far passare anche modifiche giudicate negativamente pur di ottenerne altre giudicate positive, e in cui nell’eventuale referendum popolare gli elettori a loro volta sono costretti a dire un ‘si’ o un ‘no’ unico, senza poter distinguere”. Dunque nessuna “legislatura costituente”, sostiene Onida, “ma discussione seria e mirata su singole specifiche riforme, da varare, quando è il caso, distintamente l’una dall’altra”.
Alcuni tecnici e giuristi che fanno parte del gruppo Astrid (Associazione per gli studi e le ricerche sulla riforma delle istituzioni democratiche), come Andrea Manzella, Franco Bassanini, Giorgio Macciotta e altri, hanno elaborato nei mesi scorsi precise idee di modifica, che sono raccolte nel volume (Einaudi editore) dal significativo titolo “Per far funzionare il Parlamento. Quarantaquattro modeste proposte”.
Scrive Manzella nel quaderno di ricerca, che in questo momento (dopo la legge elettorale del 2005, purtroppo ancora non modificata, che “ha scardinato il rapporto tra eletti, elettori e territorio”) il Parlamento “è tramortito”. Per rianimarlo, non serve una nuova “ubriacatura” riformista come quella che fu respinta dal referendum del giugno 2006. E’ invece necessario, dice Manzella, “mettere mano ad un ‘bricolage’ di revisioni di modi di procedere, di prassi di lavoro delle Camere per renderne più logica, più trasparente, più sostenibile la vita”. E quindi ricostruire, con i tempi e modi necessari, “la vitalità delle commissioni parlamentari, come comunità di base per ritrovarsi insieme davanti a progetti concreti”, per rendere il bicameralismo più aperto e nello stesso tempo “meno assurdo, meno burocratico, meno costoso” (fermo restando che sullo sfondo c’è sempre la grande questione costituzionale irrisolta: “a che serve avere due Camere”).
Ecco alcune fra le 44 “modeste proposte” (come le definisce con understatement Manzella) per far funzionare “un po’ meglio le nostre Camere”: assicurare poteri e tempi certi ed adeguati per l’istruttoria legislativa delle commissioni permanenti; ripartire in tre parti uguali i tempi di lavoro parlamentare tra maggioranza, governo ed opposizione; assegnare date e tempi certi per la discussione dei provvedimenti in aula; per ridurre il fenomeno dell’ostruzionismo imporre ai gruppi il dovere di selezionare gli emendamenti più importanti; innalzare il numero minimo di parlamentari per la formazione dei gruppi; eliminare gli incentivi alla formazione di tali gruppi; vietare la prassi dei maxiemendamenti; assicurare la presenza periodica del presidente del consiglio in Parlamento, anche con la tecnica del premier question time.
Tutti provvedimenti e decisioni che non riducono il ruolo politico del Parlamento, né ribaltano la filosofia della Carta. Servono anzi a confermare e rafforzare la scelta del costituente per la forma di governo parlamentare, modernizzandola dove occorre. Come osserva Franco Bassanini, nel quaderno di Astrid, adeguando la Costituzione “ad una realtà politico-istituzionale ed economico-sociale significativamente modificata”, rispetto al 1948.
Soprattutto, ha spiegato Manzella (su “Repubblica”), “si può riuscire a fare alcune cose indispensabili per attuare e democratizzare la Costituzione, senza cambiarla e quindi in tempi possibili”. Dobbiamo lavorare per ottenere norme nuove che “recuperino il senso originario di legge fondativa fatta per i cittadini e ne impediscano il tradimento contro i cittadini”. Per attuare la Costituzione prima di cambiarla.
Un altro specialista, Luciano Violante, (presidente del forum Pd Riforma dello Stato), ha di recente indicato la via percorribile (“Unità”, 18 gennaio): “Cominciamo dai regolamenti parlamentari della Camera e Senato, per razionalizzare il procedimento legislativo….che favorisca il confronto con le opposizioni e disincentivi le strumentalizzazioni….non è accettabile che il decreto legge, con maxiemendamento e fiducia diventi il solo strumento per legiferare….bisogna ricondurre il dl alla sua natura costituzionale di strumento per affrontare imprevedibili emergenze”.
Il Pd, da parte sua, precisa le linee programmatiche di un’eventuale riforma: “più rispetto delle regole, una netta separazione dei poteri, una vera democrazia paritaria e l’applicazione corretta ed integrale di quella Costituzione che rimane tra le più belle ed avanzate del mondo”.
Inoltre, si sottolinea, il progetto di trasformazione civile, economica e sociale della Carta, “per buona parte è ancora da mettere in atto”. Ecco quindi quali sono gli interventi che si propongono, in sintesi, nel capitolo del programma Pd “riformare le istituzioni per superare la crisi della democrazia”: anzitutto “dimezzamento del numero dei parlamentari” e “superamento del bicameralismo paritario”, con funzioni e competenze differenziate tra Camera e Senato; rendere il sistema decisionale “più rapido, più efficiente e più controllabile e potenziare gli strumenti di partecipazione dei cittadini”, anche attraverso la riforma della legge elettorale (doppio turno di collegio). Si dovrà, inoltre, “rafforzare l’istituto del referendum e le proposte di legge di iniziativa popolare”. E poi, ridurre i costi della politica, rispettare i principi fondamentali dell’etica pubblica,”costituzionalizzare il divieto di conflitto di interessi”. Ancora: rendere più “razionale l’azione dell’esecutivo” ma – attenzione! – “preservando la natura parlamentare della forma di governo” (quindi nessuna tentazione a favore di una Repubblica presidenziale o semipresidenziale). Il capo del governo riceve la fiducia, nomina i ministri e potrà anche revocarli (potere oggi non previsto). Sui disegni di legge del governo, il premier potrà chiedere il voto a data fissa, Infine legge di riforma dei partiti, che “alla riduzione del finanziamento pubblico affianchi una legge di attuazione dell’art.49 della Costituzione”.
L’opinione pubblica, la società civile, i costituzionalisti, i politologi dovranno vigilare e verificare affinchè i buoni propositi non vengano traditi. Le scelte politiche del 2013 non possono riportarci alla riforma della Costituzione pericolosa ed inaccettabile che nel giugno 2006 fu bocciata largamente dal referendum confermativo.
Per essere ancora più chiari: non sono ovviamente precluse modifiche della Costituzione limitate e calibrate, ma non rivolte a demolirla o indebolirla.
E’ la battaglia in cui è impegnata LeG con la “stagione costituzionale” di Zagrebelsky: nella Carta c’è “almeno la traccia della risposta ai nostri maggiori problemi” (il lavoro, la salute, i diritti civili, l’uguaglianza, l’equità sociale e fiscale, l’istruzione, i beni culturali, la natura, l’informazione), purchè essa sia applicata adeguatamente. Non c’è bisogno di una stagione ricostituente, ma, appunto, di una “stagione costituzionale” di rispetto e attuazione della Carta. E’ il compito forse più importante, significativo e arduo che avrà di fronte il nuovo Parlamento.
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