Addio democrazia!

29 Novembre 2010

Nelle proposte di governo di transizione e di grandi alleanze elettorali una costante è la riforma della Costituzione. L’altra, la paura di Vendola. Ma se alle elezioni una forza con il 25 per cento prende il premio di maggioranza…

C’è da restare sgomenti a seguire la discussione interna al Partito democratico su come affrontare la crisi attuale. Sgomenti  perché si vede come i problemi interni non sono stati ancora risolti e come ancora una volta tutto ruoti attorno all’eterno dilemma se sia prioritario andare in cerca di alleanze e dunque stabilire prima chi convenga che siano i compagni di strada o se prima si debba cercare di dare un’identità al partito, cosa che non è stata fatta in tutti questi anni per mancanza di coraggio e di lungimiranza.

E poco o nulla interesserebbe questo problema se non fosse che in questa fase di declino di Berlusconi con la drammaticità che la caratterizza, la sorte del Pd non può non essere un elemento importante per tutti, anche per chi oggi si appassiona meno di un tempo a ciò che succede in una forza politica nella quale aveva sperato solo poco tempo fa.

La discussione si intreccia con quella sui possibili sviluppi della possibile crisi di governo.

In un primo momento, si dice, bisogna sostenere l’ipotesi di un governo di transizione. Ad esso dovrebbero partecipare tutte le forze che in Parlamento si oppongono all’attuale governo ma anche quelle disponibili all’interno dell’attuale maggioranza. Cosa dovrebbe fare questo governo? Secondo D’Alema, il governo di transizione potrebbe fare poco o anche molto. Nel primo caso la sua azione si limiterebbe a “piccole modifiche alla legge elettorale, ad esempio introducendo due preferenze, una per un uomo, una per una donna e facendo scattare il premio di maggioranza solo oltre il 45% dei consensi”.

Ma il governo di transizione (sempre quello con tutti dentro) potrebbe “fare di più”. E cioè: completare la transizione costituzionale, riformare la pubblica amministrazione, il fisco, il Welfare. Tutto questo “per aprire una nuova stagione politica”.

Se Pdl e Lega non ci staranno, allora le forze politiche disposte a fare un governo di transizione dovrebbero affrontare le elezioni “dando vita a una larga alleanza con un programma di salvezza nazionale per rimettere in sesto le istituzioni”.

Il segretario Bersani parla piuttosto di un governo “di stabilità finanziaria ed economica” e concorda con D’Alema sul punto delle riforme: “Riapriamo il tema delle riforme istituzionali”.

Quanto agli amici di Veltroni, essi si distinguono dalla segreteria del Pd perché dice Giorgio Tonini mentre c’ è un accordo sull’idea di un governo di transizione “ci divide la prospettiva di fondo per il dopo Berlusconi: Pd pride vuol dire tornare ad essere al centro della scena politica, con le nostre proposte per il Paese”. La prima delle quali è il fatto che tocca al Pd selezionare gli alleati sulla base di chi aderisce alle proposte del Pd. Su un punto sembrano convenire veltroniani, Bersani e D’Alema: congelare le primarie perché comunque il nemico numero uno da battere non è più Berlusconi (se mai lo è stato), bensì Vendola.

Restano dunque ferme, tra tanti ondeggiamenti e incertezze d’ogni sorta, alcune certezze granitiche: il terreno su cui esercitarsi a costruire intese con tutti quelli che ci stanno (maggioranza e minoranza) è quello delle riforme della Costituzione; il nemico è chiunque dall’interno o da un’area limitrofa contende lo spazio ritenuto proprio e intoccabile.

Con una tale confusione di progetti e di identità non si vede proprio come il Pd possa pensare di servire la causa del post berlusconismo. Spiega con una certa efficacia Michele Ainis: il Paese è bloccato, il Pd si trastulla in una partita tutta interna al segretario o agli ex segretari (Bersani, D’Alema, Veltroni, Franceschini). Sono tutti lì. Serve qualcosa di nuovo: o un rinnovamento profondo interno al partito, o nuovi partiti. E se andiamo alle elezioni e una forza col 25% prende il premio di maggioranza, addio democrazia!

Dice Bersani che il Pd non si deve perdere dietro alla “narrazione” di Nichi, alle favole del governatore della Puglia. Il Pd invece deve avere la sua “cifra”. Intende la sua identità. Fino ad oggi non ci è riuscito. Sarebbe utile a tutti se lo facesse ora, senza aggrapparsi alle riforme della Costituzione come unico terreno di trattativa, sul quale tessere trame e accordi. Col risultato di portare il Paese da un’emergenza istituzionale ad un’altra.

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