E’ difficile, davvero difficile, reprimere un moto di fastidio davanti a ciò che sta accadendo nel Pd. Intendiamoci: che dopo una batosta elettorale si scatenino i cattivi umori è comprensibile e, in una certa misura, perfino benefico e disintossicante. Ma che questo accada secondo uno schema stantio e completamente privo di potenzialità costruttive è desolante. E invece sembra proprio che il neonato partito non trovi di meglio che rimettere in scena l’eterno duello tra Veltroni e D’Alema, una commedia che l’elettore medio di centro sinistra, già depresso per il verdetto delle urne, non ha nessuna voglia di rivedere.Conosciamo l’obiezione: sono i giornalisti che interpretano in questa chiave ogni parola detta dai due. E in parte è vero. C’è una sorta di riflesso pavloviano che spinge il cronista, nel riferire il ragionamento di uno, a cercar di capire in che modo intenda nuocere all’altro. Ma bisogna dire che in genere ci riesce. Sapete perché? Perché mentre il leader interessato si profonde in diplomatiche negazioni, i suoi, veltroniani e dalemiani allo stesso modo, sussurrano nell’orecchio del giornalista di turno interpretazioni feroci nei confronti dell’avversario. Che essendo molto più succulente finiscono per prevalere su tutto il resto.Bisogna dire che oggi il copione è variato: lo scontro è più scoperto di ieri. Lo si è visto nella plastica contrapposizione delle due riunioni di martedì 5 maggio: Veltroni insieme ai segretari regionali da una parte e D’Alema insieme a un gruppo di parlamentari dall’altra, con tanto di spola tra le due sedi di parlamentari come Minniti e Pollastrini, tenuti istituzionalmente a partecipare alla riunione veltroniana ma trascinati dal cuore a presenziare anche a quella dalemiana.
Se non si volevano alimentare chiacchiere malevole, sarebbe bastato evitare la contemporaneità tra i due eventi. Ma stavolta questa preoccupazione non c’era: D’Alema lo ha dimostrato difendendo la sua scelta, e anche illustrando, nell’intervista a “Italianieuropei” anticipata dal Riformista, la sua strategia per il futuro del Pd e del centro sinistra.Il ragionamento dalemiano è pregevole: non parte all’assalto di Veltroni ma tratteggia una politica coerente e compiuta, sia sul piano dei contenuti programmatici che su quello delle alleanze. Se anche ci fosse un retropensiero, varrebbe la pena di prenderlo in parola e discuterne nel merito. Il problema è che le sedi di discussione, in un partito ancora privo di struttura, non ci sono. E tutto resta affidato ai segnali mediatici e agli incontri riservati: il contrario di quello di cui il Pd avrebbe bisogno.E allora, per una volta, abbandoniamoci ad un auspicio ingenuo ed elementare: i due hanno caratteri diversissimi e attitudini altrettanto diverse. D’Alema ha lucidità di analisi e capacità strategica, unita ad atteggiamenti urticanti. Veltroni appare politicamente meno solido, ma sa parlare ai cuori e riesce a motivare le truppe. Se smettessero di combattersi potrebbe venirne fuori qualcosa di buono. Entrambi, poi, dovrebbero dedicare le loro energie a far crescere una nuova classe dirigente, per il Pd e per il paese. Il che significa smetterla con la difesa delle trincee del potere interno al Pd (per Veltroni) o con l’assalto alle medesime (per D’Alema).
E significa anche abbandonare il bilancino, secondo il quale se qui mettiamo un ex Ds lì dobbiamo mettere un ex Margherita: competenza e bravura dovrebbero essere gli unici requisiti richiesti. C’è un’occasione per dimostrare intenzioni virtuose: il governo ombra. Può essere uno strumento efficace oppure, come è accaduto in passato, può essere una farsa. Sarà efficace se personalità competenti produrranno proposte capaci di incalzare il governo e presentare ai cittadini ricette credibili e alternative a quelle berlusconiane. Sarà una farsa se si ridurrà all’offerta di poltrone-ombra per premiare i fedelissimi.Speriamo in bene. Perché nella maggioranza di centro destra le contraddizioni ci sono, e si vedono già. Ma il governo Berlusconi avrà comunque vita facile se il maggior partito di opposizione sarà impegnato a dilaniarsi invece di fare il suo mestiere.
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