Draghi l’europeista e il discorso della fiducia

19 Feb 2021

Roberta De Monticelli Consiglio di Presidenza Libertà e Giustizia

Ci sono dei momenti, nella storia, che possono definirsi occasioni di civiltà – pur con tutta l’incertezza e la contingenza evocate dalla parola “occasioni”. Occasioni che, perdute, significano tragedia, e còlte invece possono (forse) inaugurare epoche migliori.

L’esempio di un’occasione perduta è quella che Stefan Zweig in un suo memorabile racconto ha chiamato La rinuncia di Wilson, intendendo il “momento fatale” in cui la resistenza di Woodrow Wilson “alle potenze dell’avidità, dell’odio e della stupidità” e il suo sogno di pace perpetua fu spezzato dalle pressioni di Clemenceau in primo luogo – ma anche dell’inglese Lloyd George e dell’italiano Sidney Sonnino – che condussero alla disastrosa pace di Versailles.

L’esempio di un’occasione colta è il secondo dopoguerra nel mondo, con la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, la loro costituzionalizzazione nelle nuove democrazie nate dalla catastrofe, fra cui la nostra. Dal riferimento a quel periodo di rinascita non a caso ha preso le mosse il discorso programmatico del presidente del Consiglio Draghi.

Nel 1919 ben pochi fra i politici intravidero “quali forze creative sarebbero scaturite da quel no” – che invece, ci fa intendere Stefan Zweig, milioni di invisibili da ogni parte del mondo silenziosamente supplicavano Wilson di sostenere.

Non so se il discorso di Draghi al Senato abbia suscitato paragonabili speranze fra i cittadini italiani e quelli europei – altrettanto interessati, dato che il disegno ideale che ne emergeva, terso, è quello di un’Italia che si salva in Europa, in un’Europa sempre più integrata e rafforzata in direzione federale – o allora di un’Italia che si perde, ma trascina alla rovina questa Europa.

Con una sua nuova unità e solidarietà fiscale e una comune gestione delle politiche internazionali (e migratorie), delle strategie di investimento, dell’ecologia e del welfare. E, tornando a noi, con tutte le precise indicazioni di riforma che questo comporta per il Governo del Paese, e non da rinviare a dopo l’emergenza ma da iniziare subito: secondo il detto di Cavour.

Fra le forze che fecero il Risorgimento, il presidente ha evocato quella dello statista. Secondo riferimento, dopo quello ai costituenti. Il terzo fu, sobrio e laicissimo, al Padreterno stesso. E ci stava bene, è stato un piccolo aiuto, per tutti gli specialisti del commento politico curvi sui loro appunti – ad alzare per un attimo lo sguardo. Tanto per cogliere la vastità del disegno. L’ampiezza del suo respiro e del suo orizzonte temporale. Oltre che per ricordare un asse portante del discorso: la difesa del creato. Ai commentatori professionali l’arduo mestiere del commento politico quotidiano.

Questa è una riflessione che è insieme personale, eppure forse – se Zweig aveva ragione – anche silenziosamente condivisa da molti: anche popolare. A proposito di alto e di basso, non c’è dubbio che il profilo di quel discorso sia alto, al punto da far dimenticare almeno per un momento il dubbio se i ministri di questo governo ne siano all’altezza.

Invece quello che colpisce sui media e sui social, per poco che li si frequenti, è la mancata percezione di quest’”altezza”, vale a dire di questa dimensione che nei grandi spiriti e nei grandi statisti è il disegno ideale che perseguono. Certo, non sappiamo se Draghi si rivelerà uno di loro, e – certo – anche il cittadino meno esperto di politica (come chi scrive) vorrebbe naturalmente restare “vergin di servo encomio”.

Eppure, anche a prescindere da ogni futura delusione, esiste un nesso fra la bellezza di un discorso e la statura non solo intellettuale, ma anche morale di un uomo. In questo discorso io ho sentito l’eco – attutita, è ovvio – di due grandi spiriti liberi: Altiero Spinelli e Adriano Olivetti.

Di Spinelli c’è la convinzione che il liberalsocialismo della miglior tradizione (anche) italiana si sostanzia oggi soltanto in prospettiva europeistica e – tendenzialmente – cosmopolitica. Di Olivetti quella che una democrazia riesce a non diventare “kakistocrazia” – il governo dei peggiori – solo attraverso una promozione selettiva del personale amministrativo e politico a ogni livello: che, attraverso grandi scuole e specifici percorsi d’esperienza, restituisca alle istituzioni l’onorabilità e la fiducia di cui debbono godere.

I famosi “momenti fatali” di Stefan Zweig sono anche momenti che scompigliano l’unanimità dei convivi. I più, fra gli esponenti del “pensiero critico” italiano, e parlo proprio dei molti che siamo, filosofi e letterati, occupati o disoccupati, a volte rivestiti di panni ideologici totalmente contrari alla nostra vocazione – panni anti-illuministici, anti-umanistici, relativistici, decisionistici, quando non semplicemente cinici – non solo non amano, ma neppure vedono il disegno ideale di cui ho parlato.

Luciano Canfora ha definito l’europeismo “l’internazionalismo dei benestanti”: se lo mettesse su Facebook, sarebbe inondato di likes. Aveva torto, dunque, Stefan Zweig? Chi ha sentito la potenziale forza creativa di quelle parole non è, nel linguaggio di quegli ideologi – che un’anima bella, “benestante” per di più?

 

Nata a Pavia il 2 aprile 1952, è una filosofa italiana. Ha studiato alla Normale di Pisa, dove si è laureata nel 1976 con una tesi su Edmund Husserl.

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