Violazione degli artt. 1 e 48 della Costituzione
Il Governo Renzi, con il d.d.l. cost. AC n. 2613-B, già approvato nella prima delle due deliberazioni richieste per le leggi di revisione costituzionale, si propone di modificare le disposizioni costituzionali contenute nei titoli I, II, III, V, VI della Parte II della Costituzione e nelle disposizioni finali. Ebbene, poiché tali modifiche sono svariate – come si desume dalla stessa intitolazione della legge («Superamento del bicameralismo paritario e revisione del Titolo V della Parte seconda della Costituzione») – una volta che tale legge fosse sottoposta a referendum, coercirebbe la libertà di voto degli elettori (art. 48 Cost.) e violerebbe, nel contempo, la proclamazione della sovranità popolare «nelle forme e nei limiti della Costituzione» (art. 1 comma 2 Cost.), in quanto, trattandosi di una legge dal contenuto disomogeneo, l’elettore potrebbe esprimere, sull’intero testo, solo un sì o solo un no ancorché le scelte da compiere sono almeno due: la modifica dell’attuale forma di governo (e cioè il rafforzamento del Governo a spese del Parlamento, con un Senato ridotto ad una larva) e la modifica della forma di Stato (essendo rafforzata la posizione dello Stato centrale nei confronti delle Regioni).
Il che evidenzia l’illegittimità costituzionale che caratterizza il d.d.l. cost. AC n. 2613-B, perché viola, come già detto, gli artt. 1 e 48 Cost. Un vizio che non contraddistingueva invece la c.d. riforma della Costituzione proposta dal Governo Letta (d.d.l. cost. n. 813 AS), naufragata strada facendo, il cui art. 4 comma 2 prevedeva appunto che «Ciascun progetto di legge è omogeneo e autonomo dal punto di vista del contenuto e coerente dal punto di vista sistematico».
Ciò sta a significare che la scelta del Governo in favore di una legge costituzionale dal contenuto disomogeneo, è stata consapevole. Il Governo ha infatti inteso sfruttare le diffuse critiche, anche tecniche, sul mal funzionamento della riforma costituzionale dell’ordinamento regionale introdotta dalla legge cost. n. 3 del 2001, per indurre gli elettori a votare Sì, con la conseguenza che il voto sarebbe contestualmente favorevole alle modifiche della forma di governo: obiettivo prioritario del Governo Renzi.
Violazione dell’art. 138 della Costituzione
Il 29 dicembre 2015, nella conferenza di fine anno, Matteo Renzi si è formalmente impegnato a dimettersi da Presidente del Consiglio dei ministri qualora prevalesse il No nel referendum confermativo. Nell’impegnarsi a dimettersi in caso di sconfitta, Renzi ha però inequivocabilmente ammesso che la paternità della riforma costituzionale è stata del Governo. Non invece del Parlamento, il che risponde alla semplice, ma ovvia, ragione istituzionale di non coinvolgere nell’indirizzo politico di maggioranza il procedimento di revisione costituzionale, che si pone ad un livello ben più alto della politica quotidiana: un livello al quale anche le opposizioni devono poter avere voce in capitolo.
Scriveva infatti Piero Calamandrei nel 1947: «Quando l’assemblea discuterà pubblicamente la nuova Costituzione, i banchi del governo dovranno essere vuoti; estraneo del pari deve rimanere il governo alla formulazione del progetto, se si vuole che questo scaturisca interamente dalla libera determinazione dell’assemblea sovrana»[1].
Un principio – quello dell’estraneità del governo alle revisioni costituzionali – che è funzionale ad un regime parlamentare come il nostro, che è stato rispettato per 47 anni, fino al tentativo di riforma costituzionale Berlusconi (2005), che prevedeva il così detto “premierato assoluto” bocciato dal referendum del 2006; seguito dal tentativo di riforma costituzionale del governo Letta (2013), che pretendeva, con un “crono-programma” alla mano, di derogare alle norme inderogabili dell’art. 138 Cost.; infine dalla riforma costituzionale Renzi. Né può dirsi che questa riforma fosse legittimata da quei due precedenti, perché l’una fu bocciata dal popolo, l’altra naufragò strada facendo.
Che la riforma Renzi, come le due precedenti, costituisca il contenuto di un atto di indirizzo politico di maggioranza in contrasto coi principi testé ricordati, è confermato dai cinque accadimenti che qui di seguito ricorderò. I quali pertanto non costituiscono delle discrepanze procedurali. Essi sono invece perfettamente funzionali all’indirizzo governativo incostituzionalmente impresso al procedimento di revisione costituzionale.
Primo. La presentazione di un disegno di legge costituzionale per la revisione della Costituzione, ancorché non presente nel programma elettorale del PD, era esplicitamente previsto nel programma del Governo Renzi. Esso pertanto costituiva anche formalmente un atto di indirizzo politico di maggioranza.
Secondo. Immediata conseguenza di quella premessa fu la rimozione d’autorità, nel luglio 2014, dalla Commissione Affari costituzionali del Senato in sede referente, di due parlamentari (i senatori Mauro e Mineo), i quali, insieme ad altri 14 senatori, avevano invocato il rispetto della libertà di coscienza per ciò che attiene alle modifiche della Costituzione.
Terzo. In sede di prima lettura del d.d.l. cost. n. 2613 la sen. Finocchiaro assunse le funzioni di relatore di maggioranza e il sen. Calderoli le funzioni di relatore di minoranza. In sede di terza lettura (d.d.l. cost. n. 2613-B), mentre le funzioni di relatore di maggioranza della sen. Finocchiaro le vennero confermate, le funzioni di relatore di minoranza non vennero assegnate, col pretesto della fine del c.d. patto del Nazzareno (B. Caravita), laddove la procedura di revisione costituzionale avrebbe dovuto essere insensibile alle vicende politiche (P. Calamandrei).
Quarto. Nella seduta del 1° ottobre 2015 venne messo in votazione l’emendamento (n. 1.203) a firma dei senatori Cociancich e Luciano Rossi[2], strutturato in modo tale da precludere tutta una serie di votazioni che avrebbero richiesto il voto segreto, con notevoli rischi per il Governo e per la maggioranza. Una specie di super-canguro nel procedimento di revisione costituzionale!
Quinto. Come dirò anche nel prosieguo, il “futuro” art. 57 Cost. presenta un’insanabile contraddittorietà interna, addirittura risibile in un testo solenne come la Costiuzione. Prevede infatti due commi tra loro antitetici. Per uscire da questa contraddizione, si suggerì da più parti, e anche autorevolmente (E.Cheli), di seguire il parere della Giunta del Regolamento della Camera dei deputati, Pres. Napolitano, del 5 maggio 1993, reso nel corso della modifica dell’art. 68 Cost., nel quale era stato correttamente osservato, «in considerazione dell’atipicità del procedimento di revisione costituzionale», che fosse ammissibile l’emendamento soppressivo di un comma già favorevolmente votato dai due rami del Parlamento (caso analogo all’attuale).
Ciò nondimeno la Presidente Finocchiaro, nella seduta del 2 ottobre 2015, senza andare troppo per il sottile, non considerò affatto tale precedente sulla base di un duplice, specioso argomento: 1) che la riaffermazione dell’eleggibilità diretta del Senato avrebbe altresì implicato la titolarità del rapporto fiduciario col Governo; 2) che l’ammissibilità dell’emendamento soppressivo dell’art. 2 comma 2 d.d.l. n. 1429-B sarebbe stato preclusivo dell’intera riforma.
Argomenti entrambi inesatti. Quanto al primo, la sola elettività diretta non implica la titolarità del rapporto fiduciario, Nel sistema parlamentare il rapporto fiduciario lega bensì il Governo a una Camera eletta dal popolo, ma in quanto essa sia titolare dell’indirizzo politico generale. Per contro, nel d.d.l. Renzi-Boschi, il Senato non è titolare dell’indirizzo politico generale. Conseguentemente l’estensione ad esso del rapporto fiduciario col Governo costituirebbe il frutto di una scelta discrezionale del legislatore costituzionale, e non la conseguenza di un principio costituzionale.
Quanto al secondo argomento, l’approvazione dell’emendamento soppressivo del comma 2 avrebbe implicato la sola conseguenza della riconferma dell’elettività diretta del Senato, non il naufragio dell’intera riforma.
Gli accadimenti storico-politici che hanno determinato la curvatura del procedimento di revisione costituzionale a fini di indirizzo politico di maggioranza
Gli accadimenti che hanno di fatto incostituzionalmente determinato l’utilizzo del procedimento di revisione costituzionale a fini di indirizzo politico di maggioranza sono due: da un lato la sent. n. 1 del 2014 con la quale la Corte costituzionale dichiarò l’incostituzionalità del Porcellum sulla base del quale la XVII legislatura era stata costituita; dall’altro l’inosservanza, da parte del Governo e della maggioranza parlamentare, dei limiti temporali che tale sentenza imponeva al legislatore.
Mi spiego meglio. La Corte, pur dichiarando l’incostituzionalità del Porcellum, consentì espressamente alle Camere di continuare ad operare e a legiferare, non però in forza della legge elettorale dichiarata incostituzionale, bensì grazie a un principio fondamentale del nostro ordinamento conosciuto come il «principio di continuità dello Stato». La Corte richiamò due esempi di applicazione di tale principio: la prorogatio dei poteri delle Camere, a seguito delle nuove elezioni, finché non vengano convocate le nuove (art. 61 Cost.); la possibilità delle Camere sciolte di essere appositamente convocate per la conversione in legge di decreti legge (art. 77 comma 2 Cost.). Ebbene, in entrambe tali ipotesi, il «principio fondamentale della continuità dello Stato» incontra limiti di tempo assai brevi, non più di tre mesi!
Pertanto, ammesso pure che le nuove elezioni non potessero essere indette nei primi mesi del 2014 perché lo scioglimento delle Camere avrebbe portato alle stelle lo spread nei confronti del Bund tedesco, è però evidente l’azzardo istituzionale, da parte del Premier Renzi e dell’allora Presidente Napolitano, di iniziare una revisione costituzionale di così ampia portata nonostante la dichiarazione d’incostituzionalità del Porcellum, e quindi con un Parlamento delegittimato quanto meno politicamente, se non anche giuridicamente, con parlamentari non eletti ma “nominati” grazie al Porcellum, insicuri di essere rieletti e perciò ricattabili ed esposti alla mercé del migliore offerente. Il che è dimostrato dal record, nella XVII legislatura, di passaggi da un gruppo parlamentare all’altro «con 325 migrazioni tra Camera e Senato in poco più di due anni e mezzo, per un totale di 246 parlamentari coinvolti»[3].
Di questa situazione di fatto, priva di chiarezza istituzionale e politica, l’attuale Presidente del Consiglio ha approfittato, abilmente e spregiudicatamente, con indubbio tempismo e col favore dell’allora Presidente della Repubblica, mettendo immediatamente in cantiere sia la riforma costituzionale sia il c.d. Italicum, la combinazione dei quali conduce alle distorsioni costituzionali ed istituzionali che ho precedentemente elencato.
Nel merito della riforma. L’Italicum come “perno” della riforma costituzionale
È a tutti noto che la ratio della dichiarazione d’incostituzionalità della legge n. 270 del 2005 era stata individuata dalla Corte costituzionale nella «eccessiva divaricazione tra la compressione dell’organo di rappresentanza politica (…) e la volontà dei cittadini espressa attraverso il voto». Avrebbe quindi dovuto essere intuitivo all’allora Presidente della Repubblica e al Presidente del Consiglio Renzi che un Parlamento nel quale perdurava la «eccessiva sovra-rappresentazione della lista di maggioranza relativa» (quello eletto per la XVII legislatura repubblicana) non poteva considerarsi legittimato a procedere a revisioni costituzionali, come ribadirò nel prosieguo di questo mio intervento.
Ma non solo le norme del Porcellum sono state sostanzialmente riprodotte nell’Italicum, in forza del quale una lista, in sede di ballottaggio, col 20 o 25 per cento dei voti, potrebbe, grazie al premio di maggioranza, conseguire la maggioranza dei seggi, in contrasto con la sentenza n. 1 del 2014 della Corte costituzionale.
C’è di più. Grazie all’Italicum il rapporto tra legge costituzionale e legge elettorale è stato invertito costituendone il “perno”. È infatti l’Italicum, approvato per primo, ad individuare il vero obiettivo del combinato “legge costituzionale – legge elettorale”, e cioè «verticalizzare il potere e gestirlo senza ostacoli e limiti da parte di nessuno, cittadini compresi» (L. Carlassare).
Le finalità accentratrici della riforma Renzi quanto alla forma di governo e alla forma di Stato
Le finalità accentratrici del disegno istituzionale sotteso alla riforma Renzi sono indiscutibili.
Nei rapporti tra Stato e Regioni di diritto comune (non però nei rapporti con le Regioni di diritto speciale, garantiti da specifiche leggi costituzionali) prevede una netta inversione di tendenza rispetto alla legge cost. n. 3 del 2001. Viene abolita la legislazione concorrente. Sono ricondotte alla competenza esclusiva dello Stato svariate materie in effetti troppo generosamente (o distrattamente) attribuite alla competenza regionale concorrente (ordinamento delle comunicazioni, grandi reti di trasporto, produzione e distribuzione nazionale dell’energia, coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario ecc.). Viene tuttavia venga fatta salva la potestà dello Stato di delegarne alle Regioni l’esercizio. Viene altresì introdotta la clausola di supremazia statale (ribattezzata “clausola vampiro”: A. D’Atena) in forza della quale una legge dello Stato può intervenire in materia non riservata allo Stato, «quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica ovvero la tutela dell’interesse nazionale» (futuro art. 117 comma 4). Come acutamente sottolineato, ci si allontana dal modello “solidale” che, con tutte le sue imperfezioni, caratterizzava la riforma del 2001 e ci si avvicina al modello “competitivo” (G. Azzariti). Il che implica una modifica della forma di Stato.
Quanto invece alla forma di governo, la titolarità del rapporto fiduciario col Governo è attribuita alla sola Camera dei deputati. La quale esercita, collettivamente col Senato[4], la funzione di revisione costituzionale e la funzione legislativa in un numero limitato di importanti materie ed esercita in esclusiva la funzione legislativa nelle restanti materie, con intervento eventuale del Senato, talvolta non paritario rafforzato, talaltra non paritario con esame obbligatorio (per le leggi di bilancio e rendiconto consuntivo)[5]. Elegge, praticamente da sola, nel Parlamento in seduta comune, sia il Presidente della Repubblica, sia un terzo dei componenti del CSM, rendendo quindi irrilevante il voto dei 100 senatori (mentre, altrettanto irrazionalmente, elegge solo tre giudici costituzionali).
Come è ammesso dagli stessi sostenitori della riforma, il combinato della riforma Renzi-Boschi e dell’Italicum determina il «rafforzamento della collocazione del Presidente del Consiglio nel circuito istituzionale» (B. Caravita). E ciò per due ragioni. In primo luogo, grazie all’indiscussa primazia che viene riconosciuta al Governo nel procedimento legislativo, essendogli tra l’altro concesso di richiedere alla Camera dei deputati di deliberare, entro cinque giorni, che «un disegno di legge indicato come essenziale per l’attuazione del programma di governo sia iscritto con priorità all’ordine del giorno e sottoposto alla pronuncia definitiva della Camera entro settanta giorni dalla deliberazione».
In secondo luogo, grazie al cumulo, nella stessa persona, delle cariche di Presidente del Consiglio dei ministri e di Segretario nazionale del partito di maggioranza, il che consente al Premier di influire sulle organizzazioni periferiche di partito e quindi sui consigli regionali e, transitivamente, sulle decisioni del Senato. Si pensi all’elezione di due giudici costituzionali di competenza del Senato, con conseguente abrogazione implicita dell’art. 3 l. cost. n. 2 del 1967, che prevedeva che i giudici costituzionali venissero eletti a maggioranza di due terzi o, tutt’al più, di tre quinti dal Parlamento in seduta comune!
Le molte criticità del futuro Senato. Violazione del principio costituzionale dell’elettività diretta del Senato come forma di esercizio della sovranità popolare
I maggiori problemi li suscita però il Senato, quanto alla fonte di legittimazione e alla composizione, se non anche per le attribuzioni.
Il futuro Senato sarebbe costituito da 100 senatori, cinque nominati dal Presidente della Repubblica e 95 eletti dai consigli regionali e dai consigli provinciali di Trento e Bolzano, nella persona di 74 consiglieri regionali e di 21 sindaci di comuni capoluogo: 21 collegi elettorali composti da poche decine di eletta di persone (in genere da 30 a 50 componenti, con le eccezioni del Molise, 20, della Lombardia, 80, e della Sicilia, 70) per un totale complessivo di circa ottocento elettori.
Ciò premesso, l’enunciato costituzionale secondo il quale «Il Senato della Repubblica rappresenta le istituzioni territoriali…»[6] è stato autorevolmente qualificato come una “bestemmia”, alla luce della teoria della rappresentanza politica. In uno Stato non federale, il rappresentante è infatti il Parlamento e il rappresentato è “tutto il popolo” e non le istituzioni territoriali (M. Dogliani).
Inoltre, essendo i senatori eletti dai consigli regionali e provinciali, ma non “direttamente” dal popolo è stata contestata la legittimità costituzionale del “futuro” art. 57 commi 2 e 5 Cost., il quale, come già ricordato in precedenza[7], da un lato che prevede che i senatori siano eletti dai consigli regionali (comma 2) e dall’altro dispone che l’elezione dovrà avvenire «in conformità alle scelte degli elettori» (comma 5). La si è contestata, in forza del principio della sovranità popolare (L. Carlassare, A. Pace) sulla base della stessa giurisprudenza costituzionale, richiamando, sul punto, due importanti pronunce: la notissima sent. n. 1146 del 1988, nella quale si statuì che i «principi supremi della Costituzione» – tra i quali la Corte ha ripetutamente incluso la proclamazione della sovranità popolare (art. 1 Cost.) – non possono essere contraddetti nemmeno da una legge costituzionale; e la non meno nota sent. n. 1 del 2014 (dichiarativa dell’incostituzionalità del Porcellum), nella quale la Corte, nell’interpretare l’art. 1 comma 2 Cost., ha affermato che «la volontà dei cittadini, espressa attraverso il voto (…), costituisce il principale strumento della volontà popolare» (cons. in dir. § 3) e che, attraverso «la rappresentatività dell’assemblea parlamentare…si esprime la sovranità popolare» (cons. in dir., § 4).
Da parte di parlamentari della maggioranza e di studiosi anche autorevoli (ad es. A. D’Atena) si è invece sostenuto che l’elezione indiretta da parte dei consigli regionali rinverrebbe dei precedenti in diritto comparato. Il che non è esatto né con riferimento al modello francese, né a quello tedesco, né infine a quello austriaco.
In primo luogo non si tratta però di un’elezione indiretta perché i Consigli regionali e i due Consigli provinciali eleggono i senatori jure proprio, e non come “grandi elettori”. Ciò invece accade in Francia, dove i 44.600.000 elettori francesi eleggono specificamente i 150 mila grandi elettori che a loro volta eleggeranno i 340 senatori. I cittadini italiani eleggono i consigli regionali, punto e basta. Non si tratta quindi di un’elezione di secondo grado come quella francese o come quella delle elezioni presidenziali statunitensi (L. Elia).
Né è esatto il paragone col sistema tedesco perché nel Bundesrat sono presenti, a proprio titolo, i Governi dei sedici Länder – preesistenti alla stessa Legge fondamentale tedesca (1949) e addirittura alla stessa Costituzione imperiale del 1871 – che, per il tramite di loro rappresentanti, hanno a disposizione, a seconda dell’importanza del Land, da un minimo di tre ad un massimo di sei voti per ogni deliberazione. Per cui, non si tratta quindi di elezione indiretta.
E nemmeno si potrebbe sostenere che il modello italiano si ispiri al Bundesrat austriaco, i cui membri non sono eletti dai cittadini ma dalle assemblee dei Länder (art. 35 Cost. austriaca). A parte le critiche mosse al sistema austriaco proprio per la carente legittimazione delle assemblee dei Länder (H. Schäffer, R. Bin, F. Palermo), è risolutiva la differenza intercorrente tra la proclamazione della sovranità popolare dell’art. 1 comma 2 della nostra Costituzione secondo quale «la volontà dei cittadini espressa attraverso il voto (…) costituisce il principale strumento della volontà popolare», e la proclamazione dell’art. 1 della Cost. austriaca («L’Austria è una Repubblica democratica. Il suo diritto emana sal popolo»), che non impone, nemmeno implicitamente, l’elettività diretta degli organi legislativi.
Ho già accennato come la versione definitiva del “futuro” art. 57 Cost. (di cui all’art. 2 d.d.l. n. 2613-B) preveda due commi tra loro antitetici, uno che prevede che i senatori saranno eletti dai consigli regionali (comma 2), l’altro secondo il quale tale elezione dovrà avvenire «in conformità alle scelte degli elettori» (comma 5). Il che non sfugge però alla seguente alternativa: o l’elezione da parte del Consigli regionali, per quanto riguarda i 74 senatori, sarà meramente riproduttiva della volontà degli elettori e sarà quindi inutile; oppure se ne distaccherà, e in tal caso viola l’art. 1 Cost. per le ragioni anzidette.
Poiché però la «conformità alle scelte degli elettori» è imposta dal “futuro” art. 57 comma 5 Cost. soltanto per l’elezione dei senatori-consiglieri e non per l’elezione dei senatori-sindaci, ne segue che almeno l’elezione dei senatori-sindaci è priva del lambiccato correttivo previsto dal comma 5, per cui la violazione dell’art. 1 Cost. è comunque, sotto questo profilo, insanabile. Né si può ipotizzare che la legge bicamerale prevista dal comma 6 del “futuro” art. 57 – che dovrebbe «regolare le modalità di attribuzione dei seggi e di elezione dei membri del Senato della Repubblica» – possa rendere identico ciò che tutt’al più sarebbe «conforme alle scelte degli elettori».
Il che implica che, una volta entrata in vigore la riforma costituzionale Renzi-Boschi, qualsiasi cittadino – nel corso di un giudizio nel quale si pretenda dalla controparte l’applicazione di una legge approvata sia dalla che dal Senato (c.d. legge bicamerale) – potrebbe eccepirne l’illegittimità costituzionale “derivata” dall’incostituzionalità del “nuovo” art. 57 commi 2 e 5 Cost., per contrasto col citato art. 1 comma 2 Cost.
Irrazionalità della composizione del Senato
Si è già osservato come l’eccessiva differenza numerica dei seggi che compongono la Camera e il Senato è tale da rendere irrilevante la presenza dei senatori nelle riunioni del Parlamento in seduta comune quando si tratti di eleggere il Presidente della Repubblica e i componenti del CSM.
Ebbene, anziché ridurre i componenti di entrambe le Camere – come si era da più parti suggerito facendo scendere la Camera a 400/500 componenti e il Senato a 200 – si è invece diminuito esclusivamente il numero dei senatori.
I cui 100 componenti, continueranno, oltre tutto, a svolgere part-time la funzione di consigliere regionale o di sindaco, con l’ovvia conseguenza, che svolgeranno male sia la funzione di consigliere regionale (o di sindaco), sia quella di senatore, con spreco, e non risparmio, di pubblico denaro come invece sbandierato dal Presidente del Consiglio e dalla ministra delle riforme.
E ciò senza voler ulteriormente considerare che il compito di valutare «le politiche pubbliche e l’attività delle pubbliche amministrazioni e verifica l’impatto delle politiche dell’Unione europea sui territori».
Altrettanto discutibile è la nomina presidenziale dei cinque senatori. E ciò per due motivi: 1) i cinque senatori, essendo nominati dal Presidente della Repubblica per sette anni – come lo stesso Capo dello Stato -, potrebbero subirne l’influenza; 2) è paradossale che cinque illustre personalità “che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario” vadano ad esercitare il loro alto magistero culturale in un organo che rappresenta esclusivamente le istituzioni territoriali (“futuro” art. 55 Cost.).
Conclusioni
In definitiva il d.d.l Renzi privilegia la governabilità sulla rappresentatività; elimina i contro-poteri esterni alla Camera senza compensarli con contropoteri interni; riduce il potere d’iniziativa legislativa del Parlamento a vantaggio di quella del Governo; prevede almeno sette tipi diversi di votazione delle leggi ordinarie con conseguenze pregiudizievoli per la funzionalità delle Camere; nega, come già detto, l’elettività diretta del Senato ancorché gli ribadisca contraddittoriamente la spettanza della funzione legislativa e di revisione costituzionale; sottodimensiona irrazionalmente la composizione del Senato rendendo irrilevante il voto dei senatori nelle riunioni del Parlamento in seduta comune; pregiudica il corretto adempimento delle funzioni senatoriali, divenute part-time delle funzioni dei consiglieri regionali e dei sindaci.
Mi fermo qui, ma potrei continuare ancora a lungo: dall’esclusione del Senato nella deliberazione dello stato di guerra (leggi: l’invio all’estero delle missioni militari) ai difficili raccordi del Senato delle autonomie con lo Stato, con le stesse Regioni (i governatori stanno là e non a Palazzo Madama!) e infine con l’Unione europea (A. Manzella).
[1] P. Calamandrei, Come nasce la nuova Costituzione, ne Il Ponte, 1947, 1ss.
[2] «Al comma 1, capoverso «articolo 55 della Costituzione», sostituire il quinto comma con il seguente: «5. Il Senato della Repubblica rappresenta le istituzioni territoriali ed esercita funzioni di raccordo tra lo Stato e gli altri enti costitutivi della Repubblica. Concorre all’esercizio della funzione legislativa nei casi e secondo le modalità stabiliti dalla Costituzione, nonché all’esercizio delle funzioni di raccordo tra lo Stato, gli altri enti costitutivi della Repubblica e l’Unione europea. Partecipa alle decisioni dirette alla formazione e all’attuazione degli atti normativi e delle politiche dell’Unione europea. Valuta le politiche pubbliche e l’attività delle pubbliche amministrazioni e verifica l’impatto delle politiche dell’Unione europea sui territori. Concorre ad esprimere pareri sulle nomine di competenza del Governo nei casi previsti dalla legge e a verificare l’attuazione delle leggi dello Stato».
[3] V. il Fatto Quotidiano, 3.1.15, p. 4; Trasformismo in Parlamento in Repubblica.it, 4.1.16; S. Settis, Metamorfosi del deputato, ne L’Espresso, n. 1 del 7.1.16, p. 59; Il puzzle dei cambi di partito ne il Corriere della sera, 7.1.16, p. 12 s.
[4] Revisione della Costituzione e altre leggi costituzionali. Tutela delle minoranze linguistiche. Referendum popolari e altre forme di consultazione. Legge elettorale del Senato. Ordinamento, legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di comuni e città metropolitane: forme associative dei comuni. Legge che stabilisce le norme generali per la partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche UE. Ineleggibilità ed incompatibilità dei senatori. Ratifica dei trattati sull’appartenenza dell’Italia all’UE. Ordinamento di Roma capitale. Attribuzione alle Regioni di forme particolari di autonomia. Legge che disciplina la partecipazione delle Regioni alle decisioni dirette alla formazione del diritto europeo e all’attuazione degli accordi internazionali e degli atti dell’UE. Legge che disciplina i casi e le forme in cui la Regione può concludere accordi con Stati e intese con enti territoriali di altri Stati. Principi generali per l’attribuzione del patrimonio a comuni, città metropolitane e Regioni. Potere sostitutivo del Governo e casi di esclusione dei titolari di organi di governo regionali e locali dalle funzioni in caso di grave dissesto finanziario dell’ente. Principi fondamentali per il sistema di elezione e i casi di ineleggibilità e di incompatibilità del Presidente, degli assessori e consiglieri regionali, nonché per promuovere l’equilibrio tra donne e uomini nella rappresentanza: durata degli organi elettivi regionali; emolumenti degli organi regionali nel limite dell’importo di quelli attribuiti ai sindaci dei Comuni capoluogo. Distacco dei comuni da una Regione ed aggregazione ad un’altra.
[5] I procedimenti legislativi previsti dal d.d.l. Renzi-Boschi sarebbero più d’uno, se si segue la ripartizione suggerita da Gaetano Azzariti, in base ai diversi iter di volta in volta seguito: procedimento bicamerale paritario (art. 70 comma 1), monocamerale con intervento eventuale del Senato (art. 70 comma 2), non paritario rafforzato (art. 70 comma 4), non paritario con esame obbligatorio per le leggi di bilancio e rendiconto consuntivo (artt. 70 comma 5 e 81 comma 4), disegni di legge a “data certa” (art. 72 comma 7), conversione dei decreti legge (art. 77 commi 2 e 3), leggi di revisione costituzionale (art. 138). A questi sette distinti procedimenti di formazione può aggiungersi quello “speciale” relativo all’approvazione delle leggi elettorali che prevede la possibilità di un controllo preventivo da parte della Corte costituzionale (art. 73 comma 2) e quello nel quale il Senato può, con deliberazione adottata a maggioranza assoluta, “richiedere” alla Camera di procedere all’esame di un disegno di legge (art. 71).
[6] «Il Senato della Repubblica «rappresenta le istituzioni territoriali ed esercita funzioni di raccordo tra lo Stato e gli altri enti costitutivi della Repubblica. Concorre all’esercizio della funzione legislativa nei casi e secondo le modalità stabiliti dalla Costituzione, nonché all’esercizio delle funzioni di raccordo tra lo Stato, gli altri enti costitutivi della Repubblica e l’Unione europea. Partecipa alle decisioni dirette alla formazione e all’attuazione degli atti normativi e delle politiche dell’Unione europea. Valuta le politiche pubbliche e l’attività delle pubbliche amministrazioni e verifica l’impatto delle politiche dell’Unione europea sui territori. Concorre ad esprimere pareri sulle nomine di competenza del Governo nei casi previsti dalla legge e a verificare l’attuazione delle leggi dello Stato» (futuro art. 55 comma 5).
[7] V. supra il § 2, in fine.
* Relazione del Prof. Alessandro Pace a Cosmopolitica 20/2/2016 Roma (Testo integrale)
Perché non dire, però, anche che la riforma riduce il quorum al referendum abrogativo e impone la discussione obbligatoria delle leggi di iniziativa popolare?
Quanto alla composizione del Senato, credo che ognuno abbia la sua ricetta. Quello che conta, comunque, è che viene superato il bicameralismo perfetto, cioè il Senato avrà molta meno influenza e peso sulla determinazione della politica nazionale. Già questo basta per rendere le critiche alla composizione, al numero ecc. (legittime per carità) un argomento di rilevanza secondaria.
Per Marco_N – L’idea che Lei si è fatta è del tutto superficiale, riduttiva e inconsistente. Anzitutto perché la riforma costituzionale non è prevista dalla Costituzione repubblicana. L’art. 138, tuttora vigente, parla di “revisione” – termine che esclude uno stravolgimento quale quello insito nel termine “riforma”. Inoltre, la riforma Renzi va vista nel suo rapporto simbiotico con la nuova legge elettorale (senza l’una, l’altra non avrebbe senso). Il combinato disposto dei due provvedimenti raggiunge, non a caso, il risultato di defunzionalizzare l’intero sistema parlamentare, accentrando il potere nelle mani dell’esecutivo.
Sorvolo sul fatto che il nuovo Senato verrà nominato nelle persone appartenenti alla peggiore feccia politica italiana, quella delle amministrazioni periferiche. Ma non posso sorvolare sul fatto che le nuove procedure parlamentari, lungi dall’essere semplificate, porteranno ad un prevedibilissimo e catastrofico aumento del contenzioso istituzionale.
Se in ultimo teniamo presente che il nostro sistema politico è sempre più orientato verso il prevalere di figure carismatiche – l’Uomo della Provvidenza, L’Uomo solo al comando, L’Uomo forte – il quadro complessivo è desolante e preoccupante. Pinochet alle porte? Forse no, ma una cosa è certa: le garanzie democratiche sono fortemente messe a rischio.
Un consiglio: si legga Calamandrei.
Ecco, appunto, leggiamo Calamandrei: “Le dittature sorgono non dai governi che governano e che durano, ma dall’impossibilità di governare dei governi democratici” (1946; discorso all’Assemblea costituente del 5 settembre).
Come vede il giochino del saccente so farlo anch’io. Vogliamo una volta però andare oltre e chiederci se, oggettivamente, nella riforma ci sono più aspetti positivi che negativi?
Io vedo più elementi positivi, decisamente.
Tra l’altro, il problema del Senato non è come è composto, dato che l’elezione indiretta è prevista praticamente in tutte le democrazie. Tutt’al più basterà riformare la legge elettorale per l’elezione dei Consigli, dato che sono quelli a non funzionare.
Inoltre, in base a questa riforma il Senato avrà un peso ridottissimo, non avrà alcuna vera incidenza sulle scelte politiche di legislatura. Quindi possono anche metterci il cavallo di Caligola, se vogliono: non farà comunque più danni di quanti non ne faccia oggi un Razzi o uno Scilipoti.
Sulla legge elettorale, sicuramente non le sfugge che non è inserita nel testo di riforma costituzionale. Ergo potrà essere modificata da una legge ordinaria (previo giudizio di conformità da parte della Corte Costituzionale: giustamente aggiungerei) e, se incostituzionale (i ricorsi sono già partiti), finirà persino per essere cancellata dalla Consulta. Quindi di che parliamo?
La riforma costituzionale va benissimo. Non c’è presidenzialismo, non c’è rafforzamento dei poteri del governo (a parte la facoltà di mettere in votazione un testo entro 70 giorni, comunque un’inezia rispetto a quello di cui godono i governi di altri paesi), c’è l’abbassamento del quorum al referendum e c’è l’obbligo di discussione delle leggi di iniziativa popolare.
Onestamente non riesco a immaginare una riforma meno invasiva di questa.
Praticamente “quasi” in tutte le democrazie: a me risulta che negli Stati Uniti, giusto per parlare di una democrazia a caso, i Senatori vengano eletti in modo diretto.
Ma la domanda che mi pongo è di altro tipo: se si ritiene che il Senato sia un ostacolo al funzionamento delle istituzioni, allora perché non eliminarlo direttamente e mantenere un sistema monocamerale?
Io sinceramente non capisco la funzione e l’utilità di un Senato part-time, mi domando se i consiglieri regionali e i sindaci abbiano così tanto tempo libero da poter andare periodicamente a Roma a riunirsi ed esaminare questioni che, in linea di principio, dovrebbero pure essere importanti. O non hanno un tubo da fare nelle posizioni in cui sono stati eletti?
Molto, ma molto meglio un sistema monocamerale: il governo deve ottenere la fiducia di una sola Camera, le leggi vengono esaminate una volta sola, e per dirimere le controversie con i poteri locali esistono strutture come la conferenza Stato-Regioni. Che senso ha questa pagliacciata di Senato part-time?
Non mi risulta che ci sia una legge che impedisce l’elezione di un Razzi o di uno Scilipoti alla Camera, anzi: proprio per il fatto che i deputati al Parlamento siano TUTTI nominati dalle segreterie dei partiti, la probabilità di avere in parlamento dei servi prezzolati aumenta in modo esponenziale. Quindi i Razzi e gli Scilipoti continueranno a fare danni, contrariamente al cavallo di Caligola, che al massimo poteva lordare i pavimenti del Senato romano.
“Oggettivamente nella riforma ci sono più aspetti positivi che negativi”. E quali sarebbero? L’abbassamento del quorum per il referendum? Beh, insomma …. L’obbligo di discutere le PROPOSTE di legge di iniziativa popolare? E dopo che le hanno discusse, che succede? Mah.
E per finire: a NESSUN governo nella storia della repubblica è mai stato impedito di governare.
Purtroppo il saccente bisogna saperlo fare con cognizione di causa, e qui la cognizione vedo che scarseggia.
In Lei scarseggiano, oltre che le cognizioni e la capacità di confrontarsi con idee non sue, anche un sano realismo.
Impiccarsi all’argomento del monocameralismo significa essere alla frutta. Davvero il problema dei problemi è che il Senato non viene abrogato ma mantenuto con poteri ridottissimi?
Spero che con quel “praticamente tutte le democrazie eleggono il Senato in via indiretta” non mi sia espresso in un italiano troppo complicato: mi sembrava fin troppo scontato che fosse come dire che, a parte pochissime eccezioni, i paesi occidentali non eleggono il Senato.
Vedo che anche sul riferimento a Razzi e Scilipoti non ci si arriva (o non ci si vuole arrivare), pertanto mi ripeterò: l’argomento che in Senato ci vadano gli incompetenti consiglieri regionali non mi sembra tanto forte, se consideriamo che quel nuovo Senato avrà poteri molto ridotti e che, anzi, in quello di oggi ti ritrovi i personaggi di cui sopra. Verstanden?
Più che altro mi sembra che scarseggi in me la capacità di spiegarmi, visto che i concetti molto semplici che ho espresso nel mio intervento precedente non sono stati compresi.
La prima domanda è: che senso ha mantenere un Senato con poteri ridottissimi, per di più distogliendo dai loro compiti persone elette in altre istituzioni e con altri incarichi?
La seconda domanda è: se è vero che il Senato (o, per meglio dire, un sistema bicamerale) è così dannoso al funzionamento della democrazia, perché non abolirlo del tutto, invece di mantenere una caricatura, per di più costosa?
Se poi lei ha veramente verstanden e considera questo un “impiccarsi all’argomento del monocameralismo”, non so che farci: io ci ho provato, ma se lei proprio non ci arriva, non è colpa mia.
Vedo che anche su Razzi e Scilipoti proprio non riesco a spiegarmi. La mia domanda non era relativa all’argomentazione sulla qualità dei personaggi che domani verranno mandati da qualcuno ad occupare i seggi del Senato, ma al fatto che niente e nessuno vieta che personaggi come il fan della Corea del Nord possa venire nominato deputato da qualche segreteria di partito.
Cambiando così soltanto il luogo dove il suddetto farà danni, ma certamente non l’entità del danno procurato.
Un’ultima annotazione: se io voglio esprimere un concetto molto semplice come “quasi tutte le democrazie si comportano in un certo modo”, solitamente scrivo “quasi tutte le democrazie si comportano in un certo modo”, non “praticamente tutte le democrazie si comportano in un certo modo”. È più che evidente che l’effetto di un’affermazione è diverso dall’effetto dell’altra.
Mi sarò spiegato? Mah! Speremm …….
Per Marco_N – Non cercavo di essere saccente, conscio della mia ignoranza enciclopedica. Quando Le suggerivo di leggere Calamandrei intendevo leggere il pensiero, lo spirito, di Calamandrei, non una frase estrapolata da un suo discorso e quindi contestualizzabile.
Quello che definivo il rapporto simbiotico tra nuova legge elettorale (Italicum) e riforma costituzionale Renzi-Boschi (e qui vale sempre la considerazione che l’art 138 attuale parla di “revisione” – riforma è cosa altra, e lo vediamo) è un fatto attuale, incombente, non modificabile da ipotesi di future abrogazioni. L’elezione (rectius, la nomina) di deputati-servi (perché tali sono, non dovendo rispondere all’elettorato ma alle segreterie dei partiti) e di nuovi “senatori” (la crème de la crème della feccia, con la garanzia dell’immunità-impunità e con biglietto d’andata e ritorno) renderà il Parlamento un mero strumento formale nelle mani di un Esecutivo che sempre più, rebus sic stantibus, si identificherà con l’Uomo della Provvidenza del momento. Ciononostante l’iter della formazione delle leggi, nel passaggio da Camera a nuovo Senato – ragionevolmente fluida a Costituzione vigente (è una fola quella di cui strumentalmente cianciano gli interessati: i tempi fisiologici sono brevi e nel caso delle leggi ad personam si sono ridotti addirittura a 15 giorni) – nel sistema riformato sarà assai più complicato (è prevista una quindicina di nuove possibilità, a proposito di semplificazione) ed è quindi ragionevole prevedere un notevole aumento del contenzioso istituzionale.
Francamente non mi preoccupano personaggi come Razzi e Scilipoti, in ultima analisi personaggi da commedia all’italiana, incapaci, in proprio, di progettare alcunché. Guardo con apprensione invece – e soprattutto in un sistema molto pericolosamente “riformato” alla Renzi-Boschi – alla presenza di personaggi ben più inquietanti, corruttori e corrotti, malversatori, bancarottieri e pi2isti, pi3isti, pi4isti, e di coloro che con siffatta società da anni fa patti, accordi, intese. I nomi? Sarebbe un esercizio tautologico.
La legge elettorale è una legge ordinaria e sarà, presto o tardi, sottoposta al giudizio della Corte costituzionale.
La riforma costituzionale, viceversa, costituisce la base per un ammodernamento delle istituzioni repubblicane, nella forma del superamento del bicameralismo perfetto ma non solo. Gli stessi che non vogliono questa riforma hanno in passato auspicato il superamento del bicameralismo perfetto. Oggi sostengono che “le leggi si approvano nelle due camere anche in 15 giorni”, ma allora perché in passato hanno proposto loro stessi il superamento del bicameralismo?
Perché opporsi, quindi, a una base (costituzionale) auspicata, oggi o in passato, da tutti?
Per Marco_N – E’ probabile che l’Italicum venga, prima o poi, sottoposta al giudizio della Consulta. Ma siamo nel campo del futuribile, dell’ipotetico, dell’auspicabile, mentre invece la legge elettorale, ch’è attuale, presente, incombente, esplicherà i suoi deleteri effetti proprio perché in perfetta simbiosi con lo stupro costituzionale.
Poi, La prego di essere corretto, di non barare: io non ho mai detto che “le leggi si approvano nelle due camere anche in 15 giorni”. Ho detto invece che in termini fisiologici i tempi sono brevi e che – nel caso delle leggi ad personam, disegnate sulla persona del piduista n.1816 berlusconi (leggi che il PD non ha mai cancellato, quando poteva, come adesso!) – i tempi si sono ridotti addirittura a 15 giorni.
Per quanto attiene al superamento del bicameralismo, La informo che io non sono “loro stessi” e quindi non Le consento di associarmi a chicchessia. Perché io sono un uomo libero, non un servo; e sono pure, e convintamente, uno strenuo difensore della Costituzione repubblicana, la quale – lungi dal dover essere stuprata da una “riforma” incostituzionale – avrebbe solo bisogno di essere attuata compiutamente e di essere fedelmente custodita come la cosa più preziosa che abbiamo in questo sciagurato Paese.
È un bel sillogismo:
Tutti auspicano il superamento del bicameralismo perfetto
La riforma renziana supera il bicameralismo perfetto
Tutti devono essere favorevoli alla riforma renziana.
Ma è un sillogismo che non funziona, perché ciò che qualifica una riforma non è l’obiettivo, ma il contenuto.
E se il contenuto non va bene, non vedo perché si debba appoggiare una riforma solo perché se ne condivide un obiettivo: alle volte il rimedio è peggiore del male, e questa è proprio una di quelle volte.
Bravo, gierreci! La tua è una (purtroppo desueta) geometria dell’immaginario. Grazie.
Il Prof. Rodotà, la Prof.ssa Carlassare (e credo anche il Prof. Zagrebelsky) in passato si sono espressi chiaramente, attraverso scritti giuridici, per il superamento del bicameralismo perfetto. Oggi ripudiano questa idea che loro stessi hanno sposato e fanno propri gli argomenti di chi sostiene che il superamento del bicameralismo non serve perché, volendo, una legge può essere approvata nelle due camere in tempi anche molto brevi.
Viene allora da chiedersi come mai in passato si siano espressi per il superamento della struttura istituzionale attuale.
Il motivo principale è legato alla nuova legge elettorale fortemente maggioritaria. Ma la legge elettorale è una legge ordinaria. Può essere modificata o abrogata dalla corte costituzionale (la quale, peraltro, ha già bocciato la precedente legge per i suoi effetti fortemente maggioritari).
Se non vi fosse la legge maggioritaria, non vi sarebbe questa opposizione alla riforma. Ma la riforma non è una cosa semplice da approvare. È la parte più difficile.
Considerata l’immensa difficoltà di fare andare in porto una tale legge di revisione, se ci si oppone alla riforma solo per la legge elettorale, si finisce per opporsi a qualsiasi riforma, anche in futuro, anche quando non vi sarà più una legge così maggioritaria.
In tal modo, però, ci si oppone a quello che gli stessi studiosi sopraccitati proponevano per l’ipotesi in cui la legge elettorale vigente fosse proporzionale.
Si finisce, in sostanza, per buttare il bimbo con l’acqua sporca.
Un prezzo che, a mio giudizio, per un paese in così forte difficoltà come il nostro, non bisognerebbe pagare.
Certamente non posso parlare per il professor Zagrebelsky: lui è professore e io non sono nemmeno bidello.
Però posso parlare per me, come sottobidello, ma per me.
Al di là di qualsiasi considerazione sul fatto che la legge elettorale quella è, e prima che venga eventualmente dichiarata incostituzionale passano almeno tre elezioni in cui i nostri cosiddetti rappresentanti vengono nominati in quel modo, su questa riforma c’è parecchio da dire, anche senza ritornare sulla tematica già conclusa del sistema bicamerale.
Parliamo di rappresentanza. Chi o che cosa rappresenterebbe il Senato uscito dalla riforma? Le autonomie! Lo dice la parola stessa “Senato delle autonomie”. Ma l’autonomia è un concetto astratto, non è il popolo, non è la regione, è qualcosa che sta nella testa di qualcuno e che cambia insieme al pensiero di quel qualcuno. Forse detto così non è chiarissimo, quindi mi spiegherò con un esempio, anzi con due.
Negli Stati Uniti il Senato è costituito dai rappresentanti del popolo degli Stati: gli elettori di ogni Stato votano per eleggere il rappresentante (uno alla volta) dello Stato a Washington, e quel Senatore opererà per rappresentare il popolo dello Stato che lo ha eletto.
In Germania il Bundesrat è l’organo attraverso il quale i Länder partecipano al potere legislativo e all’amministrazione dello Stato Federale. I membri del Bundesrat sono, concettualmente, i Länder, che si manifestano per la voce dei delegati. In questo caso i delegati non hanno autonomia di voto, ma devono seguire le disposizioni del Land che li ha nominati. E tutti i delegati di ogni Land devono votare allo stesso modo e in conformità con le direttive. Come se alla Camera sedesse il Land e non i suoi delegati.
E in Italia? Il nuovo Senato non rappresenta gli elettori delle regioni perché non è eletto direttamente. Il nuovo Senato non rappresenta le Regioni, uno perché non sono le Regioni a votare (per quel che serve), due perché le entità presenti sono disomogenee: Regioni (tutte) e Comuni (21). E che c’entrano i Comuni con le Regioni?
E poi ci sarebbe la funzione. Ma non voglio tediarvi troppo, e proseguirò più tardi.
Per Marco_N – Lei continua a parlare di chi in passato si era espresso per il monocameralismo (Rodotà, Carlassare, Zabrebelsky, ma la lista è ben lunga…).
Ora, a parte il fatto che solo la zampa del mio tavolino non cambia mai idea, Lei non sembra cogliere il punto centrale: nessuna delle persone da Lei citate – mi sembra! – si è dichiarato in linea di principio contrario ad una “revisione” (badi bene, non “riforma”!) costituzionale che prevedesse anche la cancellazione del Senato, ma tutti si sono dichiarati apertis verbis fortemente contrari a QUESTA riforma Renzi-Boschi – che, tra l’altro, NON cancella affatto il Senato, ed il suo costo per l’erario, ma lo tiene in vita artificialmente e, in più, armato fino ai denti del potere di creare infiniti conflitti di competenza nei rapporti con la Camera. Alla faccia della semplificazione e velocità marinettiana.
Il progetto di Renzi e di quell’altra oca giuliva Le piace, La soddisfa, La rassicura circa il radioso futuro di questo Paese? Bene (o meglio, male). E allora voti coerentemente al referendum. Ciccia, ce ne faremo una ragione.
@palinuro: se non ho capito male devo intendere la sua ultima frase come un invito ad abbandonare la discussione. Peccato, mi pareva si fosse (faticosamente) entrando a discutere più del merito.
Quanto alla differenza tra “revisione” e “riforma”, si tratta di una costruzione artificiosa.
A livello formale, a parte i principi fondamentali, ogni parte della costituzione può essere modificata, non c’è nessun vincolo e infatti nel 2006 si votò su ampie parti della Carta (più ampie di quelle su cui si voterà presumibilmente quest’anno). Nessuno aveva fermato quel processo eccependo che non si trattasse di una revisione, così come nessuno lo potrebbe fare ora.
Non colgo, sinceramente, tutte queste differenze tra il modello di bicameralismo imperfetto proposto da questo governo e i vari altri modelli di cui si è detto e scritto. Alla fine sempre di superamento del bicameralismo si tratta, e alla fine la Camera risulta essere l’organo prevalente. A livello teorico in tutti i sistemi a bicameralismo imperfetto una camera può mettere i bastoni tra le ruote all’altra, ma se una clausola finale prevede che votando a maggioranza assoluta prevale il voto della Camera, tutte queste potenziali complicazioni vengono de facto sterilizzate sul nascere.
La vera questione resta, a mio avviso, l’accettabilità di un bicameralismo imperfetto con una legge così fortemente maggioritaria.
Di per sé la riforma non ha nulla di male, anzi migliora diverse cose (ad esempio, anche su una più chiara ripartizione dei compiti tra stato e regioni).
Se si pensa che la nuova legge elettorale non verrà mai messa in discussione e sarà immutabile come una legge costituzionale, si può aver ragione a dire no alla riforma. Ma se si pensa che la legge elettorale sarà presto o tardi rivista e la si sostituirà con un’altra, quel che conta è che intanto passi una proposta migliorativa della costituzione, la quale è ancora più difficile da modificare della legge elettorale (non basta aspettare 3 legislature ma tempi molto più lunghi).
Per Marco_N
No, caro Marco, non intendevo affatto metterLe la mordacchia. Non mi permetterei mai. Anzi, intendevo dire – ma forse nella foga mi sono espresso male e, se questo è il caso, mi scuso – che, almeno per quanto mi riguarda, Lei sembra (è) così convinto della bontà della deforma Renzi-Boschi che non mi sembra il caso di aggiungere altro per convincerLa del contrario, non essendo animato da alcun intento missionario. Tra l’altro, questo sito è pieno zeppo di interventi di fior di costituzionalisti che motivano la loro contrarietà e le loro preoccupazioni molto più compiutamente di quanto non possa far io.
Esistono pur sempre le agrapta nomina, che governano non solo le consuetudini ma anche ciò che rientra nella sfera della coscienza critica ed analitica, dell’Etica e dell’Estetica. E ognuno è libero di elaborare le proprie.
Per Per Marco_N
Abbassamento del quorum al 50% dei votanti alle ultime elezioni della camera e innalzamento del numero di firme a 800’000. Ha presente che prendere 800’000 firme in tre mesi come previsto é praticamente un miraggio: ora stiamo prendendo le firme per i questiti sull’italicum e non é facile arrivare a 500’000!
Poi come sempre si tratta di prenderne una cifra piú attorno al milione per essere sicuri dato che una percentuale delle firme non viene accettata per motivi vari! Che bisogno c’era di alzare il numero di firme?
“L’obbligo di discussione” fa sorridere, non vuol dire assolutamente niente di definito: dal 1979 le leggi d’iniziativa trasformate in legge sono state 3 su 260 proposte, e quest’obbligo di discussione non cambierebbe alcunché! Anche per queste poi, sono triplicate le firme necessarie tanto per ostacolarle un po’!