“L’austerity non è l’unica strada: se Atene cade nel dirupo dentro ci finirà l’Europa”

09 Giu 2015

stiglitzRoma. «La posta in gioco è altissima, e non tutti sembrano rendersene conto. E’ in ballo il destino dell’Europa e quindi, vista l’importanza del continente, dell’economia mondiale». Parola di Joseph Stiglitz, classe 1943, economista della Columbia University, premio Nobel nel 2001. «La Germania – ci spiega – e con essa il forte schieramento dei Paesi nordici più ricchi, continua al di là di ogni ragionevole evidenza a proclamare l’austerity come l’unica politica possibile perfino per un caso come la Grecia. Non sono bastati gli errori giganteschi compiuti: è come se l’Unione europea stesse spingendo oltre il dirupo un Paese senza considerare che dietro ad esso crollerà l’intera Europa». Stiglitz, dopo un bagno di popolarità al festival di Trento all’inizio del mese, è rimasto in Italia: in una villetta a Bellagio sul lago di Como passerà l’estate scrivendo il libro ‘Creating a learning society’ per documentare l’importanza della formazione nello sviluppo. Il saggio uscirà in ottobre in America e subito dopo Stiglitz si getterà nella campagna di Hillary Clinton che l’ha nominato consigliere economico come già fece il marito alla Casa Bianca.
Professore, non tutti sono d’accordo sull’effetto domino che un’ipotetica Grexit avrebbe.
«Pensi solo a un aspetto. Draghi ha giocato una carta molto rischiosa proclamando nel 2012 che si sarebbe fatta qualsiasi cosa per salvare l’euro. Finora l’ha vinta ma in caso di Grexit la scommessa sarebbe completamente perduta. La consapevolezza che l’euro non è indistruttibile danneggerebbe irreparabilmente la credibilità della Bce, così come quella dei governanti europei: al primo attacco speculativo gli interessi sui titoli europei schizzerebbero a livelli stratosferici, a partire dai Paesi più deboli come l’Italia. E che ci sarà un attacco, e quindi una crisi che sarebbe molto più profonda delle precedenti, è nella logica delle economie capitalistiche».
È sicuro che ci sia una così diffusa inconsapevolezza?
«Il livello di incoscienza diffuso specialmente in Germania, è spaventoso. C’è chi arriva a dire con nonchalance che i mercati hanno già scontato la rottura dell’euro e perfino che l’uscita della Grecia sarebbe un bene per l’unione monetaria. Mi sembra una follia, pari se non superiore alla cecità con cui fu affrontata la crisi della Lehman Brothers nel settembre 2008, per la quale pure esistevano vistosi segnali premonitori come il fallimento della Bear Stearns nel marzo precedente. Il sistema finanziario americano fu salvato a carissimo prezzo dalle autorità federali, eppure ancora oggi sono aperte le cicatrici di quella ferita. In Europa tutto sarebbe ancora più difficile».
Però almeno converrà che molti Paesi, compresa l’Italia, dall’inizio del decennio si sono rafforzati. O no?
«Certo, hanno fatto riforme strutturali che però per ora, qui sta la debolezza, incidono sul lato dell’offerta: lavoro, pensioni, incentivi alle aziende. Quello che manca è la domanda, tuttora compressa dall’impronta della Germania ossessionata dall’austerity. Anni di sofferenze sembrano non aver insegnato nulla. Si è inseguito l’irraggiungibile traguardo di forzare la Grecia ad arrivare a un surplus primario del 4,5%: ma vi rendete conto? L’Europa ha perso un decennio, e rischia seriamente di perderne un altro finché si dichiara soddisfatta di una crescita dell’1%».
Lei firmò una dichiarazione con l’altro Nobel Amartya Sen in cui sosteneva che l’euro era costruito in modo da non poter funzionare. È sempre della stessa opinione?
«Intendiamoci: credo che oggi, visto che c’è, l’euro vada sostenuto. E spero, nell’interesse degli equilibri mondiali, che la Grecia vi resti dentro. Però la moneta unica così com’è strutturata non può sostenere il bisogno della popolazione di crescere. Finché le energie sono spese nell’affannoso tentativo di mantenerlo in vita, senza che nel contempo si affrontino i nodi veri della crescita, l’euro non è uno strumento di sviluppo. Né mi farei troppe illusioni sul quantitative easing : come già in America, porta a una rivalutazione della Borsa e a un risparmio di interessi, ma i meccanismi di trasferimento all’economia reale sono insufficienti. È l’equivoco della propaganda sulla trickle down economy: dai ricchi una volta che si sono arricchiti “trasuda”, “sgocciola”, qualche beneficio verso il basso. È provato che si tratta di un’illusione e che a guadagnarci sono solo i ricchi stessi e i “potenti” economici».

la Repubblica, 9 giugno 2015

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