25 anni fa, Vittorio Bachelet. Un ricordo di Rosy Bindi

08 Feb 2005

“Vogliamo pregare anche per quelli che hanno colpito il mio papà perché, senza nulla togliere alla giustizia che deve trionfare, sulle nostre bocche ci sia sempre il perdono e mai la vendetta, sempre la vita e mai la richiesta della morte degli altri”. *Sette proiettili calibro 32 Winchester. Vittorio Bachelet, 54 anni ancora da compiere, muore sulle scale dell’università La Sapienza, di Roma, dove aveva appena concluso una lezione di diritto amministrativo. Era il 12 febbraio 1980. Un martirio laico, secondo la definizione del cardinal Martini. Un assassinio che, a un quarto di secolo di distanza, non cancella l’emozione e la rabbia di quel giorno (venerdì, alle 11, la commemorazione del Csm alla presenza del Presidente della Repubblica).
“Avevo 29 anni, ero su quelle scale la mattina dell’assassinio. Ero l’ultimo pulcino della covata, nel senso cronologico e anche accademico. Era terminata la lezione, si andava verso l’istituto. Il professore parlava con me. La sua parola si è interrotta, lo presero alle spalle, lo allontanarono e lo portarono sul pianerottolo. Per ucciderlo”.
Rosy Bindi, parlamentare della Margherita, ex ministro della Sanità, seguiva il suo professore, quel giorno. Ricorda quei momenti come un “segno profondo, una ferita” nella sua vita personale e politica. “Bachelet era il mio professore, con lui condividevo non soltanto la quotidianità del lavoro, ma anche la comune militanza nell’Azione Cattolica e un progetto di politica ispirata dai valori del cristianesimo.

Per me era un maestro di vita. La sua morte ha segnato profondamente la mia vita non solamente perché ero accanto a lui quel giorno, ma perché veniva colpito proprio a causa del suo impegno e della sua coerenza nel servire lo Stato”
Che eredità ha lasciato a lei e a tutti noi Vittorio Bachelet?
“Primo fra tutti, l’impegno ad attuare la Costituzione. Tutta la sua opera giuridica si muoveva attorno a questo caposaldo: la Carta bisogna non solo scriverla ma inverarla e cioè pensare a come trasformare l’amministrazione di un paese democratico alla luce dei principi costituzionali.
L’altro punto di fondamentale importanza nella sua attività di politico e giurista fu il Concilio Vaticano II. Non fu solo un appuntamento religioso o di chiesa, ma un grandissimo valore anche per la vita civile del mondo e del paese. Una lezione conciliare grandissima che Vittorio Bachelet ha incarnato nella sua stessa vita. Era un uomo religiosissimo che tentò di servire la chiesa, lo stato e la comunità civile nel rispetto dei valori del Vangelo”.
Quella di Bachelet fu però una lezione laica, a detta di molti.
“Ha ragione il cardinal Martini, fu un martire laico, ucciso mentre serviva la giustizia, la pace, la democrazia, la libertà. Un laico cristiano capace di incarnare con chiarezza e coerenza i valori in cui credeva, di vivere con carità la passione per la politica e per l’impegno civile, inteso soprattutto come servizio all’uomo, alla comunità, come ricerca costante del bene comune ed esercizio coerente delle proprie responsabilità.

Credo che questa sia stata la sua più grande lezione. Una lezione che è diventata per me una specie di consegna, il riferimento per la mia vocazione politica”.
Bachelet non era un politico. Le Br individuarono in lui un bersaglio simbolico si disse per colpire in realtà la magistratura e, quindi, le istituzioni dello Stato.
“Il suo lavoro nella magistratura fu nel segno dell’unità. Tentò in tutti i modi di creare un collegamento forte tra magistrato e cariche istituzionali. Aveva una grande capacità di dialogo. Creava unità, perché sapeva ascoltare le ragioni di tutti e sapeva valutare nel colloquio le ragioni degli altri. Imsomma, capiva le ragioni profonde del dissenso tra le parti in causa. E cercava il punto d’incontro, in una visione come dall’alto. Basta ricordare che al Csm fu eletto per un voto e il suo più grande alleato, alla fine, fu proprio quello che era stato il suo più acerrimo avversario”.
Il ricordo dell’omicidio di Bachelet cade proprio nei giorni in cui si celebra il processo alle nuove Br. Che opinione si è fatta di questo nuovo terrorismo. C’è davvero un legame tra le nuove Br e quelle di allora?
“La prima differenza mi pare stia nella pericolosità. Le Br i allora sono state vinte, ma a che prezzo? Prima sono state capaci di tenere in scacco lo Stato. Quanti servitori sono stati sottratti allo Stato? Veniva ucciso un carabiniere solo perché era in divisa. Le vittime erano sempre individuate tra persone eccellenti.

Le Br sono andate a cercare i giusti. Come credente so che c’è un disegno preciso: il martire deve essere sempre un giusto, un agnello sacrificale. Il Paese stava vivendo in quel periodo una lacerazione profonda. Bachelet, Moro, Ruffilli, Tarantelli, Tobagi. Sono stati tutti i giusti preservati per il popolo, perché la democrazia, la pace e la libertà potessero riaffermarsi anche sotto i duri colpi della violenza e del terrorismo. Ma in quegli anni, chi di noi non ha temuto che le Br stessero per vincere? Non è un caso se gli stessi brigatisti hanno alla fine ammeso: siamo stati sconfitti dalla preghiera di Giovanni, il figlio di Bachelet, che disse: dobbiamo perdonarli”.
In quegli anni si viveva nel terrore. Oggi non trova che il clima sia diverso?
“Evidentemente. Oggi le Br sono un gruppo isolato, non trovano l’humus che invece ai tempi era fertile. Ma non è il caso di sottovalutare mai il terrorismo, non dico solo in Italia, anche nel resto del mondo. Sono preoccupata invece per esempio per il fatto che la Braghetti, la brigatista che sparò a Bachelet e che partecipò anche al sequestro Moro, non si è mai dichiarata dissociata. E se questa pianta non è estirpata da tutti i cuori, dà sempre preoccupazione”.
Condivide l’allarmismo per l’eversione?
“Attenzione: il terrorismo non ha mai giustificazioni ma può avere delle spiegazioni. Credo che di fronte a un forte terrorismo internazionale e a un indebolimento del tessuto sociale non c’è da sottovalutare nulla.

Non sono solo le aule giudiziarie a doversi preoccupare di questo. Ma è nella capacità di creare una società giusta che si allontana ogni rischio. Purtroppo il nostro mondo è sempre meno giusto. E questo può rappresentare in ogni momento il terreno della follia. Un po’ come per la mafia. La visione degli uomini di buona volontà è unanime: la vera prevenzione è nell’eleminazione delle ingiustizie sociali”.
* Preghiera di Giovanni Bachelet, nella chiesa di san Roberto Bellarmino di Roma, ai funerali del padre, assassinato dalle Brigate Rosse. Nel 1984, dal carcere, i brigatisti scrissero al fratello di Vittorio Bachelet, Paolo, padre gesuita: “Ricordiamo bene le parole di suo nipote Giovanni, durante i funerali del padre. Quelle parole ritornano a noi e ci riportano là a quella cerimonia, dove la vita ha trionfato sulla morte, e dove noi siamo stati, davvero, sconfitti nel modo più fermo e irrevocabile”.

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