Autoritarismo e migrazioni via mare

23 Luglio 2025

Tullio Scovazzi Professore di diritto internazionale

Questo contenuto fa parte di Osservatorio Autoritarismo

Dalla Kater i Rades ai giorni nostri, la politica migratoria italiana ed europea s’illude di poter fronteggiare le migrazioni con persistenti misure di chiusura e respingimenti. Per Libertà e Giustizia, l’approfondita analisi di un esperto di diritto internazionale.

È utile, prima di tutto, mettere in luce il contesto generale nel quale si svolgono oggi le migrazioni nel Mare Mediterraneo (i dati di fatto cambiano, ma non la sostanza, se si considerano altre aree del mondo). 

Negli ultimi decenni, molti esseri umani hanno cercato di attraversare una frontiera, spinti dal desiderio di vivere in un luogo dove potessero evitare persecuzioni, conflitti, povertà, disastri naturali o altre calamità. Pagano somme smisurate, considerate le loro risorse, per trovarsi a rischiare la vita in un percorso che si svolge attraverso il deserto e il mare. Del viaggio conoscono l’orario di partenza, ma non quello d’arrivo. Se riuscissero ad arrivare, dovrebbero comunque far fronte all’esistenza vulnerabile di chi si trova in una condizione di irregolarità.

È troppo sbrigativo concludere che gli emigrati clandestini sono le vittime di trafficanti senza scrupoli che lucrano sui viaggi che organizzano per migliaia di disperati. Non c’è dubbio che i trafficanti siano criminali e che nei loro confronti vadano applicate le sanzioni penali previste dal degli Stati interessati, come anche indicato dal Protocollo contro il contrabbando di migranti per terra, mare e aria (Palermo, 2000), relativo alla Convenzione delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato transnazionale (Palermo, 2000)1. Ma gli emigranti clandestini sono anche le vittime di una frontiera o, per essere più precisi, di chi non riesce a vedere che una frontiera e i respingimenti che ne sono la conseguenza non potranno mai essere strumenti idonei a far fronte a un dramma umano collettivo che sta assumendo dimensioni sempre più imponenti2.

Perché un essere umano è disposto a pagare molte volte il prezzo di un normale biglietto per rischiare la propria vita e, spesso, quella della propria famiglia in un viaggio disperato? La risposta più evidente è che, essendo costretto a lasciare il proprio paese, risulta impossibile a quell’essere umano acquistare un ordinario biglietto di viaggio, perché l’esistenza di una frontiera gli impedisce di viaggiare in condizioni normali. Il trafficante, per quanto criminale egli sia, agisce in quella situazione di “mercato” che si determina quando gli esseri umani o, meglio, i più sfortunati tra di loro, non riescono a passare legalmente le frontiere.

 Le pratiche di respingimento in mare di tanto in tanto adottate dall’Italia dimostrano quanto sia assurdo pensare di eliminare un dramma umano collettivo soltanto mediante la fortificazione di una frontiera, quanto sia indegno accanirsi contro i più deboli e, volendo evocare concezioni utilitaristiche, quanto sia improduttivo vedere esposti al rischio di morte centinaia di migliaia di esseri umani intelligenti e intraprendenti. L’autoritarismo, se mai fosse in qualche caso giustificabile, ha in questo caso ancora meno ragioni di essere. 

Questo contributo intende proprio porre l’accento sugli aspetti peggiori delle politiche migratorie italiane. Certo, nel caso dell’Italia, non mancano gli episodi di cui uno Stato può andare fiero. Per fare un solo esempio, giustamente nota è l’operazione Mare Nostrum, messa in atto nell’ottobre 2013, dopo che 366 migranti erano annegati nei pressi dell’isola di Lampedusa, che ha visto coinvolte varie unità della Marina militare e di altre forze italiane per prestare soccorso ai molti migranti irregolari che rischiavano la vita in mare e portarli in salvo. Tuttavia, nell’ottobre 2014, Mare Nostrum è venuta a cessare e non è stata sostituita, né dall’Italia, né dall’Unione europea da un’altra operazione altrettanto efficace sotto il profilo umanitario. 

Le manovre cinematiche d’interposizione (Kater i Rades)

Una prima (presunta) soluzione per respingere i migranti irregolari è un’azione coercitiva di dirottamento. Proprio questo ha determinato la sorte dei migranti albanesi che sono rimasti uccisi a seguito della collisione tra la corvetta della Marina militare italiana Sibilla e la nave priva di bandiera Kater i Rades A-4513.

Le vittime sono morte a causa di qualcosa che si è voluto chiamare con un nome misterioso: manovre cinematiche d’interposizione

L’incidente avvenne nel 1997, a circa 35 miglia nautiche da Brindisi e, quindi, in alto mare. In quel periodo una grave crisi economica stava colpendo l’Albania e molti albanesi cercavano di emigrare clandestinamente all’estero, in particolare in Italia, nella speranza di trovare un futuro migliore, servendosi di natanti che prendevano il mare in assenza delle minime condizioni di sicurezza. 

Le cause sull’incidente sono state accertate nelle sentenze penali italiane che hanno trattato del caso (Tribunale di Brindisi del 19 marzo 2005; Corte d’Appello di Lecce del 29 giugno 2011) e che hanno visto come imputati il comandante della Sibilla e il capitano-timoniere della Kater i Rades. È utile ricordare qui di seguito la sequenza dei fatti accertati nelle sentenze, anche a seguito del recupero del relitto della Kater i Rades e della consulenza tecnica disposta dal Pubblico Ministero:

al comandante della Sibilla era stato impartito dai superiori l’ordine di svolgere “manovre cinematiche d’interposizione” al fine di far desistere i natanti carichi di clandestini dalla navigazione verso le coste italiane; queste manovre rientrano tra le pratiche dirette a creare intralcio ai movimenti di un’altra nave, dette anche manovre di harassment (in italiano: disturbo intenzionale), termine utilizzato in ambito NATO (North Atlantic Treaty Organization) per indicare l’azione condotta da una nave per impedire, limitare o disturbare l’azione di un’altra nave.

– l’incidente avvenne alle 18,57 del 28 marzo 1997, in condizioni d’oscurità;

– al momento dell’incidente il mare era vicino a forza 3, una situazione non gravosa per la Sibilla, ma certamente impegnativa per la motovedetta albanese, che aveva moti di deriva e imbardata abbastanza vistosi e, quindi, spostamenti orizzontali della poppa e della prua di ampiezza non normale;

– la Sibilla è una corvetta di 87 m di lunghezza e 10 m di larghezza, con dislocamento di 1.285 t, mentre la Kater i Rades era lunga 21,5 m e larga 3,5 m, con dislocamento di 56 t; la prima nave era quindi 4,2 volte più grande della seconda e i dislocamenti erano in rapporto di 38 a 1;

– la Kater i Rades, che era stata frettolosamente rimessa in mare da persone non esperte pochi giorni prima dell’incidente, non era una nave progettata e realizzata per il trasporto di passeggeri e, in condizioni normali, era dotata di un equipaggio di nove unità; 

– la Kater i Rades aveva preso il largo da Valona con un equipaggio composto di soli due membri (il comandante-timoniere e il motorista);

– la Sibilla era subentrata nelle manovre di dissuasione a un’altra e più grossa nave della Marina italiana (la fregata Zeffiro), in quanto la Kater i Rades si dimostrava molto manovriera e poneva in essere contromanovre evasive; 

– alle 18 il Dipartimento militare marittimo “Ionio e Canale d’Otranto” di Taranto aveva comunicato alla Sibilla che, qualora le azioni d’intimidazione non avessero avuto effetto, si sarebbe dovuto procedere a bloccare la Kater i Rades e a rimorchiarla sotto scorta verso le coste albanesi;

– alla stessa ora la Sibilla aveva posto in essere una prima manovra di disturbo intenzionale, raggiungendo da poppa la Kater i Rades, mantenendo con essa una distanza laterale di circa 50 m e intimandole con altoparlanti di fermarsi;

– in risposta a tale manovra la Kater i Rades aveva compiuto un’improvvisa virata passando di prua alla Sibilla;

– presumibilmente al fine di bloccare la Kater i Rades, il comandante della Sibilla, intorno alle 18,40, aveva impartito l’ordine di filare un cavo in mare per impigliare le eliche dei motori della motovedetta albanese; il cavo era stato calato in mare per 10-15 m, ma era poi stato recuperato a seguito di un contrordine; 

– era stata poi la Sibilla ad avvicinarsi alla Kater i Rades fino a una distanza non di sicurezza, in quanto il comandante della nave italiana era intenzionato a svolgere un’azione di disturbo intenzionale con la massima consentita determinazione;

–  la Kater i Rades trasportava 100-120 persone ed era priva di mezzi individuali (salvagenti o giubbotti) e collettivi (scialuppe o zattere gonfiabili) di salvataggio;

– la distanza ravvicinata consentiva ai militari italiani di vedere che la vedetta albanese era priva di tali dispositivi e che la stessa trasportava anche donne e bambini;

– la Sibilla aveva raggiunto di nuovo da poppa la Kater i Rades e aveva iniziato a sorpassarla, avendola alla sua sinistra a una distanza ridottissima;

– le persone che erano sul ponte della piccola nave avevano avvertito il pericolo e si erano spostate sul lato sinistro della nave, il meno vicino alla nave militare italiana;

– le manovre cinematiche d’interposizione della Sibilla “ben poterono consistere nel tenere una rotta rettilinea ma convergente, finalizzata quanto meno ad affiancarsi pericolosamente alla motovedetta, smuovendo le onde in sua direzione, tenuto conto dell’enorme differenza di massa e, quindi, di dislocamento esistente fra le due unità, sì da indurla ad arrestarsi”4;

– il comandante-timoniere della Kater i Rades, “scorgendo la corvetta avvicinarsi paurosamente e nel tentativo di sottrarsi a un ingaggio così stretto, manovrò per far evoluire la nave a sinistra ed allontanarsi dalla corvetta, come impone di ritenere la più volte richiamata circostanza che i due timoni della motovedetta furono rinvenuti ruotati di 27°”5

– “purtroppo, durante la ‘fase di manovra’, quindi mentre la piccola nave subiva lo sbandamento dovuto al fenomeno del c.d. ‘saluto’, il moto ondoso creò una imbardata ed una deriva della poppa della A-451 che portano questa rapidamente verso il lato sinistro della prua della corvetta”6;

– “il comandante F. L., realizzato l’imminente pericolo, ordinò “pari indietro tutta” nella speranza di riuscire ad evitare il contatto tra le due navi o, comunque, di ridurne le conseguenze, ma la manovra fu inutile per la esigua distanza laterale tra le stesse”7;

– alle 18,57 vi fu un primo urto strisciante tra le due navi, che intervenne tra l’estrema prua della Sibilla e l’estrema poppa della Kater i Rades;

– al momento dell’urto la velocità della Sibilla era di circa 10 nodi, leggermente superiore a quella della Kater i Rades, di poco inferiore ai 10 nodi;

– sulla Sibilla si avvertì “solo il rumore sordo di un tonfo”; la Kater i Rades, già inclinata di alcuni gradi sul lato sinistro (sia per effetto dello sbandamento di saluto sia perché le persone si erano spostate sul lato sinistro del ponte), fu sospinta ad inclinarsi ulteriormente a sinistra ed a ruotare intorno all’asse verticale in modo da portare la poppa al largo e la prua verso la corvetta;

– questa rotazione portò la Kater i Rades davanti alla prua della Sibilla e si determinò così un secondo urto tra le prue delle due navi, che “ebbe conseguenze più gravi del primo per la Kater i Rades, che sbandò ulteriormente e rapidamente sul lato sinistro (tanto da consentire all’acqua di entrare da alcuni oblò)”8;

– subito dopo “la corvetta fu nuovamente sulla piccola nave, ormai inclinata trasversalmente di circa 80°, colpendola con la parte bassa del dritto di prua”9;

– dopo il primo e soprattutto dopo il secondo urto le persone che erano sul ponte furono scaraventate contro l’impavesato e caddero in mare; “mentre per quelle, numerose, che si trovavano nelle tre cabine, il secondo urto ebbe effetti catastrofici: ancora pochi istanti e la motovedetta A-451 si inabissò con il suo carico di corpi inanimati”10;

– immediate furono le operazioni di soccorso ai superstiti da parte dell’equipaggio della Sibilla e di altre unità;

– restarono uccisi nell’incidente 58 cittadini albanesi, numero corrispondente a quello dei corpi recuperati, “pur essendo ragionevole assumere, anche in difetto di un elenco affidabile dei soggetti imbarcati, che il numero reale delle vittime sia senz’altro superiore”11.

In presenza di una tale sequenza di eventi, il Tribunale di Brindisi giunge alla conclusione che “la collisione fu dunque il risultato delle condotte colpose dei due comandanti delle navi interessate al sinistro”, stabilendo il concorso di colpa nella misura del 60% per F. L. (il comandante della Sibilla) e del 40% per X. N. (il conducente della Kater i Rades), e li condanna, rispettivamente, alla pena di tre e di quattro anni di reclusione per i reati di naufragio colposo, omicidio colposo plurimo e lesioni colpose. In appello è confermata la sentenza di primo grado, ad eccezione della ripartizione del concorso di colpa tra i due imputati, modificata al 50%. La pena è ridotta a tre anni e dieci mesi per X. N., essendo il reato di lesioni colpose caduto in prescrizione, e a due anni e quattro mesi per F. L., per lo stesso motivo e per la concessione delle attenuanti generiche, che erano state negate in primo grado. La Corte di Cassazione, con sentenza del 10 giugno 2014, n. 24527, rigetta i ricorsi presentati dai due imputati e dal responsabile civile (il Ministero della Difesa), rideterminando però la pena in tre anni e sei mesi per X. N. e in due anni per F. L., a seguito dell’intervenuta prescrizione anche del reato di omicidio colposo12.

Nel caso della collisione tra la Sibilla e la Kater i Rades i dati di fatto sono molto più significativi che l’esposizione delle norme giuridiche applicabili, ivi comprese le norme di diritto internazionale sulla prevenzione delle collisioni in mare. Benché si sia trattato di una collisione involontaria, proprio i dati di fatto rivelano un insieme di irresponsabilità da parte degli organi di Stato italiano coinvolti nell’incidente. Le “manovre cinematiche d’interposizione” – un’espressione che maschera il semplice concetto “ci è venuta addosso”, espresso più volte dai testimoni albanesi13 – sono tratte dalle “Regole d’ingaggio per le forze NATO che operano in ambiente marittimo”. La NATO è un’alleanza politico-militare istituita con un trattato concluso a Washington nel 1949 e avente il principale obiettivo di far fronte a un attacco armato che uno Stato terzo decida di portare contro uno Stato membro dell’alleanza. Una nave malandata e carica all’inverosimile di migranti (uomini, donne e bambini) può mai essere equiparata a un mezzo di uno Stato ostile e fronteggiata con strumenti di natura militare, come un blocco navale con conseguenti manovre di dirottamento14?

I dati raccolti nei procedimenti sull’incidente della Kater i Rades mostrano come le autorità italiane che dirigevano le operazioni delle navi militari agissero in un’“atmosfera di forte tensione” e tramite “concitate direttive”15. Risulta pure “che erano state disposizioni alla nave Zeffiro “di fare un’azione più decisa, affiancando fino a toccare”16 e che “appare del tutto impensabile (…) che lo stesso ordine non sia stato poi ‘girato’ dalla Zeffiro alla Sibilla, che ad essa era pacificamente subentrata nel tentativo di interrompere la marcia di avvicinamento all’Italia della Kater i Rades17. Spiace che le sentenze sull’incidente della Kater i Rades, per quanto esemplari per l’accurata ricostruzione dei fatti, non abbiano potuto accertare anche l’eventuale responsabilità di coloro che avevano dato l’ordine di effettuare le “manovre cinematiche d’interposizione”18. Questo anche perché il filmato che documentava le fasi dell’ingaggio tra le due navi s’interrompeva inspiegabilmente19, le bobine contenenti le registrazioni radio tra le navi e tra le navi e i comandi riproducevano conversazioni scarsamente intellegibili20 e l’imputato F. L. si era avvalso della facoltà di non rispondere alle domande del pubblico ministero21.

Le conclusioni da trarre dal naufragio della Kater i Rades devono essere chiare, come esige il rispetto dovuto alle vittime, uomini, donne e bambini che cercavano un luogo dove vivere una vita decente e hanno invece trovato la morte sul fondo del mare. Il dirottamento in mare non può essere concepito come uno strumento adatto a far fronte a un dramma umano collettivo, come era l’emigrazione di massa dall’Albania; è un grave illecito dell’Italia aver utilizzato a tal fine la pratica delle “manovre cinematiche d’interposizione”. Le battaglie navali vanno combattute contro nemici diversi da coloro che si trovavano a bordo della Kater i Rades

Il respingimento diretto verso la Libia (Hirsi Jamaa)

Se il dirottamento in mare non è attuabile, i migranti irregolari possono essere respinti in un altro modo? Ad esempio, si può approfittare delle norme sull’obbligo di prestare soccorso a chi è in pericolo in mare per respingere forzatamente coloro che sono stati soccorsi? Un simile tentativo è stato fatto dall’Italia nel 2009 con una serie di respingimenti di migranti irregolari verso la Libia, il paese di transito dal quale essi si erano imbarcati per attraversare il Mediterraneo. È utile considerare qual era il quadro delle norme di diritto internazionale applicabili al riguardo (che rimane sostanzialmente tale anche oggi).

L’obbligo di soccorrere chi è in pericolo, che discende da antiche consuetudini marinare, è oggi previsto dall’art. 98 della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (Montego Bay, 1982) e vincola tutte le navi, siano esse pubbliche o private, che siano in grado di farlo senza incorrere esse stesse in grave pericolo. Specifiche norme in proposito si trovano nella Convenzione internazionale sulla ricerca e il soccorso in mare (Londra, 1979; emendata nel 1998 e 2004)22, che pone a carico delle parti l’obbligo di fornire assistenza alle persone in pericolo in mare23

Gli obblighi delle parti non si limitano a salvare le persone in pericolo, ma comprendono anche la consegna di tali persone in un “luogo sicuro” (place of safety), come conferma la definizione di “soccorso” data dalla stessa Conv. SAR:  

“‘Rescue’. An operation to retrieve persons in distress, provide for their initial medical or other needs, and deliver them to a place of safety” (allegato, cap. 1.3.2).

 È un dato di fatto che le persone tratte in salvo, compresi i migranti irregolari, non si smaterializzano una volta a bordo della nave soccorritrice, ma devono essere sbarcate in tempi ragionevoli da qualche parte. Purtroppo, la Conv. SAR, nonostante i suoi emendamenti e nonostante le indicazioni (non vincolanti) date dalle Linee-guida sul trattamento delle persone soccorse in mare, adottate nel 2004 dal Comitato sulla sicurezza marittima dell’Organizzazione Marittima Internazionale (IMO), non fornisce indicazioni precise su come determinare il luogo sicuro. Si tratta di una grave carenza della Conv. SAR, che dimostra la riluttanza degli Stati ad assumere chiari impegni quando il delicato tema dell’immigrazione irregolare entra in gioco. Tale carenza ha portato a ben note situazioni di protratto divieto di sbarco, come dimostrano i casi della nave norvegese Tampa, che riguardava l’Australia24, della nave tedesca Cap Anamour, che riguardava Italia e Malta25, o di altre navi che, successivamente, sono restate in attesa di entrare in porti italiani. Resta però il fatto che gli individui che si trovino in situazione di pericolo in mare hanno diritto di essere soccorsi e di essere trasportati in un luogo sicuro, per quanto difficile possa essere, in certi casi, la determinazione dello stesso. È soltanto in tale luogo che si potrà stabilire con precisione chi sono e dove possono andare gli individui soccorsi (siano essi emigranti irregolari oppure marinai professionisti, terroristi oppure diportisti). 

Circa il diritto di migrare, l’art. 13, par. 2, della Dichiarazione universale dei diritti umani, adottata nel 1948 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, prevede che ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi paese, compreso il proprio26. Lo stesso diritto è stabilito nell’art. 12, par. 2, del Patto internazionale sui diritti civili e politici (New York, 1966)27. Il diritto umano di emigrare è però un diritto asimmetrico, nel senso che esso non si accompagna a un corrispondente diritto umano di immigrare. Secondo il diritto internazionale consuetudinario e a meno che disposizioni di trattati prevedano diversamente, ogni Stato ha il diritto sovrano di consentire o di vietare agli stranieri di entrare nel proprio territorio. All’ovvia domanda “se non è ammesso in alcuno Stato, dove avrà diritto di stabilirsi il migrante?” si possono, in generale, dare risposte poco soddisfacenti, come “in alto mare”, “nel settore antartico non rivendicato da alcuno Stato” o “sulla Luna o sugli altri corpi celesti”.

Vi sono però alcuni limiti al diritto di uno Stato di respingere coloro che volessero entrare nel suo territorio. 

Un primo limite deriva dal diritto umano a non essere sottoposto a tortura o a trattamenti o punizioni disumani o degradanti. Questo diritto è previsto, per richiamare trattati di cui l’Italia è parte, dall’art. 3 della Convenzione per la protezione dei diritti umani e delle libertà fondamentali (Roma, 1950; detta Convenzione europea dei diritti umani)28, dall’art. 7 del Patto internazionale sui diritti civili e politici (New York, 1966) e dalla Convenzione contro la tortura e altri trattamenti o punizioni crudeli, disumani o degradanti (New York, 1984)29. L’individuo è protetto dalla tortura anche in modo indiretto, in quanto il diritto internazionale vieta allo Stato di estradare, espellere o comunque respingere una persona verso un altro Stato dove sussista un fondato rischio che essa sia sottoposta a tortura. Questo divieto è chiaramente espresso nell’art. 3 della Convenzione contro la tortura30 ed è stato affermato in molte decisioni di corti internazionali competenti in tema di diritti umani31. Ne consegue che i migranti irregolari, come tutti gli altri esseri umani, non possono essere respinti verso uno Stato dove corrano il fondato rischio di essere torturati, anche se questo Stato è quello di cui essi sono cittadini o dove hanno la residenza o da dove sono partiti nel loro viaggio.

Un secondo limite è collegato alla condizione di rifugiato, regolata dalla Convenzione relativa allo statuto dei rifugiati (Ginevra, 1951)32, di cui l’Italia è parte. Essere un rifugiato è un dato di fatto, che non dipende da un riconoscimento da parte di alcuna autorità, e che, in base all’art. 1, par. A.2, Conv. Rif., caratterizza l’individuo che, trovandosi al di fuori del paese di cui è cittadino, abbia il fondato timore di essere perseguitato per ragioni di razza, religione, nazionalità appartenenza a un particolare gruppo sociale od opinione politica. Come è facile notare, la definizione, elaborata alla luce delle esperienze della Seconda Guerra Mondiale, non include le persone che intendono fuggire da conflitti, internazionali o interni, da disastri naturali o dalla povertà, che sono invece la maggior parte degli attuali migranti irregolari. 

La Conv. Rif. non attribuisce al rifugiato il diritto di ricevere asilo sul territorio di uno Stato parte33. Al rifugiato è soltanto dato il diritto di non essere respinto verso uno Stato, compreso il proprio, dove la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate per una serie di specifiche ragioni (diritto di non-refoulement, secondo l’espressione francese comunemente usata)34. Tuttavia, benché la Conv. Rif. non sia chiara in proposito, si può considerare implicito che un rifugiato che si presenta a un agente di uno Stato parte abbia quantomeno il diritto di presentare una domanda d’asilo e di vederla esaminata in modo efficiente ed equo35. Questo diritto spetta anche ai rifugiati che si trovano in alto mare. Ne consegue il fondato timore che le misure di respingimento in mare, non distinguendo tra rifugiati e migranti irregolari, abbiano di fatto il risultato di impedire a un rifugiato di presentare una domanda d’asilo36.

L’illegalità di misure di respingimento poste in essere dall’Italia nel 2009 è stata accertata dalla sentenza del 23 febbraio 2012 della Corte Europea dei Diritti Umani (Grande Camera) sul caso Hirsi Jamaa e altri c. Italia. Il ricorso era proposto da undici somali e tredici eritrei37 che facevano parte di un gruppo di circa duecento migranti soccorsi in mare da navi di Stato italiane, presi a bordo e trasportati forzatamente verso la Libia (Stato di transito di molti migranti irregolari), da dove erano partiti. I ricorrenti sostenevano che erano state violate alcune disposizioni della Conv. Eur. Dir. Um., tra le quali l’art. 3 (divieto di tortura) e l’art. 4 (divieto di espulsioni collettive di stranieri) del Protocollo n. 4.

La Corte muove dalla premessa che la Conv. Eur. Dir. Um. si applica anche in alto mare, che non può essere considerato uno spazio al di fuori della legge: 

“(…) as regards the exercise by a State of its jurisdiction on the high seas, the Court has already stated that the special nature of the maritime environment cannot justify an area outside the law where individuals are covered by no legal system capable of affording them enjoyment of the rights and guarantees protected by the Convention which the States have undertaken to secure to everyone within their jurisdiction”38

Conseguentemente, le operazioni d’intercettazione devono essere svolte in conformità con gli obblighi derivanti dalla Conv. Eur. Dir. Um.:

“Having regard to the foregoing, the Court considers that the removal of aliens carried out in the context of interceptions on the high seas by the authorities of a State in the exercise of their sovereign authority, the effect of which is to prevent migrants from reaching the borders of the State or even to push them back to another State, constitutes an exercise of jurisdiction within the meaning of Article 1 of the Convention which engages the responsibility of the State in question under Article 4 of Protocol No. 4”39.

La Corte segnala che gli obblighi derivanti dalla Conv. Eur. Dir. Um. non possono essere violati per dare esecuzione a trattati bilaterali che l’Italia aveva o avrebbe concluso con la Libia in tema di lotta all’immigrazione clandestina40

“Italy cannot evade its own responsibility by relying on its obligations arising out of bilateral agreements with Libya. Even if it were to be assumed that those agreements made express provision for the return to Libya of migrants intercepted on the high seas, the Contracting States’ responsibility continues even after their having entered into treaty commitments subsequent to the entry into force of the Convention or its Protocols in respect of these States”41.

Sul merito, la Corte conclude all’unanimità che l’Italia è responsabile di una violazione dell’art. 3 della Conv. Eur. Dir. Um., in quanto, respingendo i migranti, li aveva esposti al rischio di essere sottoposti a tortura o a trattamenti disumani o degradanti in Libia o nei loro paesi d’origine:

“During the period in question no rule governing the protection of refugees was complied with by Libya. Any person entering the country by illegal means was deemed to be clandestine and no distinction was made between irregular migrants and asylum seekers. Consequently, those persons were systematically arrested and detained in conditions that outside visitors, such as delegations from the UNHCR, Human Rights Watch and Amnesty International, could only describe as inhuman. Many cases of torture, poor hygiene conditions and lack of appropriate medical care were denounced by all the observers. Clandestine migrants were at risk of being returned to their countries of origin at any time and, if they managed to regain their freedom, were subjected to particularly precarious living conditions as a result of their irregular situation. Irregular immigrants, such as the applicants, were destined to occupy a marginal and isolated position in Libyan society, rendering them extremely vulnerable to xenophobic and racist acts”42.

“(…) according to the UNHCR and Human Rights Watch, individuals forcibly repatriated to Eritrea face being tortured and detained in inhuman conditions merely for having left the country irregularly. As regards Somalia, in the recent case of Sufi and Elmi (…) the Court noted the serious levels of violence in Mogadishu and the increased risk to persons returned to that country of being forced either to transit through areas affected by the armed conflict or to seek refuge in camps for displaced persons or refugees, where living conditions were appalling”43

Secondo la Corte, la situazione di violazione dei diritti umani esistente in Libia era ben nota alle autorità italiane e poteva comunque essere da queste facilmente verificata sulla base di multiple fonti44. Indipendentemente dal fatto che un’intenzione di chiedere asilo fosse stata manifestata dai ricorrenti (una circostanza che era in contestazione tra le parti), l’Italia aveva l’obbligo di non respingere i migranti verso la Libia:

“In any event, the Court considers that it was for the national authorities, faced with a situation in which human rights were being systematically violated, as described above, to find out about the treatment to which the applicants would be exposed after their return (…) Having regard to the circumstances of the case, the fact that the parties concerned had failed to expressly request asylum did not exempt Italy from fulfilling its obligations under Article 3”45.

La Corte accerta che l’Italia era anche responsabile di una violazione dell’art. 4 del Protocollo n. 4 alla Conv. Eur. Dir. Um., che vieta le espulsioni collettive di stranieri. In particolare, la Corte respinge l’argomento formalistico avanzato dall’Italia, secondo il quale un’espulsione può avere luogo soltanto se gli stranieri sono già sul territorio nazionale. Dopo avere notato che l’art. 4 non usa la parola “territorio”46, la Corte interpreta la Conv. Eur. Dir. Um. e il Protocollo in un modo che “renda le garanzie pratiche ed effettive e non teoriche e illusorie”47, mostrando la dovuta attenzione per la situazione dei migranti che rischiano la loro vita in mare:

“The Court has already found that, according to the established caselaw of the Commission and of the Court, the purpose of Article 4 of Protocol No. 4 is to prevent States being able to remove certain aliens without examining their personal circumstances and, consequently, without enabling them to put forward their arguments against the measure taken by the relevant authority. If, therefore, Article 4 of Protocol No. 4 were to apply only to collective expulsions from the national territory of the States Parties to the Convention, a significant component of contemporary migratory patterns would not fall within the ambit of that provision, notwithstanding the fact that the conduct it is intended to prohibit can occur outside national territory and in particular, as in the instant case, on the high seas. Article 4 would thus be ineffective in practice with regard to such situations, which, however, are on the increase. The consequence of that would be that migrants having taken to the sea, often risking their lives, and not having managed to reach the borders of a State, would not be entitled to an examination of their personal circumstances before being expelled, unlike those travelling by land”48

Infine la Corte conclude che vi è stata una violazione dell’art. 13 (diritto a un rimedio effettivo) della Conv. Eur. Dir. Um., in quanto i ricorrenti erano stati privati di ogni possibilità di presentare un ricorso effettivo a un’autorità competente prima che la misura del respingimento fosse eseguita49

La zona SAR libica

Se non sono attuabili né le manovre cinematiche d’interposizione, né i respingimenti diretti verso la Libia, i migranti irregolari possono essere respinti in modo indiretto? Si può operare perché un altro Stato faccia quello che l’Italia non può fare personalmente, vale a dire impedire che coloro che sono stati soccorsi arrivino in Italia? Anche questa potrebbe essere un’idea (per così dire).

La già ricordata Conv. SAR prevede che gli Stati parte si dotino di un servizio di ricerca e soccorso in mare che abbia alcuni requisiti fondamentali50 e che essi istituiscano, individualmente o in cooperazione con altri Stati, delle zone di ricerca e soccorso (dette zone SAR), al fine di assicurare l’appropriato coordinamento operativo per svolgere effettivamente tale servizio51. La zona SAR è intesa come un’area di dimensioni definite associata a un centro di coordinamento del soccorso entro la quale sono forniti servizi di ricerca e di soccorso (cap. 1.3.4 dell’Allegato alla Conv. SAR)52. Tale centro ha la responsabilità di promuovere l’efficiente organizzazione dei servizi di ricerca e soccorso e di coordinare le operazioni di ricerca e soccorso in una determinata zona SAR (cap. 1.3.5 All. Conv. SAR). 

Lo Stato che ha istituito la zona SAR non ha il monopolio delle attività di ricerca e di soccorso, ma è soltanto chiamato a gestire, tramite il proprio centro di coordinamento del soccorso, le comunicazioni con le persone in pericolo, con i mezzi di ricerca e soccorso e con altri centri di coordinamento (cap. 2.3.2 All. Conv. SAR). Nulla esclude che, se questo rende più efficaci le operazioni, possano venire impiegati nelle attività di ricerca e di soccorso nella zona SAR di un determinato Stato i mezzi di altri Stati o navi private che si trovino nelle vicinanze delle persone in pericolo.     

Risulta che il 7 luglio 2017 la Libia abbia comunicato all’IMO di aver istituito una propria zona SAR, di estensione assai ampia, delegando a Malta le attività che ivi si sarebbero esercitate, “data la presente mancanza di risorse e di attrezzature”53. Tuttavia, il 6 dicembre 2017 la Libia formalmente ritirava questa dichiarazione. Pochi giorni dopo, il 14 dicembre 2017, la Libia depositava un’altra dichiarazione, con la quale veniva di nuovo dato conto dell’istituzione di una zona SAR libica, senza più alcuna delega a Malta, e venivano ampliate le coordinate geografiche di tale zona rispetto alla prima dichiarazione. Tuttavia, soltanto in una data successiva (26 giugno 2018), la zona SAR libica era registrata nella banca dati dell’IMO e venivano resi disponibili gli indispensabili dati (indirizzo, numero di telefono, numero di facsimile e indirizzo di posta elettronica) del centro di coordinamento libico.

Ci si può chiedere perché le autorità di uno Stato che sono in grado di esercitare il loro potere soltanto in una parte ridotta del territorio nazionale, in quanto il paese è frammentato da un conflitto interno, si preoccupino di istituire un sistema di ricerca e soccorso in mare che, in concreto, dovrebbe riguardare principalmente i migranti irregolari stranieri che transitano nel territorio nazionale per poi imbarcarsi per raggiungere altri paesi. Una risposta possibile è che il tutto avvenga perché è stato raggiunto un accordo a tal fine con un altro Stato.

L’Italia ha concluso con la Libia un Memorandum d’intesa sulla cooperazione nel campo dello sviluppo, del contrasto all’immigrazione illegale, al traffico di esseri umani, al contrabbando e sul rafforzamento della sicurezza delle frontiere (Roma, 2 febbraio 2017)54. Il memorandum prevede che l’Italia s’impegni a finanziare un’ampia serie d’iniziative (sostegno alle istituzioni di sicurezza e militari al fine di arginare i flussi di migranti illegali; fornitura di supporto tecnico e tecnologico agli organismi libici incaricati della lotta contro l’immigrazione clandestina, in particolare la Guardia di frontiera e la Guardia costiera; completamento del sistema di controllo dei confini terrestri del Sud della Libia; adeguamento e finanziamento dei centri di accoglienza temporanei di migranti in Libia; sostegno alle organizzazioni internazionali presenti in Libia per sforzi miranti al rientro dei migranti nei paesi d’origine; avvio di programmi di sviluppo nelle regioni libiche colpite dal fenomeno dell’immigrazione illegale; altre iniziative proposte da un comitato misto istituito dal memorandum), tramite fondi nazionali e fondi disponibili dall’Unione europea55

In esecuzione del memorandum stesso, è stato emanato il decreto-legge 10 luglio 2018, n. 84, convertito nella legge 9 agosto 2018, n. 9856, con il quale si dispone, tra l’altro, la cessione gratuita alla Libia di un massimo di dodici unità navali già in dotazione a corpi militari italiani e si autorizzano le spese per il ripristino dell’efficienza delle stesse, al fine di incrementare la capacità operativa della Guardia costiera libica nelle attività di controllo e sicurezza rivolte al contrasto  e al traffico di esseri umani, nonché nelle attività di soccorso in mare. Sono stati di conseguenza conclusi da Italia e Libia lo scambio di note concernente la cessione al governo libico di dieci unità navali “classe 500” per il pattugliamento costiero (Tripoli del 16 maggio 2019)57, lo scambio di note per la cessione di due battelli pneumatici classe “Bravo” alla Guardia costiera libica (Tripoli, 3 marzo 2021), il memorandum d’intesa in merito alla consegna di sei battelli pneumatici classe “900 PRO DPS” (Tripoli, 13 marzo 2022) e il memorandum d’intesa in merito alla consegna di due vedette classe “Corrubia” e tre vedette SAR classe “300” (Tripoli, 28 gennaio 202358).

Il memorandum d’intesa del 2017 solleva notevoli preoccupazioni, dal punto di vista della tutela dei migranti irregolari. Da un lato, le parti s’impegnano ad adeguare e finanziare i “centri di accoglienza già attivi nel rispetto delle norme pertinenti”, a formare il personale libico all’interno di tali centri “in modo che possano contribuire all’individuazione dei metodi più adeguati per affrontare il fenomeno dell’immigrazione clandestina e la tratta degli esseri umani” (art. 2, n. 3) e a sostenere le organizzazioni internazionali presenti e che operano in Libia nel campo delle migrazioni” (art. 2, n. 5). Dall’altro lato, il memorandum evoca nel preambolo la “ferma determinazione” delle parti di predisporre “campi di accoglienza temporanea in Libia, sotto l’esclusivo controllo del Ministero dell’Interno libico”59. Non contribuisce a chiarire la situazione la troppo generica clausola sulla tutela dei diritti umani:

“Le Parti si impegnano ad interpretare e applicare il presente Memorandum nel rispetto degli obblighi internazionali e degli accordi sui diritti umani di cui i due Paesi siano parte” (art. 5).

Il tutto sarebbe aggravato se, a seguito del memorandum, si diffondesse la falsa supposizione che, nella neoistituita zona SAR libica, il soccorso possa essere svolto soltanto dalle unità libiche e fossero precluse attività di ricerca e soccorso da parte di altre navi. È molto facilmente prevedibile che la Guardia costiera libica, operante nella zona SAR libica, riporti nel territorio libico (e, quindi, nei “centri di accoglienza” ivi situati) i migranti “soccorsi”. Come prevede un principio generale di diritto, che è ripreso anche nel diritto internazionale generale60, chi consapevolmente assiste un altro soggetto nel compimento di un illecito risponde dello stesso illecito compiuto (rapporto di complicità in un illecito). 

Quale sia in concreto il destino dei migranti irregolari che si trovano in Libia era già chiaro a seguito della richiamata sentenza Hirsi Jamaa e altri c. Italia ed è stato ulteriormente confermato da diversi altri documenti, come un rapporto redatto da due agenzie delle Nazioni Unite e pubblicato il 20 dicembre 2018 (l’anno successivo alla conclusione del memorandum d’intesa tra Italia e Libia). Si tratta di una serie di “orrori inimmaginabili”:

“Migrants and refugees suffer unimaginable horrors during their transit through and stay in Libya. From the moment they step onto Libyan soil, they become vulnerable to unlawful killings, torture and other ill-treatment, arbitrary detention and unlawful deprivation of liberty, rape and other forms of sexual and gender-based violence, slavery and forced labour, extortion and exploitation by both State and non-State actors”61. 

Considerato anche che il diritto della Libia non prevede l’asilo e criminalizza l’entrata irregolare nel territorio nazionale, i migranti sono di fatto detenuti indefinitamente senza processo in centri dove essi subiscono condizioni di detenzione disumane per sovraffollamento, malnutrizione e condizioni igieniche e sanitarie, oltre ad essere vittime di facili ricatti (tipiche sono le torture, anche mortali, per estorcere denaro ai familiari dei reclusi):

“They are systematically held captive in abusive conditions, including starvation, severe beatings, burning with hot metals, electrocution, and sexual abuses of women and girls, with the aim of extorting money from their families through a complex system of money transfers, extending to a number of countries. They are frequently sold from one criminal gang to another and required to pay ransoms multiple times before being set free or taken to coastal areas to await the Mediterranean Sea crossing. The overwhelming majority of women and older teenage girls interviewed by UNSMIL [= United Nations Support Mission in Libya] reported being gang raped by smugglers or traffickers or witnessing others being taken out of collective accommodations to be abused. Younger women travelling without male relatives are also particularly vulnerable to being forced into prostitution. Countless migrants and refugees lost their lives during captivity by smugglers or traffickers after being shot, tortured to death, or simply left to die from starvation or medical neglect. Across Libya, unidentified bodies of migrants and refugees bearing gunshot wounds, torture marks and burns are frequently uncovered in rubbish bins, dry river beds, farms and the desert”62

Alcune autorità ufficiali della Libia sono complici nelle violenze e negli abusi; altre usano indiscriminatamente la forza letale contro i migranti irregolari:

“UNSMIL continues to receive credible information on the complicity of some State actors, including local officials, members of armed groups formally integrated into State institutions, and representatives of the Ministry of Interior and Ministry of Defence, in the smuggling or trafficking of migrants and refugees. These State actors enrich themselves through exploitation of and extortion from vulnerable migrants and refugees. (…)

Security forces in Libya, including armed groups integrated into the Ministry of Interior, have used excessive or unwarranted lethal force against migrants and refugees in the course of law enforcement operations, leading to loss of life and injury”63.

In un simile contesto, non sorprende che il Tribunale di Trapani, con una sentenza del 23 maggio 2019, abbia assolto, “perché il fatto non costituisce reato, essendo scriminati dalla legittima difesa”, due migranti irregolari accusati di aver minacciato l’equipaggio e il comandante di una nave privata che li aveva soccorsi e che, seguendo l’ordine ricevuto dalle autorità marittime italiane e libiche, li stava riconducendo in Libia:

“Se si riflette un momento sul fatto che i 67 migranti imbarcati dalla Vos Thalassa avevano subito, prima della partenza dal territorio libico, le disumane condizioni sopra rappresentate, appare evidente come il ritorno in quei territori costituisse per loro una lesione gravissima di tutte le prospettive dei fondamentali diritti dell’uomo”. 

Sorprende, invece, il fatto che l’Italia, proprio in questo periodo, abbia concluso con la Libia un trattato (il già richiamato memorandum d’intesa del 2017) che ha l’evidente, anche se non dichiarato, risultato di fornire agli agenti libici i mezzi navali per riportare indietro i migranti irregolari soccorsi.

Ancora più sorprendente – e molto criticabile – appare la recente decisione della Corte Europea dei Diritti Umani del 12 giugno 2025 sul caso S. S. e altri c. Italia, che ha dichiarato all’unanimità irricevibile la domanda di diciassette ricorrenti. Questi chiedevano alla Corte di accertare la violazione degli art. 2 (diritto alla vita) e 3 (divieto di tortura) della Conv. Eur. Dir. Um. I fatti rivelano uno scenario di “concorrenza” nel soccorso, purtroppo risoltosi tragicamente per molti migranti irregolari.

La notte del 6 novembre 2017 i ricorrenti, aventi la nazionalità della Nigeria o del Ghana. facevano parte di un più ampio gruppo di migranti irregolari che avevano lasciato le coste della Libia a bordo di un battello pneumatico. Ricevuta una chiamata di soccorso, il Centro di coordinamento del soccorso marittimo di Roma aveva informato l’analogo Centro di Tripoli (il battello si trovava a circa 33 miglia nautiche a nord di Tripoli e, pertanto, nella zona SAR libica) e aveva chiesto alle unità navali che si trovavano nelle vicinanze di procedere al salvataggio. L’operazione di salvataggio era stata presa in carico dal guardacoste libico Ras Jadir che, rifiutando un coordinamento, aveva intimato di allontanarsi alla nave privata di bandiera olandese Sea Watch 3, pure accorsa sul posto. Tuttavia, le manovre effettuate dalla Ras Jadir, avevano provocato la caduta in mare e la morte di varie persone che si trovavano a bordo del battello pneumatico64, tra cui due figli di ricorrenti. A questo punto, la Sea Watch 3 aveva lanciato in mare dei battelli pneumatici che avevano preso a bordo decine di migranti, tra i quali nove dei ricorrenti. Altri sei ricorrenti, tratti a bordo della Ras Jadir, erano riusciti a fuggire e a raggiungere la Sea Watch 365. I restanti due ricorrenti erano stati portati in Libia dalla Ras Jadir e condotti in un campo di detenzione66

Nell’affrontare il caso, la Corte fa propria una lettura riduttiva e formalistica della parola “giurisdizione” contenuta dell’art. 1 della Conv. Eur. Dir. Um.67. In particolare, pur richiamandolo nella parte della decisione dedicate al “quadro giuridico pertinente”, la Corte non fa uso dell’art. 16 del progetto di articoli del 2001 della Commissione del Diritto Internazionale sulla responsabilità degli Stati per atti internazionalmente illeciti, che riguarda la complicità nell’illecito:

“A State which aids or assists another State in the commission of an internationally wrongful act by the latter is internationally responsible for doing so if:

(a) that State does so with knowledge of the circumstances of the internationally wrongful act; and

(b) the act would be internationally wrongful if committed by that State”68.

Tale norma, per ragioni che non è il caso di approfondire in questa sede, può considerarsi come appartenente al diritto internazionale generale.

Nel caso specifico, la questione che, anzitutto, si poneva era se la condotta dell’Italia, che aveva facilitato il respingimento dei migranti verso la Libia fornendo ad essa le unità navali a questo adibite, potesse considerarsi consapevole che tale respingimento avrebbe esposto i migranti irregolari al rischio di tortura. Se tale accertamento avesse dato un esito positivo, se ne doveva desumere che tala condotta – cioè la conclusione e l’esecuzione del memorandum d’intesa del 2017 – costituiva complicità con un altro Stato nella commissione di un illecito internazionale. Sul piano giuridico, il misterioso termine “giurisdizione” nell’art. 1 della Conv. Eur. Dir. Um.69 richiedeva di essere interpretato in modo sistemico in connessione con le norme generali sulla complicità nell’illecito70 e in modo teleologico alla luce dell’obiettivo delle norme sui diritti umani e non già dando per scontato, come fa la Corte, che “giurisdizione” equivalga a “territorio” (o a “controllo su di un territorio”)71 e arrivando in tal modo alla conclusione che il respingimento era avvenuto in una zona al di fuori del controllo dell’Italia72:

“Au vu de toutes les considérations qui précèdent, la Cour ne saurait conclure que la zone dans laquelle les requérants ont été interceptés, et plus généralement les eaux internationales situées en mer Méditerranée centrale, étaient sous un contrôle effectif de l’Italie, propre à établir sa juridiction ratione loci en l’espèce”73.

In altre parole, i trattati sui diritti umani tutelano gli individui che possono “venire a tiro” di agenti dello Stato, indipendentemente dal luogo dove le presunte violazioni sono compiute. Conta lo Stato al quale la violazione può essere attribuita, e non già il luogo dove essa si è verificata. Se di solito essi agiscono nel territorio dello Stato cui appartengono, può accadere che gli agenti di uno Stato operino nel territorio di un secondo Stato o siano complici di un’azione condotta da agenti di un secondo Stato nel territorio di quest’ultimo. Anche in queste ipotesi, il primo Stato risponde per le violazioni dei diritti umani compiute dai suoi agenti. Nel caso specifico, la “giurisdizione” dell’Italia poteva sussisteva a causa del fatto che gli agenti del governo italiano avevano esercitato la loro “giurisdizione” (ossia il loro potere esecutivo), concludendo ed eseguendo consapevolmente un trattato che esponeva individui al rischio di essere torturati all’estero. 

A nulla serve, se non a peggiorare la situazione, il fatto che la Corte manifesti comprensione umana per il dramma dei migranti irregolari “soccorsi” dalla Ras Jadir74, per poi ribadire le proprie conclusioni sostanzialmente pilatesche e giuridicamente errate75.

L’assenza della diligenza dovuta nel soccorso

Al di là delle molte situazioni in cui l’Italia ha doverosamente e proficuamente soccorso migranti in pericolo nel Mediterraneo76,  sussiste qualche caso dove è venuta a mancare la diligenza dovuta. Le considerazioni adottate il 4 novembre 2020 dal Comitato dei Diritti Umani sulla comunicazione n. 3042/2017 (A. S., D. I., O. I. e G. D. c Italia) sono un esempio in proposito.

Gli autori della comunicazione, aventi la nazionalità della Palestina o della Siria, sostenevano che l’Italia non aveva reso soccorso ai loro parenti che si trovavano in una situazione di emergenza in mare, con conseguente violazione dell’art. 6 (diritto alla vita) del Patto sui Diritti Civili e Politici (New York, 1966). Si trattava dell’incidente avvenuto l’11 ottobre 2013, quando una nave sovraccarica di migranti irregolari si era rovesciata nella zona SAR di Malta, a 113 km a sud di Lampedusa e a 218 km da Malta, provocando la morte di oltre 200 persone, compresi diversi bambini. 

Durante il procedimento di fronte al Comitato, l’Italia aveva sostenuto che i fatti si erano svolti al di fuori della sua giurisdizione:

“The State party [= Italy] submits that as the alleged violation of the duty to protect the lives of the alleged victims took place outside Italian territorial waters and outside its SAR area, the facts under review do not fall within its jurisdiction under article 2 of the Covenant and article 1 of the Optional Protocol”77

Tuttavia, il Comitato ha concluso che, nelle particolari circostanze, una situazione di dipendenza speciale si era instaurata tra gli individui bisognosi di soccorso e l’Italia, situazione che poneva tali individui sotto la “giurisdizione” italiana ai fini del richiamato Patto. Veniva in proposito in rilevo un insieme di elementi di fatto, quali la comunicazione intervenuta tra la nave in pericolo e il Centro di coordinamento del soccorso marittimo di Roma, l’iniziale coinvolgimento di quest’ultimo nell’operazione di soccorso e la vicinanza della nave di bandiera italiana ITS Libra, come pure gli obblighi giuridici gravanti sull’Italia alla luce del diritto internazionale del mare, compresi gli obblighi di rispondere in modo ragionevole a una chiamata di soccorso e di cooperare in modo appropriato con altri Stati impegnati nelle operazioni di soccorso (Malta, nel caso specifico). 

Sulla base di un’attenta analisi dei fatti, il Comitato ha accertato che l’Italia non aveva dimostrato la diligenza dovuta nell’adempiere agli obblighi previsti dall’art. 6, par. 1, del sopra richiamato Patto. 

“The Committee notes that the principal responsibility for the rescue operation lies with Malta, since the capsizing occurred in its search and rescue area, and since it undertook in writing responsibility for the search and rescue operation. The Committee however considers that the State party [= Italy] has not provided a clear explanation for what appears to be a failure to promptly respond to the distress call, prior to the assumption of responsibility for the search and rescue operation by the Maltese authorities. It also notes that the State party has not provided any information about measures taken by State party authorities to ascertain that the RCC [= Rescue Coordination Centre] Malta was informed of the exact location of the vessel in distress and that it was effectively responding to the incident, despite the information about the deteriorating situation and the need for Italian assistance. In addition, the State party failed to explain the delay in dispatching the ITS Libra, which was located only one hour away from the vessel in distress, towards it, even after being formally requested to do so by RCC Malta. Finally, the Committee notes that the State party has not clearly explained or refuted the authors’ claim that intercepted phone calls indicate that the ITS Libra was ordered to sail away from the vessel in distress”78.

Si trattava di un evidente caso di mancata coordinazione tra due Stati (Italia e Malta), da cui era derivata una pesante perdita di vite umane.

Questo e i numerosi tragici incidenti avvenuti nel Mediterraneo consentono di svolgere una considerazione di carattere generale. In una perdurante emergenza, dove tutte le forze disponibili, pubbliche e private, dovrebbero essere utilizzate e coordinate per far fronte a una pesante esigenza umanitaria, suscita sorpresa il fatto che l’Italia abbia deciso di peggiorare la situazione delle navi di ricerca e soccorso con misure che colpiscono soprattutto le attività volontarie gestite da organizzazioni non governative. Il decreto-legge 11 ottobre 2024, n. 145, convertito nella legge 9 dicembre 2024, n. 18779, aggravava le sanzioni amministrative a carico dei comandanti, proprietari e armatori delle navi che violino i provvedimenti con cui, per motivi di ordine o di sicurezza, il Ministro dell’interno, di concerto con il Ministro della difesa e con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, limitano o vietano il transito e la sosta di navi nel mare territoriale italiano, salvo che si tratti di naviglio militare o di navi in servizio governativo non commerciale, oppure che non si uniformino alle indicazioni date dalla competente autorità nazionale per la ricerca e il soccorso in mare nonché dalla struttura nazionale preposta al coordinamento delle attività di polizia di frontiera e di contrasto dell’immigrazione clandestina. Tra tali sanzioni vi è il fermo amministrativo da trenta a sessanta giorni della nave utilizzata per commettere la violazione e, in caso di reiterazione della violazione commessa con l’utilizzo della medesima nave, la confisca. Si tratta, è il caso di ricordarlo, di attività svolte in situazioni quasi sempre di emergenza e da parte da navi che operano volontariamente in ausilio a un servizio che dovrebbe essere svolto dallo Stato.

Considerazioni conclusive

Nelle pagine precedenti si è cercato di mettere in luce quanto di peggio sia reperibile nell’alterna politica italiana riguardo all’immigrazione irregolare via mare: l’urto colposo con una nave sovraccarica di migranti; il respingimento volontario dei migranti verso un paese dove essi sono torturati; l’assistenza a un altro Stato perché esso riporti i migranti verso un paese dove essi sono torturati; la penalizzazione delle attività “concorrenti” (in realtà, sostitutive) svolte da privati.

Vi sono alcuni punti fermi che non dovrebbero venire trascurati. Alla luce del diritto internazionale, i migranti irregolari hanno il diritto di essere trattati umanamente e non come criminali. Se si trovano in pericolo in mare, essi hanno il diritto di essere soccorsi e trasportati in un luogo sicuro, diverso da uno Stato dove essi corrono il rischio di venire torturati. Se sono anche rifugiati, essi hanno il diritto di non essere respinti verso un luogo dove possano subire persecuzioni e di essere messi in condizione di presentare una domanda d’asilo. Questi diritti sussistono nonostante il fatto che il quadro giuridico internazionale sia tutt’altro che adeguato, soprattutto per quanto riguarda la determinazione del luogo sicuro dove i migranti irregolari soccorsi devono essere sbarcati.

Resta il fatto che le questioni giuridiche sono una parte soltanto di un problema molto più ampio. Sul piano morale, è inaccettabile che uno Stato sviluppato, come l’Italia, concentri le proprie forze e ricchezze contro gli esseri umani più deboli e che un’entità altrettanto sviluppata, come l’Unione europea, della quale anche l’Italia fa parte, non sia in grado di elaborare una linea politica decorosa in materia di migranti e rifugiati. Gli attuali flussi di migranti irregolari costituiscono un dramma umano collettivo che è illusorio pensare di fronteggiare con persistenti misure di chiusura. Come è stato posto in evidenza dall’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati,     

“la verità è che non possiamo scoraggiare delle persone che sono in fuga per salvarsi la vita. Arriveranno. Possiamo però scegliere se gestire bene il loro arrivo, e con quanta umanità. (…)

Se le nazioni occidentali continueranno a rispondere chiudendo le porte, continueremo a condurre migliaia di persone disperate nelle mani di reti criminali, rendendoci tutti meno sicuri”80

✒️ Questo testo è l’intervento, ampliato, di Tullio Scovazzi alla prima giornata di studio dell’Osservatorio autoritarismo tenutosi all’Università degli Studi di Milano.

  1.  L’Italia è parte sia della Convenzione che del Protocollo. Si noti che il Protocollo intende proteggere i diritti dei migranti irregolari (“The purpose of this Protocol is to prevent and combat the smuggling of migrants as well as to promote cooperateon among States Parties to that end, while protecting the rights of the smuggled migrants”, art. 2), che non possono essere oggetto di sanzioni penali a causa della loro situazione (“Migrants shall not be liable to criminal prosecution under this Protocol for the fact of having been the object of conduct set forth in article 6 of this Protocol”, art. 5). ↩︎
  2.  Cfr. Pécoud & de Guchteneire (eds.), Migration without Borders, Oxford, 2007. ↩︎
  3.  Si trattava di una motovedetta radiata dalla Marina albanese per vetustà e posta in disarmo. Sull’incidente cfr. Cannizzaro, La tutela della sfera territoriale da intrusioni non autorizzate: in margine al caso Sibilla, in Rivista di Diritto Internazionale, 1997, p. 421; Caffio, L’accordo tra l’Italia e l’Albania per il controllo e il contenimento in mare degli espatri clandestini, in Rivista Marittima, giugno 1997, p. 109; Scovazzi, Il respingimento di un dramma umano collettivo e le sue conseguenze, in Antonucci, Papanicolopulu & Scovazzi (a cura di), L’immigrazione irregolare via mare nella giurisprudenza italiana e nell’esperienza europea, Torino, 2016, p. 45; Leogrande, Il naufragio – Morte nel Mediterraneo, Milano, 2011. Un romanzo ispirato all’incidente è Shehu, L’ultima nave, Molfetta, 2001. ↩︎
  4.  Così la sentenza della Corte d’Appello di Lecce. ↩︎
  5.  Così la sentenza del Tribunale di Brindisi. La ricostruzione fornita dalla Marina Militare italiana era incompatibile con due dati di fatto. In primo luogo, la Kater i Rades non poteva disporre della riserva di velocità indispensabile per compiere la manovra di virata a destra per passare davanti alla prua della Sibilla. In secondo luogo, In secondo luogo, come risultò dal recupero del relitto adagiato su di un fondale di 800 m di profondità, i due timoni della Kater i Rades erano ruotati in posizione per la virata a sinistra. Da questo e da altri rilievi tecnici si poteva desumere che il conducente della nave nell’ultima manovra stava virando a sinistra e dunque stava allontanandosi dalla corvetta italiana. ↩︎
  6.  Così la sentenza del Tribunale di Brindisi. ↩︎
  7.  Così la sentenza del Tribunale di Brindisi. ↩︎
  8.  Così la sentenza del Tribunale di Brindisi. ↩︎
  9.  Così la sentenza del Tribunale di Brindisi. ↩︎
  10.  Così la sentenza del Tribunale di Brindisi. ↩︎
  11.  Così la sentenza della Corte d’Appello di Lecce. Secondo Leogrande, op. cit., p. 213, il numero dei corpi ritrovati è 57, ai quali devono aggiungersi 24 dispersi i cui corpi non sono stati mai ritrovati. ↩︎
  12.  Non è possibile entrare in questa sede nelle complesse questioni relative al risarcimento dei danni subiti dalle numerose parti civili costituite in giudizio. ↩︎
  13.  Cfr. le testimonianze riferite nella sentenza del Tribunale di Brindisi. ↩︎
  14.  Si noti che la versione dei fatti desumibile dalle deposizioni degli ufficiali della Marina Militare italiana – in sintesi, che la collisione era “addebitabile esclusivamente ad una manovra errata del comandante la nave albanese che, nel tentativo di sfuggire al pressing operato da nave Sibilla, avrebbe errato nel valutare la distanza tra le due navi e la velocità relativa nella esecuzione della virata” (una virata a destra per sfuggire passando davanti alla prua della Sibilla) – non risulta affatto convincente per il Tribunale di Brindisi, che arriva a qualificare l’atteggiamento della Marina Militare come caratterizzato da un “clima di omertà che aleggiava attorno agli accadimenti”. Anche la Corte d’Appello di Lecce rileva che un’attenta disamina di molte deposizioni fornite da militari della Marina italiana “consente di apprezzare ulteriori elementi di inverosimiglianza, che vieppiù ne inficiano l’attendibilità, già fortemente screditata”, segnalando “un atteggiamento per niente affatto collaborativo con le indagini, ad opera quanto meno di taluni appartenenti alla Marina Militare”. ↩︎
  15.  Così la sentenza della Corte d’Appello di Lecce. ↩︎
  16.  Così la sentenza della Corte d’Appello di Lecce. ↩︎
  17.  Così la sentenza della Corte d’Appello di Lecce. ↩︎
  18.  Il pubblico ministero si è visto costretto a chiedere l’archiviazione dei procedimenti nei confronti di due ammiragli di squadra, in quanto l’autorità giudiziaria non era stata messa in condizione “di valutare compiutamente la valenza, l’opportunità e l’eventuale incidenza degli ordini impartiti ai comandanti delle due navi impegnate dai comandi di terra” (passi della richiesta di archiviazione sono riprodotti in Leogrande, op. cit., p. 102). Troppo tardi la richiamata sentenza della Corte di Cassazione del 2014 accenna al “carattere criminoso” di un eventuale ordine: “La condotta rischiosa tenuta dal F. L., nell’approssimarsi al naviglio albanese a una distanza del tutto inidonea a cautelare la possibilità di una (peraltro prevedibile) collisione, deve pertanto qualificarsi quale espressione di un’imprudente scelta elettiva del medesimo comandante, che, ove tenuta nell’eventuale ritenuto (putativo) adempimento di un ordine dell’autorità allo stesso gerarchicamente sovraordinata, non può in nessun caso ritenersi giustificata, atteso l’evidente carattere criminoso del contenuto di un simile eventuale ordine”. ↩︎
  19.  “Il filmato girato da uno strumento di bordo di Nave Zeffiro, che documenta le fasi dell’ingaggio tra la Nave Kater i Rades A 451 e Nave Sibilla, s’interrompe inspiegabilmente, con ciò destando non pochi sospetti, proprio nel momento in cui viene inquadrata la prua della nave Sibilla che si avvicina minacciosamente alla nave albanese” (Leogrande, op. cit., p. 102). ↩︎
  20.  “Le bobine contenenti le registrazioni radio effettuate tra navi e tra navi e comandi di terra tra le ore 17 e le ore 19 del 28 marzo 1997, così come consegnate a questo pm, riproducono segnali e conversazioni scarsamente intellegibili, quando non, come nel caso del documento più importante, quello delle comunicazioni registrate a bordo della Sibilla, inerenti a momenti temporali diversi da quello utile” (ibidem). ↩︎
  21.  “L’unica persona che avrebbe potuto a riguardo fornire indicazioni circa il significato e la provenienza degli ultimi ordini emanati e ricevuti, ovvero il comandante F. L., ha ritenuto di avvalersi della facoltà di non rispondere alle domande del pm” (ibidem). ↩︎
  22.  Qui di seguito: Conv. SAR. ↩︎
  23.  “Parties shall ensure that assistance is provided to any person in distress at sea. They shall do so regardless of the nationality or status of such a person or the circumstances in which that person is found” (allegato, cap. 2.1.10). ↩︎
  24.  Cfr. Fornari, Soccorso di profughi in mare e diritto di asilo: questioni di diritto internazionale sollevate dalla vicenda della nave Tampa, in La Comunità Internazionale, 2002, p. 61. ↩︎
  25.  Cfr. Trevisanut, Le Cap Anamur: profils de droit international et de droit de la mer, in Annuaire du Droit de la Mer, 2004, p. 49. ↩︎
  26.  “Everyone has the right to leave any country, including his own, and to return to his country”. ↩︎
  27.  “Everyone shall be free to leave any country, including his own”. ↩︎
  28.  Qui di seguito: Conv. Eur. Dir. Um. ↩︎
  29.  Questi trattati prevedono che nessuna deroga può essere fatta al divieto di tortura. Come stabilisce l’art. 2 della Convenzione contro la tortura, “no exceptional circumstances whatsoever, whether a state of war or a threat of war, internal political instability or any other public emergency, may be invoked as a justification of torture”.  ↩︎
  30.  “No State Party shall expel, return (‘refouler’) or extradite a person to another State where there are substantial grounds to believe that he would be in danger of being subjected to torture”. ↩︎
  31.  Si veda la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti Umani a partire dalla sentenza del 7 luglio 1989 sul caso Soering c. Regno Unito. ↩︎
  32.  Qui di seguito: Conv. Rif. Cfr. Westra, Juss & Scovazzi (eds.), Towards a Refugee Oriented Right of Asylum, Farnham, 2015. ↩︎
  33.  Tale diritto può venire attribuito da un determinato ordinamento nazionale. Ad esempio, per l’Italia dall’art. 10, c. 3, della Costituzione: “Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilite dalla legge”. ↩︎
  34.  É questo un altro esempio di diritto asimmetrico, nel senso che, in base alla Conv. Rif., un rifugiato, che ha il diritto di non essere respinto in uno Stato dove sarebbe perseguitato, non ha il diritto di entrare in uno Stato dove non sarebbe perseguitato. Se non è ammesso in nessuno Stato, dove potrà stabilirsi il rifugiato? In alto mare? Nel settore antartico non rivendicato da alcuno Stato? Sulla Luna o sugli altri corpi celesti? ↩︎
  35.  Come rilevato dall’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), che ha l’incarico di seguire l’applicazione della Conv. Rif., “as a general rule, in order to give effect to their obligations the 1951 Convention and/or 1967 Protocol, States will be required to grant individuals seeking international protection access to the territory and to fair and efficient asylum procedures” (UNHCR, Advisory Opinion on the Extraterritorial Application of Non-Refoulement Obligations under the 1951 Convention relating to the Status of Refugees and its 1967 Protocol, 26 gennaio 2007, par. 8). ↩︎
  36.  “States have a legitimate interest in controlling irregular migration. Unfortunately, existing control tools, such as visa requirements and the imposition of carrier sanctions, as well as interception measures, often do not differentiate between genuine asylum-seekers and economic migrants” (UNHCR, Interception of Asylum-Seekers and Refugees: The International Framework and Recommendations for a Comprehensive Approach, UN Doc EC/50/SC/CPR.17, 9 giugno 2000, par. 17). ↩︎
  37.  Pochi oggi ricordano che Eritrea e Somalia erano le due prime colonie italiane. ↩︎
  38.  Par. 178 della sentenza ↩︎
  39.  Par. 180. ↩︎
  40.  I trattati in questione, entrambi conclusi il 29 dicembre 2007, sarebbero un Protocollo per far fronte al fenomeno dell’immigrazione clandestina e un Protocollo addizionale di carattere tecnico e operativo. Si usa il condizionale, perché, in realtà, i due trattati non esistono, almeno per quanto riguarda l’ordinamento italiano, non essendo stati pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana, come il diritto italiano invece esige. Il primo protocollo è soltanto richiamato nell’art. 19, par. 1, del Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione tra Italia e Libia (Bengasi, 30 agosto 2008), regolarmente pubblicato (Gazz. Uff. Rep. It., suppl. al n. 40 del 18 febbraio 2009). Cfr. Fioravanti, Scatole cinesi. Quale controllo democratico sulla cooperazione italo-libica-europea in materia d’immigrazione?, in Brunelli, Pugiotto & Veronesi (a cura di), Scritti in onore di Lorenza Carlassare, Napoli, 2009, p. 539; De Vittor, Soccorso in mare e rimpatri in Libia: tra diritto del mare e tutela internazionale dei diritti dell’uomo, in Rivista di Diritto Internazionale, 2009, p. 800. ↩︎
  41.  Par. 129 della sentenza. ↩︎
  42.  Par. 125. ↩︎
  43.  Par. 150. ↩︎
  44.  Par. 131 e 156. ↩︎
  45.  Par. 133. ↩︎
  46.  “Collective expulsion of aliens is prohibited”. ↩︎
  47.  Par. 175 della sentenza. ↩︎
  48.  Par. 177. ↩︎
  49.  Par. 205. Anche il rapporto presentato nel 2009 da una delegazione del Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura, istituito in base alla Convenzione europea per la prevenzione della tortura e i trattamenti o le punizioni disumane o degradanti (Strasburgo, 1987), pone in evidenza come la politica del respingimento in mare sia in contrasto con gli obblighi internazionali dell’Italia. Cfr. Council of Europe, Report to the Italian Government on the visit to Italy carried out by the European Committee for the Prevention of Torture and Inhuman or Degrading Treatment or Punishment (CPT) from 27 to 31 July 2003, doc. CPT/Inf (2010) 14, 28 aprile 2010, par. 9. ↩︎
  50.  Vale dire: “legal framework”; “assignment of a responsible authority”; “organization of available resources”; “communication facilities”; “co-ordination and operational functions”; “processes to improve the service, including planning, domestic and international co-operative relationships and training” (cap. 2.1.2 All. Conv. SAR). ↩︎
  51.  “To help ensure the provision of adequate shore-based communication infrastructure, efficient distress alert routeing, and proper operational co-ordination to effectively support search and rescue services, Parties shall, individually or in co-operation with other States, ensure that sufficient search and rescue regions are established within each sea area in accordance with paragraphs 2.1.4 and 2.1.5. Such regions should be contiguous and, as far as practicable, not overlap” (cap. 2.1.3 dell’allegato alla Conv. SAR). ↩︎
  52.  La Conv. SAR prevede che le zone SAR siano stabilite con accordi tra gli Stati interessati e che di tali accordi sia data notifica al Segretario Generale dell’IMO (cap. 2.1.4 All. Conv. SAR). La delimitazione delle zone SAR non pregiudica la delimitazione dei confini marittimi tra Stati (cap. 2.1.7 All. Conv. SAR).  ↩︎
  53.  Per i dati rilevanti e alcune valutazioni critiche v. Tani, Ricerca e soccorso nel Mediterraneo centrale tra diritto internazionale e nuove (discutibili) qualificazioni del fenomeno migratorio, in Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, n. 3, 2019, p. 10. ↩︎
  54.  Il testo del memorandum d’intesa figura nel Portale ATRIO – Archivio dei trattati internazionali online, curato dal Ministero italiano degli affari esteri e della cooperazione internazionale. ↩︎
  55.  “La parte italiana provvede al finanziamento delle iniziative menzionate in questo Memorandum o di quelle proposte dal comitato misto indicato nell’articolo precedente senza oneri aggiuntivi per il bilancio dello Stato italiano rispetto agli stanziamenti già previsti, nonché avvalendosi di fondi disponibili dall’Unione Europea, nel rispetto delle leggi in vigore nei due paesi” (art. 4). ↩︎
  56.  In Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana n. 189 del 16 agosto 2018. ↩︎
  57.  Lo scambio di note figura sul portale citato alla nota 54. ↩︎
  58.  Anche i tre accordi da ultimo richiamati figurano sul portale citato alla nota 54. ↩︎
  59. Letteralmente: “Riaffermando la ferma determinazione di cooperare per individuare soluzioni urgenti alla questione dei migranti clandestini che attraversano la Libia per recarsi in Europa via mare, attraverso la predisposizione dei campi di accoglienza temporanei in Libia, sotto l’esclusivo controllo del Ministero dell’Interno libico, in attesa del rimpatrio o del rientro volontario nei paesi di origine, lavorando al tempo stesso affinché i paesi di origine accettino i propri cittadini ovvero sottoscrivendo con questi paesi accordi in merito”. ↩︎
  60. Cfr. quanto si dirà in questo stesso par. a proposito dell’art. 16 del progetto di articoli del 2001 della Commissione del Diritto Internazionale sulla responsabilità degli Stati per atti internazionalmente illeciti. ↩︎
  61.  United Nations Support Mission in Libya & United Nations Human Rights Office of the High Commissioner, Desperate and Dangerous: Report on the Human Rights Situation of Migrants and Refugees in Libya, 20 dicembre 2018, p. 4. ↩︎
  62.  Ibidem, p. 5. ↩︎
  63.  Ibidem, p. 6. ↩︎
  64. “Selon les requérants, les manœuvres effectuées par le navire libyen provoquèrent un mouvement d’eau qui aurait causé le décès de plusieurs personnes se trouvant à bord du canot, celles-ci ayant été brusquement projetées dans l’eau. Toujours d’après les requérants, l’équipage du Ras Jadir ne fournit pas de gilets de sauvetage aux naufragés et frappa avec des cordes les personnes qui étaient à la mer, les menaçant en outre avec des armes” (par. 11 della decisione). ↩︎
  65.  Ils affirment avoir été blessés par les membres de l’équipage libyen qui auraient essayé de les retenir sur le Ras Jadir” (par. 14). ↩︎
  66.  I quindici ricorrenti presi a bordo della Sea Watch 3 furono sbarcati in Italia. ↩︎
  67.  “The High Contracting Parties shall secure to everyone within their jurisdiction the rights and freedoms defined in Section I of this Convention”. ↩︎
  68. United Nations, Yearbook of the International Law Commission, 2001, vol. II, parte 2. ↩︎
  69. Misterioso al quadrato, perché nello stesso tempo astratto e ambiguo. ↩︎
  70. Inspiegabilmente, la Corte scarta senza un’adeguata spiegazione tale interpretazione: “Par ailleurs, la Cour ne saurait souscrire au raisonnement des requérants selon lequel le soutien économique et logistique apporté par l’Italie à la Libye dans la gestion de l’immigration s’analyserait, à l’instar du soutien militaire, économique et politique fourni à une administration locale subordonnée, en l’exercice d’une juridiction extraterritoriale de la part de l’État défendeur” (par. 93 della decisione). Tuttavia, la complicità non implica necessariamente una rapporto di subordinazione tra i complici. ↩︎
  71. “Cela dit, la Cour rappelle, d’une part, que l’exercice par un État défendeur de sa juridiction est une condition sine qua non pour que celui-ci puisse être tenu pour responsable des actes ou omissions à lui attribuables et, d’autre part, que la question de savoir si un État contractant exerce ou non un contrôle effectif sur un territoire hors de ses frontières est une question de fait. Ainsi, pour décider s’il y a exercice de la juridiction extraterritoriale d’un État, la Cour doit se convaincre au-delà de tout doute raisonnable que les zones concernées se trouvaient sous le contrôle effectif de l’État en question” (par. 96).  ↩︎
  72. “Or, le soutien économique et technique apporté par l’Italie à l’État libyen dans le cadre des accords bilatéraux n’est pas de nature à amener la Cour à présumer que les autorités libyennes étaient dans une situation de dépendance à un degré tel que la zone maritime internationale située au large des côtes libyennes se trouvaient sous le contrôle effectif et sous l’influence décisive de l’Italie (…). Par ailleurs, contrairement aux requérants, la Cour ne décèle non plus d’éléments permettant de considérer qu’à la suite des accords bilatéraux passés entre les deux pays, l’Italie aurait assumé les prérogatives de puissance publique de la Libye en matière d’immigration en vertu d’une forme de consentement, d’invitation ou d’acquiescement du gouvernement libyen” (par. 97). ↩︎
  73.  Par. 98. ↩︎
  74. “La Cour note qu’une telle interprétation de la notion de ‘juridiction’ au sens de l’article 1 de la Convention puisse paraître insatisfaisante aux yeux des requérants. Elle ne perd pas de vue que ceux-ci ont été confrontés à une situation dramatique, dans laquelle plusieurs personnes ont perdu la vie, y compris les enfants de deux des intéressés, et qu’ils courraient en outre le risque d’être renvoyés en Libye, pays auquel ils reprochent un non-respect systématique des droits de l’homme. Concernant ce dernier point, la Cour ne peut que noter que l’ensemble des rapports d’organes internationaux et d’ONG [= organisations non gouvernementales] dont elle dispose démontrent qu’à l’époque des faits, les demandeurs d’asile, réfugiés et migrants étaient exposés en Libye à un risque de torture, à l’esclavage et à des discriminations, si bien que la situation dans ce pays n’était pas plus favorable que celle qu’elle a constatée dans l’affaire Hirsi Jamaa et autres,précitée” (par. 109). ↩︎
  75. “La Cour rappelle cependant qu’elle n’est compétente que pour contrôler le respect de la Convention. C’est en effet la Convention que la Cour a pour mission d’interpréter et d’appliquer. La Cour n’a dès lors pas compétence pour contrôler le respect des autres traités internationaux ou des obligations internationales qui ne découlent pas de la Convention” (par. 113). ↩︎
  76.  Cfr. supra, par. 1. ↩︎
  77. Par. 4.5 delle considerazioni. Secondo l’art. 2, par. 1, del Patto, “Each State Party to the present Covenant undertakes to respect and to ensure to all individuals within its territory and subject to its jurisdiction the rights recognized in the present Covenant (…)”. Secondo l’art. 1 del Protocollo facoltativo (New York, 1966), “a State Party to the Covenant that becomes a Party to the present Protocol recognizes the competence of the Committee to receive and consider communications from individuals subject to its jurisdiction who claim to be victims of a violation by that State Party of any of the rights set forth in the Covenant. (…)”.
    ↩︎
  78. Par. 8.5. ↩︎
  79. Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana, 10 dicembre 2024, n. 289. ↩︎
  80.  Guterres, Aprire le porte ai rifugiati con lo spirito del dopoguerra, Il Corriere della Sera, 25 aprile 2015. ↩︎

Tullio Scovazzi è Professore di diritto internazionale all’Università di Milano-Bicocca.

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