Daniela Padoan: «Come valuta la decisione della presidente del Consiglio di imporre la declinazione del suo ruolo al maschile?»
Marilisa D’Amico: «La presidente del Consiglio che, pur rivendicando in ogni occasione il suo essere “donna e madre”, percepisce come diminutio l’uso del genere grammaticale di appartenenza, non fa, purtroppo, che alimentare la convinzione che il protagonismo femminile sia accettabile solo se inscritto nel simbolico maschile».
DP: «Si dimostra però molto sensibile al tema della violenza sulle donne. Nel nostro paese i femminicidi sono una ferita continua, resa ancora più sconvolgente dalla tendenza dei media all’empatia con le ragioni dell’aggressore maschio (him-pathy, secondo un efficace neologismo), sempre che non si tratti di migranti, stranieri o appartenenti a comunità di recente naturalizzazione. Anche lo spazio spropositato che giornali e televisioni dedicano a rovistare nei fatti di cronaca nera, recenti o riesumati dal passato, che vedono le donne come vittime costituisce ormai uno specifico genere di infotainment. Non le sembra un sintomo di degrado culturale che poco per volta cambia il volto della nostra democrazia?»
MDA: «Un giornalismo che fa audience sul clamore di questi reati non solo perde la sua funzione di informazione e sensibilizzazione dell’opinione pubblica, ma alimenta stereotipi, distoglie l’attenzione dalle responsabilità sistemiche e coltiva, anche involontariamente, una narrazione della tragedia. Leggere o ascoltare i commenti che seguono i casi di femminicidio è, a volte, un tuffo nel passato. Si colpevolizzano le vittime, si ricostruiscono le presunte motivazioni degli assassini, si umanizza chi toglie la vita e, così facendo, si sottrae dignità a chi la vita l’ha persa. Contravvenendo di fatto all’articolo 3 della Costituzione, per cui “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso».
DP: «Come giudica il disegno di legge che istituisce il reato di femminicidio e lo sanziona con la pena dell’ergastolo?
MDA: «Il disegno di legge intende tipizzare giuridicamente un fenomeno specifico: l’uccisione di “una donna in quanto donna”. Si va ad intervenire, ancora una volta, troppo tardi, quando il reato è già stato commesso. Conosciamo i numeri: sono già 24 i femminicidi dall’inizio del 2025 e abbiamo chiuso il 2024 con 113 vittime. Sono storie di violenze, di donne vittime di abusi ripetuti e familiari, nella maggior parte dei casi, ma anche di una cultura patriarcale, e di diritti delle donne a cui la società fa sempre più fatica a dare nome e dignità. È su questo che è più urgente cercare risposte come collettività. Così come si dovrebbe agire per rafforzare la rete territoriale di servizi a tutela delle donne, la formazione degli operatori, ogni strumento culturale ed educativo che possa far conoscere e superare gli stereotipi di genere alla base dei comportamenti violenti, ossessivi e tossici che portano ai femminicidi».
DP: «Possiamo trarre un segnale da alcune pronunce di tribunali, emesse anche da giudici donne, che sembrano non tener conto della specificità della violenza di genere nell’interpretazione del diritto?»
MDA: «Sui giudici bisognerebbe fare più formazione. Spesso, nelle aule dei tribunali come nelle decisioni, le donne sono vittime della cosiddetta “vittimizzazione secondaria”; subiscono cioè una doppia violenza sia nel modo in cui vengono interrogate sia nella rappresentazione della situazione nel contenuto delle sentenze. Ricordo che l’Italia è stata condannata per questo dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (ricorso n. 5671/16 causa J.L. contro Italia)».
DP: «La retorica del “siamo tutti responsabili” declinata da molti uomini, così come l’analisi di una presunta debolezza del patriarcato che reagisce davanti alla forza femminile, sembra offrire una via di fuga dalla responsabilità politica e culturale di fronte al progressivo oscuramento di conquiste che credevamo ottenute per sempre. Senza la straordinaria stagione di libertà e affermazione dei diritti civili portata dal Sessantotto, dagli anni Settanta, dal femminismo, non avremmo la legge 898 sul divorzio, né la legge 194 che riconobbe alle donne il diritto di decidere dell’interruzione volontaria di gravidanza, fino ad allora punita con la reclusione da due a cinque anni».
MDA: «Vediamo messe in discussione non solo le conquiste ottenute a partire degli anni Settanta, ma anche la straordinaria piattaforma di diritti femminili inseriti nella nostra Costituzione e non ancora del tutto realizzati. Sul corpo della donna, limitato e soggetto a leggi restrittive fin dall’antichità, si torna immancabilmente a legiferare nei governi conservatori e dispotici. È all’opera una profonda restaurazione che passa dalle discussioni sull’aborto – una legge svuotata di significato a fronte di migliaia di medici obiettori – e dalla legge 40, che nella sua versione originaria vedeva il corpo della donna come oggetto assoggettato ai diritti dell’embrione, contro la sua stessa salute».
DP: «La ritrattazione della libertà delle donne va di pari passo con la contrazione dello spazio pubblico: non solo diseguali opportunità sul mercato del lavoro, in termini di occupazione, retribuzione e ruolo, ma anche minore visibilità mediatica e sempre più difficoltoso riconoscimento di autorevolezza scientifica».
MDA: «Il principio di parità tra i sessi è una “questione” costituzionale che ci interroga da anni. Pensiamo alla storia della democrazia italiana, di fatto declinata al maschile, poiché agli uomini è stata affidata la realizzazione concreta, nei primi anni dello Stato repubblicano, della Carta costituzionale. Ad oggi, una parità ambigua e patriarcale è ancora ravvisabile in tanti, troppi ambiti: lavoro, politica, vita familiare. I segni di un clima ostile alla libertà femminile ci vengono anche da oltreoceano, dove l’ordine esecutivo n. 14168, firmato da Donald Trump nel primo giorno del suo mandato, dal titolo “Difendere le donne dall’estremismo dell’ideologia di genere e ripristinare la verità biologica nel governo federale”, smaschera il punto di vista maschile. Le donne si vorrebbero “tutelate” da supposti pericoli, quando il pericolo più grande, per noi, è il mancato riconoscimento della necessità, pienamente democratica, di raggiungere una reale uguaglianza tra i sessi non solo sul piano formale, ma anche e soprattutto su quello sostanziale. In questo senso, bisognerebbe orientare la cultura e la formazione – e soltanto poi, le norme – allo smantellamento del simbolico maschile, che oscura la parificazione tra i sessi, senza con questo nulla togliere alla differenza».
Osservatorio Autoritarismo
Il luogo dove agire insieme per comprendere e fermare il processo di svuotamento della democrazia costituzionale e il progressivo attacco alla libertà di espressione e manifestazione.
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Tra i primi firmatari Alessandro Barbero, Judith Butler, Nancy Fraser, James Galbraith, Luigi Manconi, Vito Mancuso, Michela Marzano, Giorgio Parisi, Gustavo Zagrebelsky.
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