Giustizia: i magistrati dalla parte dei cittadini

16 Aprile 2025

Articolo pubblicato su Micropolis
Mauro Volpi, 2 Apr 2025

Titolo originale Giustizia: i magistrati dalla parte dei cittadini

Questo contenuto fa parte di Osservatorio Autoritarismo

Dopo lo sciopero di febbraio, il 15 aprile si è tenuto un incontro tra una delegazione dell’Associazione nazionale magistrati, guidata dal presidente Cesare Parodi, e il ministro della Giustizia Carlo Nordio. Alla fine, Parodi ha ribadito la distanza di posizioni e aggiunto che “il governo andrà avanti e noi faremo la nostra campagna di informazione in prospettiva referendaria”. I motivi della contrarietà dei giudici sono profondi e toccano i delicati equilibri della gestione della giustizia e del suo rapporto con la società.

Il 27 febbraio l’Associazione nazionale magistrati ha indetto uno sciopero nazionale contro il disegno di legge Nordio di revisione del titolo IV parte seconda della Costituzione, già approvato dalla Camera nella prima delle quattro delibere necessarie (due per ogni camera ad intervallo di almeno tre mesi) previste dall’art. 138 Cost. Lo sciopero ha avuto l’adesione dell’80%. In ogni Distretto l’ANM ha indetto assemblee aperte alla partecipazione del pubblico e all’intervento di giuristi. A Perugia ciò è avvenuto la mattina del 27 presso la sede della Corte d’Appello con la partecipazione di un alto numero di magistrati e di vari cittadini e studenti. Gli interventi inziali sono stati tenuti da chi scrive, da Sergio Sottani Procuratore generale a Perugia, da Carlo Fiorio professore di Procedura penale nell’Università di Perugia e da Carlo Orlando avvocato Presidente del Consiglio dell’ordine di Perugia. La novità rispetto a scioperi del passato è rappresentata proprio dall’apertura verso la società volta a dimostrare che il ddl Nordio non colpisce affatto i presunti “privilegi” di una categoria di dipendenti pubblici, ma pregiudica le garanzie dei diritti dei cittadini e delle persone.

La cosiddetta “riforma” della giustizia viene portata avanti in un contesto nel quale quasi ogni giorno i massimi esponenti del Governo attaccano la magistratura e singoli magistrati, accusati di non collaborare e di prendere decisioni politiche in quanto sgradite alla maggioranza. Tra le tante va segnalata la condanna per divulgazione di un atto riservato del sottosegretario alla Giustizia Del Mastro, che secondo Meloni e soci avrebbe dovuto essere assolto dal Tribunale di Roma come aveva chiesto il p.m., alla faccia della separazione delle carriere che dovrebbe garantire l’indipendenza del giudice. Inoltre il ddl costituzionale sulla giustizia è stato proceduto e accompagnato da leggi ordinarie e ddl, come quello sulla sicurezza approvato alla Camera, che sono ispirati a una logica repressiva e di moltiplicazione dei reati e delle pene, a carico soprattutto di chi protesta e dissente e lesivi delle garanzie di diritti fondamentali.

Il ddl costituzionale non contribuisce in alcun modo a rispondere ai problemi reali della giustizia, a cominciare da quello dell’eccessiva durata dei processi, la cui soluzione richiederebbe l’aumento delle risorse e degli organici sia dei magistrati sia del personale amministrativo, l’informatizzazione da attuare seriamente e non con improvvisazioni come la fallimentare app inviata dal ministero alle Corti d’appello, la semplificazione di alcune norme processuali, la revisione della geografia degli uffici giudiziari. Tre sono le proposte negative che lo caratterizzano: la separazione delle carriere tra giudici e p.m., lo stravolgimento del Consiglio superiore della magistratura, l’istituzione di un’Alta Corte di disciplina.

La separazione delle carriere proposta ha una caratterizzazione fortemente ideologica, ispirata al berlusconismo.

Si dice che sarebbe imposta dall’attuazione dell’art. 111 c. 2, introdotto nella Costituzione nel 1999, che stabilisce lo svolgimento del processo “nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità davanti a giudice terzo e imparziale”. Tale principio non comporta affatto la separazione, tesi che richiederebbe la distinzione non delle carriere ma di due ordini, mentre il ddl mantiene un ordine unico della magistratura formato da giudici e p.m. Il principio accusatorio impone invece la netta distinzione di funzioni tra giudici e p.m. Ma questa in Italia è stata pienamente attuata.

Inoltre il passaggio tra una funzione e l’altra è stato progressivamente ridotto dal 2006 fino alla previsione di un unico passaggio nel corso della carriera nella legge n. 71/2022. I dati attestano che negli ultimi anni il passaggio ha riguardato solo lo 0,3% dei magistrati. A tal proposito va detto che la legislazione in parola è stata anche troppo restrittiva, se si pensa in particolare a quanto possa influire positivamente l’esperienza precedente come giudice nello svolgimento del ruolo di p.m. e all’obbligo di rispettare rigorose condizioni professionali, funzionali e territoriali. Smentita dai dati è anche l’affermazione per cui i giudici non sarebbero indipendenti in quanto condizionati dai p.m.: nell’ultimo anno i processi penali si sono conclusi in quasi il 50% dei casi con l’assoluzione dell’imputato, nella grande maggioranza dei quali i giudici non hanno accolto la richiesta dei p.m.

Allora qual è il vero obiettivo della separazione?

È la volontà di cambiare la natura del pubblico ministero, che non sarebbe più un magistrato e una “parte imparziale” in quanto deve tenere conto anche delle prove a favore e richiedere se non ritiene convincenti quelle a carico l’archiviazione del fascicolo per l’inquisito o l’assoluzione per l’imputato. Il distacco dalla cultura della giurisdizione comporterebbe la trasformazione dei p.m. in un corpo di “superpoliziotti”, arrivando ad assecondare anziché contrastare la tendenza di qualche p.m. ad innamorarsi troppo della tesi accusatoria. Ciò è confermato dalla previsione di un distinto Consiglio superiore composto per due terzi dei componenti da p.m., mentre nel CSM attuale i rappresentanti dei p.m. sono solo cinque sui venti magistrati elettivi. Il passo successivo, apertamente svelato da Del Mastro in un’intervista al Foglio del 14 marzo, sarebbe quello della sottoposizione del p.m. all’esecutivo o della abolizione del principio della obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale, che andrebbe a scapito della garanzia dei diritti esposti a indirizzi politici stabiliti dalla maggioranza parlamentare e alle direttive del Governo.

Ancora più negativo è il progetto di stravolgere il modello di CSM disegnato dalla Costituzione.

L’obiettivo è sostituire a un organo di rilievo costituzionale chiamato a garantire l’indipendenza e l’autonomia della magistratura, un soggetto meramente amministrativo e fortemente indebolito. In questa direzione va innanzitutto la divisione in due Consigli per giudici e p.m., come se le decisioni relative alla carriera e la suddivisione delle competenze operata a livello territoriale possano funzionare se gli uffici giudicanti e le procure sono vasi non comunicanti.

In secondo luogo la composizione dei due Consigli viene lasciata totalmente al caso per i magistrati, per i quali è previsto un sorteggio secco, e parzialmente per i membri laici, sorteggiati entro un elenco di professori universitari e di avvocati con quindici anni di anzianità predisposto dal Parlamento in seduta comune all’inizio della legislatura. Per i magistrati il sorteggio viene giustificato dalla necessità di colpire le associazioni della magistratura. Qui va detto che indubbiamente negli ultimi decenni le correnti hanno avuto una degenerazione di tipo sindacal-corporativo nell’assegnazione degli incarichi, mentre a metà degli anni Sessanta avevano contribuito ad acculturare alla conoscenza e all’applicazione della Costituzione una magistratura in parte proveniente dal periodo liberale e da quello fascista.

La riforma necessaria dell’associazionismo deve puntare non ad accentuare gli aspetti corporativi e carrieristici, ma alla riscoperta di un ruolo politico delle associazioni, inteso come confronto anche ideale sulla giustizia e sul rapporto tra giustizia e società. Il sorteggio colpirebbe al cuore il pluralismo e la rappresentatività dei Consigli, consentendo l’accesso di magistrati anche non in grado di esercitare adeguatamente la funzione di governo dell’ordine giudiziario. Ciò comporterebbe l’impossibilità per l’insieme della magistratura di riconoscersi in organi di cui non hanno designato i componenti, il che non avviene in nessun altro ordine professione sia pubblico sia privato. Non meno negativo è il sorteggio temperato previsto per i membri laici, per i quali verrebbe meno l’elezione con una maggioranza qualificata dei tre quinti dei componenti e, dopo il secondo scrutinio, dei votanti, che richiede un accordo equilibrato tra maggioranza e opposizioni. In terzo luogo vengono inevitabilmente indebolite le competenze non amministrative attribuite al CSM, come le proposte e i pareri in materia di giustizia rivolti al ministro della giustizia, e gli viene sottratta la funzione relativa ai provvedimenti disciplinari.

Il terzo aspetto negativo è l’attribuzione della competenza in materia disciplinare a un’Alta Corte, che intanto opererebbe solo per i magistrati ordinari e non per quelli speciali (amministrativi, contabili e tributari), com’era stato proposto in passato. La sottrazione al CSM della competenza sarebbe giustificata dal buonismo dell’attuale sezione disciplinare. L’accusa non tiene conto del fatto che la sezione è composta per un terzo da membri laici ed è presieduta dal Vicepresidente, eletto tra i membri laici, ma soprattutto prescinde dai dati reali, secondo i quali i procedimenti disciplinari e anche le condanne sono molto più numerosi di quanto avviene in qualsiasi altro ordine burocratico o professionale. La nomina di tre membri spetterebbe al Presidente della Repubblica, tre sarebbero laici sorteggiati su un elenco stabilito dal Parlamento e i nove magistrati (sei giudici e tre p.m.) sarebbero sorteggiati tra i magistrati con venti anni di anzianità e che siano o siano stati magistrati della Corte di Cassazione con la reintroduzione di un principio gerarchico escluso dall’art. 103, c. 3 della Costituzione. L’impugnazione delle sentenze sarebbe ammessa solo dinanzi alla stessa Alta Corte e quindi sottratta alla Corte di Cassazione.

L’accelerazione imposta dal Governo all’approvazione del ddl dimostra lo volontà di non avere nessun confronto né con le opposizioni né con la magistratura e di arrivare a un referendum utilizzato come un plebiscito contro la magistratura. Quindi chi si oppone a questa controriforma dovrà sottolineare la compressione delle garanzie dei diritti fondamentali che deriverebbe da una giustizia assoggettata alla politica e al Governo. 

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