In difesa della salute e dell’ambiente: sull’Ilva di Taranto la parola al Tribunale di Milano

17 Gennaio 2025

Enzo Di Salvatore Consiglio di Presidenza Libertà e Giustizia

Nella foto un momento di una delle manifestazioni promosse dall'associazione Genitori tarantini

I giudici dovranno esprimersi sulle richieste fatte da un’associazione di cittadini che puntano alla sospensione dell’attività degli impianti e ai risarcimenti per i danni alla salute.

Il prossimo 6 febbraio, il Tribunale di Milano si pronuncerà su due ricorsi relativi all’ex Ilva di Taranto, presentati, rispettivamente, dall’Associazione Genitori tarantini e da 136 cittadini. 

Con il primo, l’Associazione chiede di sospendere l’esercizio degli impianti dello stabilimento siderurgico fino a quando non saranno completamente attuate le prescrizioni recepite dal piano ambientale previsto dall’autorizzazione integrata ambientale, scaduta, in verità, il 23 agosto 2023.
Con il secondo, invece, i cittadini chiedono un risarcimento per i danni alla salute provocati nel corso degli anni dalle attività dello stabilimento tarantino.

La decisione più difficile da assumere riguarda il primo ricorso, soprattutto alla luce di una sentenza del 25 giugno 2024 della Corte di giustizia che, sollecitata a pronunciarsi dallo stesso Tribunale di Milano, ha nei fatti stabilito che la direttiva europea sulle emissioni industriali (Direttiva 2010/75/UE) debba essere applicata alla lettera. Essa, infatti, ha chiarito quanto segue:
1) lo Stato italiano è tenuto a valutare sempre, ex ante ed ex post, gli impatti che le attività industriali hanno sulla salute e non solo sull’ambiente;
2) oltre alle sostanze inquinanti prevedibili, lo Stato italiano deve considerare tutte le sostanze inquinanti: dunque, persino quelle «oggetto di emissioni scientificamente note come nocive», che possano essere emesse anche solo potenzialmente dall’impianto siderurgico;
3) il diritto dell’Unione europea non consente allo Stato italiano di prorogare il termine concesso all’ex Ilva per conformarsi alle misure previste dalla direttiva europea quando siano stati individuati pericoli gravi e rilevanti per l’integrità dell’ambiente e della salute umana; in una evenienza di questo tipo, l’attività dello stabilimento va sospesa. 

Ebbene, il punctum dolens della questione è che i pericoli gravi e rilevanti per la salute sono stati chiaramente acclarati da tempo e, ciò nonostante, il governo nazionale è intervenuto nel corso degli anni con una serie di decreti-legge che hanno recato una disciplina speciale in favore dell’ex Ilva di Taranto e, in generale, degli stabilimenti qualificati di «interesse strategico nazionale». In questo modo, è stato possibile prorogare per circa undici anni le attività dello stabilimento tarantino, lasciando che sulle ragioni della tutela dell’ambiente e della salute prevalessero quelle dell’economia; e ciò si porrebbe in contraddizione con il diritto dell’Unione europea, che invece impone che tutti gli interessi in gioco – che si sostanziano, essenzialmente, in tre diritti fondamentali: il lavoro, la salute e l’iniziativa economica del privato – si mantengano in equilibrio, senza che il legislatore italiano possa a ciò derogarvi. 

In sostanza, da un lato vi sono il legislatore italiano e la Corte costituzionale, che fino ad oggi ha considerato legittime le norme speciali dettate per l’ex Ilva di Taranto; dall’altro, il legislatore europeo e la Corte di giustizia, che considera niente affatto legittime le norme speciali dettate per l’ex Ilva di Taranto; in mezzo si colloca, invece, il Tribunale di Milano, che deve decidere cosa fare: se applicare la direttiva e dar seguito con ciò a quanto chiede la Corte di giustizia oppure se applicare le norme speciali e seguire così l’orientamento della Corte costituzionale. La prima soluzione è sempre praticabile, la seconda no. Almeno non direttamente dal Tribunale di Milano. E provo a spiegarne il perché. 

Gli atti normativi dell’Unione europea prevalgono sempre sugli atti normativi dello Stato. E quando i giudici italiani si trovassero dinanzi a due atti (europeo e nazionale) contrastanti tra loro, devono necessariamente applicare quello dell’Unione europea. Questa regola – secondo quanto ha stabilito da tempo la nostra Corte costituzionale – conosce una sola eccezione: quando il giudice sospetta che il contrasto concerna i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale o i diritti fondamentali della persona umana, esso non deve applicare l’atto normativo europeo, bensì rivolgersi alla Corte costituzionale, affinché verifichi effettivamente se l’atto europeo violi o no i principi o i diritti. Nel caso in cui si constatasse la violazione di un certo principio o di un certo diritto fondamentale, la Corte adotterebbe una sentenza di illegittimità costituzionale: non già dell’atto normativo europeo (non potrebbe farlo), bensì della legge di esecuzione del trattato europeo nella parte in cui rende possibile la violazione del principio o del diritto fondamentale. In altri termini, applicherebbe i c.d. controlimiti (alla prevalenza del diritto dell’Unione europea). 

Ora, se si leggono le sentenze che, a partire dal 2013, la Corte costituzionale ha adottato sull’ex Ilva di Taranto e, più in generale, sugli stabilimenti di interesse strategico nazionale, appare chiaro come la Corte costituzionale sia convinta che lo Stato italiano possa tranquillamente intervenire in materia dettando norme speciali quando ragioni di necessità impongano di «salvaguardare la continuità produttiva in settori strategici per l’economia nazionale e per garantire i correlati livelli di occupazione»; essa, anzi, ha concluso che «la necessità di intervenire urgentemente in questioni di pubblica utilità, con misure ad hoc (…) non appare priva di giustificazione sul piano costituzionale»: come se, appunto, all’applicazione del diritto dell’Unione europea detta necessità, convertitasi in un regime derogatorio, possa essere intesa alla stregua di un controlimite all’applicazione (e dunque alla prevalenza) del diritto dell’Unione europea. Ma se così è, allora nelle mani del Tribunale di Milano residuerebbe una sola alternativa: o applicare la direttiva europea (e, dunque, sospendere «l’esercizio dell’installazione», non applicando le norme speciali dello Stato italiano) oppure sollevare la questione di legittimità costituzionale della legge di esecuzione del trattato affinché la Corte costituzionale – in coerenza con l’orientamento sino ad oggi seguito – dichiari l’illegittimità di quella legge nella parte in cui consente che la direttiva prevalga sulla disciplina speciale dell’ex Ilva di Taranto: tertium non datur.

Professore ordinario di Diritto costituzionale Università degli studi di Teramo. Ha scritto su diritto dell’ambiente, federalismo, Unione europea.

È direttore del Centro di ricerca “Transizione ecologica, sostenibilità e sfide globali” presso l’Università degli Studi di Teramo e Presidente del corso di laurea in diritto dell’ambiente e dell’energia presso la stessa Università.

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