È stimolante riuscire a parlare di un problema tanto difficile e complesso, quanto sconcertante per il modo con cui è stato montato: il discorso del referendum sull’autonomia differenziata. Per parlarne occorre collegarci anche con altri aspetti delle riforma costituzionale che si vuole completare da parte della destra che è al potere; che ha vinto le elezioni; e che si muove su tre fronti tutti e tre molto strettamente collegati.
Il primo fronte è quello del cosiddetto premierato forte. È partito con l’idea di stabilire una bipolarità tra il Presidente della Repubblica e il Presidente del Consiglio; bipolarità apparente perché in realtà il Presidente del Consiglio ne esce con molto più potere di quello che residua al Presidente della Repubblica. E questo è il primo obiettivo che ci si pone per la riforma.
Il secondo obiettivo che ci si pone è quello della autonomia differenziata, cioè dell’attribuire alle regioni una serie di poteri legislativi che non avevano in precedenza le regioni ordinarie e che si sono allargati e concessi loro a dismisura, tra l’altro con un’ulteriore complicazione che riguardano i cosiddetti LEP: una formula misteriosa per nascondere i problemi relativi a trovare le risorse per affrontare e per creare le prestazioni uguali a tutti. Con l’entrata in vigore di quella legge, vi è un’altra serie di competenze che le regioni possono chiedere da subito al governo per aumentare la loro capacità di movimento e di azione.
La terza riforma collegata alle prime due riguarda il terzo aspetto, il terzo settore della realtà costituzionale: la magistratura, cioè l’organismo di controllo, che le leggi elaborate dal Parlamento sulla base dei principi indicati dalla Costituzione vengano effettivamente applicate e rispettate.
Queste tre settori, questi tre obiettivi, sono stati equamente divisi; a ciascuno la sua parte. Il partito dei Fratelli d’Italia si è occupato e si occupa soprattutto del problema di quello che doveva essere la bipolarità tra il Presidente della Repubblica e Presidente del Consiglio e che è diventato il premierato forte. È il rafforzamento del Presidente del Consiglio con poteri molto forti al quale corrisponde, inevitabilmente, una diminuzione corrispondente del potere assegnato al Presidente della Repubblica dalla Costituzione.
Per questa prima riforma, quella del premierato forte, la strada è più impegnativa; richiede una modifica costituzionale per la quale i tempi e il modo sono più complessi di quelli che occorrono per una legge ordinaria.
La seconda modifica è affidata alla Lega che porta avanti una bandiera da sempre sventolata: l’autonomia differenziata che sta a significare che tutte le regioni possono aumentare a dismisura la loro capacità e la loro competenze di emanare leggi in diverse e numerose materie.
La terza bandierina è quella che è venuta fuori per ultima. Non è meno importante, ma è meno emblematica in questo momento: è la modifica dell’ordinamento della magistratura. Il potere di controllo dell’applicazione delle leggi emanate dal Parlamento sulla base delle indicazioni proposte dalla Costituzione e garantite dalla Corte costituzionale e applicate dal governo e dall’amministrazione.
È un problema in cui tutti gli elementi si connettono tra di loro ed è buffo vederli scomporre dicendo “Tu ti occupi della bandierina della Autonomia differenziata, cioè dei poteri delle regioni” alla Lega che ha una vocazione nota in questo campo. Ai Fratelli d’Italia che hanno espresso il Presidente del Consiglio si dice “Voi vi occupate del rafforzamento del premierato”. La terza acquisizione dell’alleanza di governo cioè Forza Italia, si occupa del problema della magistratura; la separazione dei poteri tra giudici e pubblici ministeri e tutta un’altra serie di grandi e belle e importanti cose che si vogliono attuare di cui non parleremo perché non c’è tempo.
Parleremo solo per poco di quello che è il premierato forte, cioè della bandierina sventolata dal partito di Fratelli d’Italia, per dedicarci un po’ di più non ai vari problemi tecnici dell’autonomia differenziata. Sono tanti; sono difficilmente comprensibili; sono stati resi ulteriormente incomprensibili dal modo con cui si è arrivati a varare, a proporre l’obiettivo di aumentare i poteri delle regioni.
una demolizione scientifica della Costituzione non si può fare prendendola in blocco e gettandola via. Si comincia a rosicchiarla pezzetto per pezzetto e si va avanti.
C’è una regola fondamentale, quella dei vasi comunicanti. Se aggiungi potere a una parte quel potere lo devi levare a un’altra parte. Se aggiungi potere al premier – premierato forte, come dice il termine – il corrispettivo è la diminuzione dei poteri del Presidente della Repubblica.
Lo dico subito perché poi non entriamo in questo tema. Il Presidente va a perdere prima di tutto i due unici strumenti effettivi di intervento politico che gli competono nella sua posizione: la nomina del Presidente del Consiglio dopo le elezioni da un lato; lo scioglimento delle Camere quando va in polvere o si dissolve l’unità di una maggioranza che tenga in piedi il Governo dall’altro lato. Le finalità sono bellissime: maggior stabilità al governo; maggior autonomia alle regioni. Il problema è che tra il dire e del fare c’è di mezzo un mare di complicazioni.
Proverò a sintetizzarle. È importante tener presente che una demolizione scientifica della Costituzione non si può fare prendendola in blocco e gettandola via. Si comincia a rosicchiarla pezzetto per pezzetto e si va avanti. Qualcuno si occupa di demolire o di indebolire la figura del Presidente della Repubblica; è evidente che quella figura si indebolisce molto quando gli si affianca un Presidente del Consiglio che non è più eletto dal Parlamento – come è eletto il Presidente della Repubblica dal Parlamento in seduta congiunta – ma direttamente dagli elettori, dal popolo.
Quando poi si levano al Presidente questi due poteri fondamentali, che sono la forza con cui può far valere la sua posizione di garante della Costituzione, gli si è levato tutto il plafond e lo si lascia ad un compito di tagliare i nastri, inaugurare le mostre, dire le belle parole. È ben diverso dal compito che il Presidente della Repubblica ha: garantire la Costituzione e l’equilibrio tra i poteri dello Stato. Proprio perché è un potere super partes (rectius, al di là delle parti e non super) delle polemiche delle parti e della politica, garantisce a tutti il rispetto della Costituzione e l’equilibrio tra i vari poteri che, come sapete, non vanno molto d’accordo fra di loro (potere legislativo, potere giudiziario e governo).
Entriamo nel tema non più del premierato, non più della magistratura, che sono gli altri due settori, la bandierina del Tricolore sventolata da Fratelli d’Italia e la bandierina della imparzialità e della giustizia sventolata da Forza Italia. È la bandierona dell’autonomia delle varie regioni. Perché questo problema? Perchè abbiamo un sistema costituzionale che ha introdotto le regioni come momento fondamentale di rispetto e di attuazione delle autonomie in una Repubblica unitaria. L’articolo 5 della Costituzione lo afferma con molta chiarezza: “la Repubblica una e indivisibile riconosce e promuove le autonomie locali. Attua nei servizi che dipendono dallo Stato il decentramento; adegua i principi e i metodi della legislazione, alle esigenze dell’autonomia e del decentramento”.
Questa impostazione si articolava in una struttura delle regioni fortemente legata ai tempi in cui nacque la Costituzione nel 1948, alla fine una guerra disastrosa, di una sconfitta, di una Resistenza al nazista occupante e al fascista che gli teneva bordone in una situazione molto drammatica da cui l’Italia ha saputo uscire anche e soprattutto grazie alla Liberazione e alla Resistenza.
Il primo Risorgimento aveva garantito all’Italia l’unità; il secondo Risorgimento doveva garantire e ha garantito all’Italia la Costituzione repubblicana, l’abbandono della forma monarchica e la formulazione e realizzazione della Costituzione come impalcatura, come premessa di una convivenza conforme ai principi e ai diritti fondamentali della Costituzione stessa. La Costituzione si è preoccupata di definire, ad esempio, quali sono le regioni e quali erano – sono molto cambiati – nella Costituzione i poteri delle regioni: le cinque a Statuto speciale per la loro specificità e le altre a Statuto ordinario.
I primi poteri delle regioni erano poteri che ci riportavano a un’Italia essenzialmente agricola, ai loro poteri previsti dalla Costituzione entrata in vigore nel 48 nei limiti dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato, sempre che le norme delle regionali non siano in contrasto con quelli delle altre regioni. Le regioni a Statuto ordinario potevano darsi leggi in materia di ordinamento proprio, di polizia locale, di fiere, mercati, di beneficenza, di istruzione artigianale eccetera eccetera e di materie prevalentemente di interesse locale.
Nel 2001 – dopo il ritardo nell’attuazione dell’ordinamento regionale negli anni ’70 – arrivò la rivoluzione. In precedenza la Repubblica era congegnata con un numero 20 regioni di cui 5 a Statuto speciale le quali avevano competenze particolari legate o alla loro localizzazione: la Valle d’Aosta al confine con la Francia; il Trentino Alto Adige al confine con l’Austria, ci volle addirittura una Convenzione, un accordo internazionale per regolare i rapporti di questa regione, composta dalla provincia di Trento e dalla provincia di Bolzano. Una terza regione, il Friuli-Venezia Giulia, è a confine con l’allora Jugoslavia e sia nella seconda regione, sia nella terza vi erano tendenze secessioniste.
La riforma del titolo V della Costituzione che si occupa anche e soprattutto delle regioni nel 2001, venne varata molto in fretta [… perchè si sperava in questo modo di tranquillizzare le prime aspirazioni secessioniste del partito della Lega
Poi vi sono due regioni insulari a statuto speciale anch’esse. Sono la Sicilia, la quale quando venne varata aveva in realtà un fermento separatista che addirittura arrivò a sconfinare nel banditismo. Il famoso bandito Giuliano che i vostri nonni e i vostri padri hanno sentito raccontare per le sue gesta; insomma separatismo di una Sicilia in cui alcuni speravano di finire e diventare la quarantanovesima stella della bandiera degli Stati Uniti.
E poi la Sardegna la quale è un’isola come la Sicilia ed era poverissima, ma si è tirata fuori. Anche alla Sardegna venne riconosciuto lo statuto speciale (come alla Sicilia per quella sua tendenza, un po’ separatista) come alle tre regioni del nord, Valle d’Aosta, Trentino-Alto Adige e Friuli per il loro confinare con altre zone, con altri paesi che avanzavano pretese di avidità o di eredità.
Nel 2001 è giunta una riforma che ha capovolto il sistema. Originariamente questo sistema era caratterizzato da una forte concezione unitaria di solidarietà che imponeva, come dice la Costituzione, di favorire al massimo il federalismo, ma quello vero in senso solidarista; la ripartizione nell’ambito dell’unità della Repubblica una e indivisibile attraverso l’istituzione di forme di autonomia in altre regioni. Ciò significava conferire anche alle altre regioni che ne avessero fatto richiesta dei poteri che facevano già parte del bagaglio e delle competenze delle regioni a statuto speciale.
Per la verità si è andati un po’ troppo avanti in questo. La riforma del titolo V della Costituzione che si occupa anche e soprattutto delle regioni nel 2001, venne varata molto in fretta; a pochissimo tempo dalla scadenza della legislatura; soprattutto perchè si sperava in questo modo di tranquillizzare le prime aspirazioni secessioniste del partito della Lega.
Ricorderete l’ampolla con l’acqua del Po; i primi movimenti secessionisti; le prime tendenze separatiste. Il centrosinistra, che allora era tornato per breve tempo al potere, sperava o si illudeva di tener tranquilli gli aspiranti alle secessioni del Nord attraverso l’aumento delle competenze delle regioni a statuto ordinario.
La Corte costituzionale è l’organismo che affianca il Presidente della Repubblica nel garantire la Costituzione. È composta da 15 giudici (adesso 14 e a dicembre addirittura, se non verranno sostituiti quelli in uscita) fra uomini e donne finalmente in condizioni se non di parità abbastanza accresciute.
C’è stato un lungo tempo in cui alla Corte costituzionale c’era una donna sola e tutti la guardavano come una specie di miracolo. Arrivò tardi; adesso sono tre addirittura le donne nell’ambito della Corte costituzionale ed è una gran bella cosa assicurare in questo campo quella parità che la nostra Costituzione impone.
Nel 2001 ci fu un capovolgimento del rapporto tra Stato centrale e regioni. Prima alle regioni veniva riconosciuta la possibilità di legiferare in quelle materie che appartenevano più alla economia e alla fisionomia regionale. La caccia, la pesca, l’agricoltura, le foreste, l’artigianato; le industrie alberghiere, le tranvie e le linee automobilistiche di interesse regionale, eccetera. Nel 2001, seguendo una forma un po’ troppo spinta di decentramento attraverso una legge ordinaria, si decise di cambiare gli articoli della Costituzione che regolano il rapporto tra Stato centrale e regioni in base a quella indicazione, nel tentativo di attuare se non addirittura di sostituire il principio secondo cui la Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali.
La Repubblica ha promosso le autonomie locali; è partita in quarta e con quella riforma ha riservato soltanto alcune competenze legislative alla legislazione esclusiva. Le ha conservate allo Stato perché sono materie nelle quali si richiede una unitarietà di indirizzo che solo lo Stato può dare con le sue leggi. Sono la legislazione esclusiva, ad esempio nella politica estera e i rapporti internazionali dello Stato; il rapporto tra la Repubblica e le realtà religiose – ne cito soltanto alcune, le più importanti – la difesa, le Forze Armate; la disciplina dei mercati economici; le norme generali sull’istruzione; l’ordine pubblico; i processi e si potrebbe perseguire.
Sono tutte quelle norme che riguardano interessi che hanno una dimensione comune per tutto lo Stato e non più specifica per le singole regioni.
Si è poi introdotta – con la riforma del 2001 della Costituzione – una legislazione concorrente (brutto termine perché chi concorre prima o dopo litiga) tra le regioni e lo Stato. Lo Stato deve definire i principi fondamentali; le regioni determinano la ulteriore specificazione delle regole che rimangono per queste materie.
In realtà, nella legislazione concorrente – forzando la formulazione ambigua dell’articolo 116 – si è introdotta molta varietà. I rapporti internazionali delle regioni con l’Unione europea; il commercio con l’estero; la protezione civile; le professioni; il coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario regionale; la ricerca scientifica. Si è dibattuto per la legislazione “concorrente” sulle grandi reti di trasporto, gli aeroporti, le ferrovie.
Siamo un paese con venti regioni. Venti realtà locali portatrici di interessi, di dimensioni anche politiche che devono andare d’accordo tra di loro e con lo Stato centrale. Perciò si stabilisce che le materie concrete possono essere affrontate dalle regioni ma i principi fondamentali devono essere dettati dallo Stato.
Poi c’è un terzo cassetto nella ripartizione di competenza della legislazione. Può essere residuale rispetto a quello statale e concreto, ma è fondamentale.
Perché molti (fra cui il sottoscritto) guardano con scetticismo e preoccupazione a questa rivoluzione del 2001? Prima di tutto perché essa è stata fatta in fretta e furia. È stata fatta mentre stava per scadere la legislazione da una maggioranza che stava per diventare minoranza. È stata fatta in fretta e furia, con l’intento soprattutto di blandire le speranze delle regioni del nord, soprattutto del Veneto e della Lombardia, che non sono state blandite manco per niente perché le regioni hanno cominciato allora una attività molto forte per scavarsi sempre di più spazi di autonomia.
Come può ogni regione farsi la sua piccola regolamentazione legislativa della tutela ambientale?
Il problema l’ho vissuto come giudice della Corte costituzionale che ha la sua sede dinanzi al Quirinale perché ha il compito di cooperare con il primo cittadino dello Stato, con l’autorità garante dell’unità dello Stato. Non valuta soltanto se le leggi emanate dal Parlamento rispettano la Costituzione e i suoi principi fondamentali; ma anche se i rapporti tra gli organi e i poteri costituzionali (il Parlamento, il Governo e la Magistratura che spesso litigano fra loro) devono essere ricondotti a un equilibrio, evitando invasioni di campo: i conflitti fra poteri di cui si occupa la Corte costituzionale.
Per nove anni abbiamo dovuto alla Corte costituzionale applicare quella riforma del 2001, il nuovo sistema della competenza legislativa senza che si provvedesse ad una legge di attuazione. Prima lo Stato si occupava di tutto, tranne alcune competenze specifiche contrassegnate ed elencate, rimesse e riservate alle regioni. Adesso è il contrario. Stato e regioni si occupano della maggior parte delle leggi insieme, attraverso una armonia che non c’è sempre e che richiede da parte dello Stato i principi fondamentali e da parte delle regioni la regolamentazione effettiva delle varie leggi. Si è capovolto proprio l’equilibrio.
Ormai la prevalenza delle materie legislative è affidata alla competenza delle regioni, sia pure nel rispetto da parte delle loro leggi dei principi fondamentali. Lasciamo da parte la terza ipotesi che è quella della legislazione residua che non è prevista né come esclusiva dello Stato né come concorrente tra Stato regioni e che è rimessa alla competenza esclusiva delle regioni.
Il primo problema fra i tanti è stato che nel definire il tema delle competenze dello Stato e quelle delle regioni il legislatore ha allargato un po’ troppo le braccia e i contenuti delle materie rimesse ad entrambi dove lo Stato fissa i principi fondamentali e dove le regioni fissano le regole.
Soprattutto ha introdotto in quel campo delle materie in cui è molto difficile poter vedere una frammentazione tra le varie regioni, ciascuna delle quali adotta la sua legge e lo Stato adotta una legge uguale per tutti. Si prendano ad esempio situazioni come il governo del territorio; i porti e gli aeroporti civili; le grandi reti di trasporto e di navigazione; il coordinamento di comunicazione e produzione, trasporto e distribuzione dell’energia e via discorrendo. È un contesto nel quale – ad esempio in materia di ambiente – non basta più nemmeno una dimensione nazionale; ormai l’ambiente viaggia su una dimensione sovranazionale, europea e globale.
Come può ogni regione farsi la sua piccola regolamentazione legislativa della tutela ambientale? Come si può frammentare l’unità di certe materie che richiedono una dimensione legislativa comune per tutti e non solo per tutte le regioni, ma comune per tutti i paesi europei o addirittura per tutta l’area globale del mondo? È vero che piccolo è bello; è vero che lavorare a livello locale vuol dire avere maggiore attenzione e maggior cautela nell’esame e nella coltivazione degli interessi locali. Ma è anche vero che si può con quella frammentazione finire per avere un paese con 20 piccole repubbliche anziché un paese di una Repubblica con 20 realtà e autonomie collegate peraltro da un disegno unitario.
Poi si è aperto un altro problema, ancora più grande: è il problema dei costi. Dove andiamo a trovarli i costi per far affrontare alle regioni i costi che adesso sta affrontando lo Stato? Contribuendo ad affrontarli insieme alle regioni con i suoi stanziamenti a favore delle regioni. Sto usando un linguaggio semplice che fa rabbrividire i miei colleghi professori e gli esperti del ramo, ma io sono convinto che ci si deve soprattutto far capire dalla gente.
Quando si moltiplicano le competenze si moltiplicano anche i costi. E qui cominciano i dolori, perché la Costituzione giustamente dice che il livello essenziale della prestazione deve essere rispettoso dei diritti civili e sociali; le prestazioni essenziali dei servizi fondamentali devono essere uguali per tutto il paese e in tutto il territorio. Si è tentato di fare una prima eguaglianza – in modo un po’ utopistico – nella materia sanitaria con i livelli essenziali di assistenza, i LEA. E lo stesso discorso si è promesso di fare con la riforma del 2001, attuata adesso in buona parte dal disegno di legge chiamato Calderoli.
La Costituzione dice che tutte le regioni devono garantire eguali livelli delle prestazioni in tema di diritti civili e sociali nelle materie; alcuni chiedono di poter riconoscere la competenza regionale invece di farle continuare a gestire dallo Stato.
La legge ha in realtà approvato una serie di norme procedimentali: un sistema un po’ buffo e un po’ complicato – come quando si dice “rendere difficili le cose facili attraverso quelle inutili” – con il quale lo Stato, o meglio il Governo, il Presidente del Consiglio e il ministro degli affari regionali negoziano con ogni singola regione a statuto ordinario le competenze, le materie che esse vogliono avere e che spesso non sono materie precise, ma sono definite con dei confini molto vari.
Una materia come l’ambiente o quella dei beni ambientali non ha confini; quando è andata in tilt la centrale di Chernobyl, con il primo grosso disastro nucleare, le conseguenze ce le siamo trovate anche nell’insalata in Italia. Non possiamo pretendere che i problemi del clima e dell’ambiente soprattutto di questi tempi rispettino i confini statali né regionali. Quindi abbiamo bisogno di una disciplina unitaria; abbiamo una serie di convenzioni, di tentativi di elaborazione comuni per arrivare a una disciplina comune di tutto questo settore.
Invece la linea di tendenza della legge costituzionale del 2001 è diversa. Distingue, separa e frammenta, sia pure sotto l’etichetta dei principi fondamentali riservati alla legislazione dello Stato. Corriamo il rischio di avere una frammentazione della quale abbiamo già avuto un esempio molto pesante quando – con il Covid – la sanità era affidata alle regioni. V’è stata una serie di differenze che non finivano più tra le regioni che la pensavano in un modo, quelle che la pensavano in un altro modo, e lo Stato in un altro ancora. Pensate ai vaccini. E quindi si è rischiato di non capire più nulla con dei conflitti pazzeschi.
Il discorso è stato diviso – con la legge appena entrata in vigore – in due parti. Per competenze in materie che per Costituzione richiedono uguali livelli essenziali di prestazioni – cioè tutte le competenze in materia di diritti civili e sociali – la legge non si applica ancora. Verranno emanate tante leggi delegate quando – approvate le intese per dare a ogni regione quello che chiede – verranno trovati i soldi in bilancio per poter fare fronte a queste spese. Finché non c’è lo stanziamento dei soldi in bilancio non si può evidentemente dare quei compiti alle regioni. Questo è il primo problema; il costo della prestazione deve essere quantificato per ogni richiesta di ciascuna regione, tenendo conto che per essa dovrà tenersi conto del costo complessivo anche per le regioni che non fanno tale richiesta.
Un altro problema ancora più problematico è che vi sono alcune materie la cui delega le regioni possono chiedere di avere subito; senza bisogno di aspettare che lo Stato con uno stanziamento di bilancio garantisca i fondi perché la regione possa provvedere a mantenere, ad alimentare e a gestire le spese per quelle competenze.
E qui c’è stato un altro problema: quello delle materie attribuite alle regioni le quali non chiedono livelli essenziali di prestazioni se altre regioni ne faranno richiesta.
Non possiamo ammettere che vi sia una differenza. Di fatto vi son già troppe differenze tra nord e sud e non possiamo ammettere che la gente vada ad avere cure diverse, istruzione diversa a seconda che nasca al Nord o nasca al Sud. Dobbiamo arrivare a una eguaglianza che richiede uno sforzo notevole e dalla quale siamo ancora molto lontani.
Secondo la legge approvata l’attuazione della riforma costituzionale del 2001 prevede una procedura abbastanza complicata. Provo a riassumervela rapidamente perché vi rendiate conto di quello che da un momento all’altro può capitare.
L’iniziativa per avere la competenza di occuparsi di una legge viene proposta da una regione al Presidente del Consiglio o al ministro degli affari regionali. La richiesta viene discussa e si arriva a una intesa: un’espressione che è stata copiata dall’articolo 8 della Costituzione sulle intese tra lo Stato e le religioni diverse da quella cattolica; che ha un significato di trattativa. L’intesa è un negoziato: una trattativa negoziale tra governo e regioni.
Si passa la richiesta alla Conferenza Stato-regioni (l’organismo che mette insieme le ragioni dello Stato e delle regioni) e soprattutto poi si va al Consiglio dei ministri per l’elaborazione di un testo che viene inviato al Parlamento per una approvazione. Le Camere possono soltanto dire sì o no. Se le Camere approvano, si arriva a una legge-delega che conferisce la competenza della materia alla regione che ne ha fatto richiesta quando la legge di bilancio prevederà gli stanziamenti per poter far fronte a questo.
Questo richiede anche di determinare i costi e le risorse per pagare le nuove competenze delle regioni. Allora per quanto riguarda le risorse delle risorse c’è una tavola di possibilità abbastanza complicata. Le Regioni, le province, le città metropolitane hanno risorse autonome, il loro patrimonio. Hanno entrate proprie, possono applicare certi tributi e poi però, siccome questi non bastano certamente, dispongono di compartecipazione al gettito, cioè alle entrate dei tributi statali. Non basta nemmeno questo.
Perciò lo Stato istituisce un fondo perequativo per poter fare fronte ai territori che hanno una minor capacità fiscale; sono tanti i territori che hanno una minor capacità fiscale. Son poche le regioni che raggiungono un reddito fiscale soddisfacente. E siccome anche questo non basta ancora, lo Stato può attribuire ulteriori risorse per rimuovere gli squilibri di capacità di fare fronte alle spese.
Le risorse proprie delle regioni non sono granché, tranne alcune regioni che stanno bene. Compartecipazione a tributi erariali, cioè a tributi dello Stato che vengano riscossi in sede regionale; poi fondo perequativo per compensare le minori capacità fiscali di alcune; e risorse aggiuntive per ragioni di solidarietà. Immaginate il caos che può venir fuori da tutto questo?
Sotto un altro profilo vi è la distinzione tra le materie in cui ci sono LEP (livelli essenziali di prestazione per diritti sociali o politici o civili previsti da quella legge). E le altre materie che non hanno questa immediata situazione di diritti per i quali la Costituzione chiede livelli eguali di prestazione?
Le intese sulle prime materie entrano in vigore solo quando la legge le propone; comunque finché non c’è la legge di bilancio che stanzia le risorse per far fronte alle spese, non si possono delegare le competenze per le materie che prevedono LEP.
Invece con un criterio di distinzione che non si capisce, le deleghe per le materie che non hanno un riferimento ai LEP possono essere concesse subito, sulla base degli stanziamenti attuali senza bisogno di attendere nuovi stanziamenti di bilancio. Dopo l’entrata in vigore della legge vi sono già una decina di materie per le quali le deleghe possono essere attribuite immediatamente.
Il Parlamento è diventato un notaio, non decide più il merito: questo va, questo non va, questa intesa va bene, questa intesa va male; può soltanto rifiutarsi in blocco, non può chiedere, modificare; o è così o rifiuti totalmente. La Conferenza Stato regioni deve limitarsi a esprimere un parere non vincolante.
Il discorso si conclude amaramente anche perché tre regioni decisamente all’avanguardia, Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna, si sono già aggiudicate delle intese prima ancora che la legge attuale venisse proposta e varata. Si sono già aggiudicate delle intese che secondo la legge vanno portate avanti con ciò che è già stato fatto in un modo non molto chiaro. Ad esse si sono già aggiunte altre due Regioni, il Piemonte e la Liguria.
Conclusione? Frammentazione molto complicata; burocraticizzazione; rischio di arrivare a una divisione che è antinomica non solo al concetto di unità del paese, ma alla realtà; soprattutto rischio che le regioni che già adesso stanno bene vadano a stare meglio. Mentre le regioni che già adesso stanno male nella migliore delle ipotesi continuano a star male, per non dire che andranno peggio.
L’esperienza della crisi del servizio sanitario nazionale che era partita con delle ottime idee, che era stata approvata e accettata da tutti, è testimone di quello che è successo e che succederà. Le processioni per andare al Nord a farsi curare; le liste di attesa; le polemiche che si sono avute tra Stato e regioni in materia di vaccinazione sono l’esempio migliore di come le cose vanno affrontate con un po’ più di calma.
Per il premierato forte occorre una legge costituzionale che va approvata con un certo quorum; se esso non è raggiunto occorre un referendum per farla entrare in vigore. È la partecipazione del popolo a far entrare in vigore la legge; nel caso dell’autonomia differenziata il discorso è rovesciato. La legge ordinaria che è stata approvata sull’autonomia differenziata invece è già in vigore; la Corte 11
costituzionale dovrà valutare l’ammissibilità di questo referendum e già adesso si stanno confrontando e scontrando le posizioni opposte. Può ammetterlo o può non ammetterlo, ma non voglio entrare in questo dettaglio pur essendo fermamente convinto che il referendum è ammissibile.
In questo momento il referendum, che non è necessario (come quello sul premierato) per far entrare in vigore la legge, è necessario per cancellarla, perché già è entrata in vigore. Questo è l’augurio di buon referendum che propone una persona (il sottoscritto) che ha lavorato per 9 anni al tentativo di applicare la legge costituzionale del 2001, superando i conflitti, i problemi che essa proponeva; ma che vede adesso un periodo ancor più tempestoso per altri perché lui ha finito il suo compito e quindi può stare alla finestra a guardare, tranne spiegare alla gente quello che ha vissuto.
Grazie dell’attenzione.
(seguono le domande dal pubblico e le risposte di Giovanni Maria Flick)
Si può avere un esempio delle materie esigibili subito?
Le materie delegabili subito sono elencate per sottrazione. Sono la giustizia di pace; i rapporti con l’Unione europea delle regioni; i mercati; il commercio con l’estero; la protezione civile; le professioni; la previdenza complementare; il coordinamento con lo Stato per le funzioni tributarie.
Sono queste, salvo miglior precisazione perché in realtà non c’è una indicazione precisa. La legge dice negativamente che sono funzioni e materie diverse da quelle di cui al comma primo, che sono quelle riferibili ai LEP, con le relative risorse strumentali e finanziarie. La procedura può essere effettuata subito secondo le modalità e le procedure e i tempi indicati nelle singole intese dall’entrata in vigore della presente legge.
Le regioni che non siano parte delle intese approvate con questa legge hanno garantita l’invarianza finanziaria (io ho dei dubbi che ce la si faccia) anche in relazione a eventuali maggiori risorse che siano destinate i LEP.
Mi sembra che questa sia una storia complicata per far vedere che la torta si taglia ma rimane sempre uguale, mentre le cose non siano esattamente in questi termini. Comunque si dice che le regioni che non concludono le intese con lo Stato in attuazione dell’articolo 116 devono garantire un eguale livello dei servizi relativi ai diritti civili e sociali.
Con una norma transitoria si dice che gli atti di iniziativa delle regioni già presentati al governo – per cui sia stato avviato un confronto congiunto tra governo e regioni interessate prima della data di entrata in vigore di questa legge – sono esaminati secondo quanto previsto dalle “pertinenti disposizioni” di essa. Vi invito a trovare le “pertinenti disposizioni” per capire se e come le intese che vi sono state nel 2018 e 2019 con la Lombardia, col Veneto e con l’Emilia-Romagna possono essere immediatamente portate avanti come intese secondo la legge sopravvenuta.
Il difetto fondamentale di questo meccanismo è che il discorso non si svolge nel contesto della solidarietà e della globalità nel rapporto con l’unità nazionale. Ma si svolge con singole trattative chiamiamole contratti che è meglio – tra la singola regione che fa la richiesta e il governo che valuta questa richiesta, limitandosi a raccogliere dei pareri autorevoli quanto non vincolanti da parte delle opinioni da parte della Conferenza Stato-regioni e soprattutto dagli organismi del Parlamento.
Per le materie che richiedono livelli essenziali vi è il vincolo della disponibilità di bilancio, vi è il rischio che questa parte della legge resti inattuata.
Lo Stato può cambiare idea perché il significato politico di questa legge è soprattutto quello di essere entrata in vigore subito. È entrata in vigore e la linea del referendum è l’unica che può essere percorsa in questo momento per cancellare questa legge, salva la via del ricorso delle Regioni in via principale alla Corte costituzionale per le violazioni dei loro diritti ravvisate nella legge.
Il primo passo da affrontare deve essere quello di regolamentare l’autonomia finanziaria regionale. C’è una legge delega del 2009 che doveva regolamentarla; le deleghe non sono ancora state attuate. E io credo che il discorso che ogni regione lavora per sé è un discorso antitetico al principio di solidarietà. La solidarietà è prevista non solo dall’articolo 118 – sarebbe lungo e importante il discorso da fare – ma anche come elemento fondamentale dall’articolo 2 della Costituzione, il quale prevede che i diritti inviolabili e i doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale sono garantiti a tutti i cittadini come tali. Non ai cittadini in base alla cittadinanza regionale.
Non so se sono stato sufficientemente chiaro, purtroppo ho usato parole non proprie e credo che i miei colleghi giustamente mi impiccherebbero al primo albero della piazza, ma io “morirei contento” dicendo “ho cercato di spiegare come potevo un qualche cosa che è stato essenziale per rendere difficili delle cose, già difficili in sé, attraverso quelle inutili”.
Altra domanda. Ma in concreto, ad esempio, come potrebbero le regioni influire nell’esercizio della giustizia di pace? Modificando le competenze territoriali, implementando il numero dei Giudici di Pace?
No. Non potrebbero certo entrare per cambiare le regole processuali e le regole di competenza. Potrebbero intervenire nella giustizia di pace, ad esempio per le sedi; per l’organizzazione funzionale non per l’esercizio della giurisdizione di pace.
Come è stato possibile promulgare una legge che prevede LEP senza che però nel testo ci sia la garanzia del rispetto dei diritti sociali?
La furbizia è stata che i LEP non sono ancora entrati in funzione, non ci sono ancora. Entreranno in funzione in base ai decreti delegati che verranno emanati solo se e quando ci sarà l’iscrizione delle somme a bilancio. Per me questo è un gioco molto sagace. Intanto la facciamo entrare in vigore, ma stiamo facendo entrare in vigore soltanto lo scheletro, l’impalcatura per qualche cosa che poi va riempito concretamente.
In materia di sanità, visto che già di competenza al 90% delle regioni, cosa cambierebbe?
Io temo che potrebbe cambiare qualcosa in tema di personale, non lo so. Non ho la minima idea di che cosa si possa aggiungere a quelle che sono la disorganizzazione e il dissesto del servizio sanitario oggi.
Qualcuno si è chiesto perché il Presidente della Repubblica nel prolungare non ha fatto nessuna osservazione. La risposta è che di fronte alla promulgazione di una legge il Presidente della Repubblica – al quale continuiamo tutti a tirare la giacchetta, destra o sinistra – non ha il compito di fare osservazioni.
Ha il compito di non promulgare quella legge se essa è in macroscopico contrasto con i principi costituzionali. Una legge che è soprattutto o soltanto di tipo procedimentale (perché adesso procedimenta una situazione a varianza zero, senza costi, perché non ci sono diritti da sovvenire, da pagare) è solo un’impalcatura. Che però consente di dire: l’abbiamo fatta e alcune norme entrano in vigore subito nelle regioni che hanno già negoziato le intese. Tutte queste cose sono state fatte con maggioranze diverse della maggioranza attuale. La legge costituzionale del 2001 è stata varata da una maggioranza di centrosinistra che era al termine del suo percorso. Le intese sono state negoziate da un governo tecnico sì, ma con coloriture abbastanza segnate anche di centrosinistra. Questo è il problema in cui ci troviamo noi. E adesso abbiamo la destra che batte i pugni sul tavolo dicendo che adesso le vogliamo noi. Anche perché nel passato e nella storia ci sono state molte oscillazioni
Per entrare concretamente in vigore con i LEP occorre lo stanziamento del denaro. Finché non c’è una legge che stanzia il denaro non c’è legge che tenga, tranne quelle tre istanze che voglio vedere come finiranno.
E poi ci sono quelle che ci si illude che siano senza spese e vediamo se son veramente senza spese. Spero di essere stato non polemico. Ho nove anni di Corte costituzionale nei quali ho combattuto con tutti i colleghi per cercare di portare avanti quella modifica costituzionale con tutti i problemi che essa poneva; e dove uno degli strumenti principali che abbiamo usato è stato il richiamo alla leale collaborazione tra i vari organismi dello Stato. Non so se questo sia un tempo di ideale collaborazione. Me lo auguro.