Sull’Autonomia differenziata arriverà prima il verdetto della Corte costituzionale o quello del referendum? I ricorsi delle regioni Puglia, Toscana, Campania e Sardegna contro la legge Calderoli, già da tempo a Palazzo della Consulta, saranno decisi prima o dopo il voto? Entro il 2024 o nell’estate 2025? Oppure a metà strada, a fine febbraio, dopo il verdetto della stessa Corte sull’ammissibilità della consultazione popolare? E quale Corte, con quanti e quali giudici, si pronuncerà sulla legge Calderoli e sull’ammissibilità del referendum? Infine, quale influenza possono avere, l’uno sull’altro, il verdetto della Corte sulla legge e l’esito delle urne? Domande che cercano risposte alla vigilia di un autunno caldo per la giustizia costituzionale, alle prese con questioni delicatissime per i diritti delle persone (adozioni e fecondazione assistita da parte di single, decreto Caivano, maternità surrogata, rivalutazione delle pensioni, fine vita e naturalmente legge Calderoli) ma ancora terra di conquista da parte di Giorgia Meloni che da dieci mesi la tiene zoppa, bloccando l’elezione parlamentare del quindicesimo giudice. Chissà se l’estate le ha portato consiglio e se – dopo la reprimenda del presidente della Repubblica – la situazione si sbloccherà il 17 settembre, sesta seduta del Parlamento, o se ne serviranno ancora altre (il presidente della Camera Fontana ha promesso convocazioni settimanali). Chissà se la premier vuole continuare a tirare la corda fino al 20 dicembre – quando usciranno dalla Corte anche il presidente Augusto Barbera e i vicepresidenti Franco Modugno e Giulio Prosperetti – per confezionare un pacchetto di quattro giudici da spartire con i soci di maggioranza: uno a te, uno a me, un altro a me e forse uno alle opposizioni.
Certo è che nei tanti vertici di maggioranza, tra masserie e palazzo Chigi, di tutto finora si è parlato ma non di questo. Resta dunque l’incertezza, che si riflette, in qualche misura, su palazzo della Consulta: nei prossimi giorni bisognerà decidere “quando” trattare in udienza i ricorsi regionali con cui si chiede l’incostituzionalità, totale o parziale, della legge sull’autonomia differenziata. La decisione spetta al presidente e si possono immaginare tre diverse soluzioni: a novembre; a fine febbraio; o a giugno/luglio. Tre scenari diversi anche per la diversa composizione della Corte e del numero dei giudici. Tutti e tre ineccepibili sul piano formale ma ciascuno con i suoi pro e contro.
Nel primo, forse il più lineare, a decidere sarebbero gli attuali 14 giudici, sempre che nel frattempo il Parlamento non abbia eletto il quindicesimo (quasi certamente un profilo di destra, e si fa il nome di Francesco Saverio Marini); ci sarebbero ancora Barbera, Modugno e Prosperetti; le sentenze arriverebbero entro dicembre, in tempo utile, nell’ipotesi di una dichiarazione di incostituzionalità parziale, per una messa a punto dei quesiti referendari da parte della Cassazione.
Oltre alla rapidità, questa soluzione avrebbe anche il vantaggio di valorizzare la volontà popolare. Vediamo perché.
Se i ricorsi fossero respinti, la partita si sposterebbe interamente sul referendum, senza che la legge Calderoli ne esca rafforzata (i motivi dell’abrogazione non coincidono del tutto con le censure di incostituzionalità). Supponiamo invece che la Corte accolga i ricorsi, in particolare la prima e più radicale censura della Puglia, per la firma del costituzionalista Massimo Luciani, secondo cui l’articolo 116 della Costituzione, introdotto dalla riforma del titolo V del 2001, non va affatto interpretato come se consentisse una legge quadro. È la tesi sostenuta anche in un appello di numerosi costituzionalisti, che accusano il governo di aver travisato la Costituzione. In tal caso, l’intera legge verrebbe giù per un vizio formale. Cancellata, spazzata via. E con effetti ex tunc, cioè fin dalla sua entrata in vigore (mentre l’effetto abrogativo del referendum è ex nunc, dal momento dell’abrogazione). Nel caso, invece, di incostituzionalità parziale della legge Calderoli, per quella parte cadrebbe il referendum, che rimarrebbe in piedi per il resto. Dunque: nessun effetto estintivo della volontà popolare; si farebbe subito piena luce su una riforma che sta già spaccando l’Italia in modo doloroso; si eviterebbero scontri politici sull’operatività della legge anche senza i Lep (i livelli essenziali delle prestazioni).
Lo stesso accadrebbe – siamo al secondo scenario – se i ricorsi fossero trattati dopo l’ammissibilità del referendum ma prima del voto. A fine febbraio. Rispetto al precedente scenario, però, si avrebbe una maggiore e prolungata incertezza sia dei tempi sia giuridica e, se la sentenza fosse di accoglimento totale, la macchina referendaria si sarebbe messa in moto inutilmente. Inoltre, è probabile che per quella data il collegio non sia stato ancora integrato rispetto alle tre uscite del 20 dicembre (ci sono la sessione di bilancio e le vacanze di Natale). È concreto il rischio che fino a marzo 2025 i giudici restino in 11, massimo 12 – cioè al limite di quanto consentito dalla legge per lavorare – e che con questa “formazione” affronterebbero sia l’ammissibilità dei quesiti sia i ricorsi.
Terzo scenario: l’udienza sui ricorsi regionali viene fissata dopo il voto, a giugno/luglio. Se al referendum hanno vinto i sì all’abrogazione totale, cessa la materia del contendere e la Corte deve solo verificare che, nel frattempo, la legge non abbia avuto applicazione. Se l’abrogazione referendaria è stata parziale, la cessazione della materia del contendere sarà anch’essa parziale (fatta salva, per la parte abrogata, la verifica che nelle more non abbia avuto applicazione). Se, al contrario, la legge uscisse indenne dal referendum, la palla tornerebbe alla Corte. Che in questo scenario non sarebbe più a ranghi ridotti ma integrata con il plotoncino di giudici deciso da Meloni.
La Corte ha certamente gli anticorpi per neutralizzare eventuali giudici “soldatini” ma in un’epoca di continue regressioni democratiche (emblematico l’ultimo caso, in Messico, con la Corte suprema costretta a scioperare contro la riforma della giustizia) nulla va dato per scontato e tutti abbiamo il dovere di vigilare. Occhi puntati, allora, sulla seduta del 17 settembre: se la maggioranza darà un segnale di resipiscenza, cercando un accordo politico ampio su un profilo alto e indipendente di giudice, individuato non secondo i criteri seguiti finora nella scelta della sua classe dirigente, e cioè secondo logiche di stretta appartenenza e obbedienza partitica, ma, come ha ricordato Mattarella, “perché meritevole, per cultura giudica, esperienza, stima e prestigio, di assumere quell’ufficio così rilevante”, ebbene, quello sarà un giorno importante per il Parlamento e anche per la Corte, che potrà continuare a contare su giudici indipendenti e competenti, qualunque sia la loro designazione politica. E sarà un giorno importante anche per le sorti dell’Autonomia differenziata.