Casa della Carità assomiglia al mondo

04 Luglio 2024

Niccolò Nisivoccia Consiglio di Presidenza Libertà e Giustizia

Un’umanità molteplice e variegatissima, così come sono i servizi offerti. Un mondo messo in ultima fila dall’indifferenza e che riacquista voce, storia e futuro quando è parte di una comunità che non l’ignora: è l’esempio di Casa della Carità, raccontato in questo libro di Niccolò Nisivoccia, edito da Castelvecchi

La Casa della Carità assomiglia al mondo. O meglio: a come il mondo dovrebbe essere, a come sarebbe bello che fosse. Nata nel 2002 per volontà e per iniziativa del cardinale Carlo Maria Martini, è stata guidata fino al gennaio del 2023 da don Virginio Colmegna; ora, dopo di lui, a guidarla è don Paolo Selmi. Ha sede a Milano, in via Brambilla, che è una piccola strada in fondo a via Padova: arrivando da piazzale Loreto si svolta a sinistra dove via Padova incrocia il Naviglio della Martesana, fra una panetteria e una pizzeria da asporto, e cento metri più in là di nuovo a destra. Per essere precisi, quello di via Brambilla non è l’unico luogo in cui la Casa svolge la propria attività: ma è la sede principale, alla quale poi si aggiunge una rete di altri luoghi sparsi nella città, composta da cinquantacinque appartamenti. Secondo i dati più aggiornati, le persone ospitate sono complessivamente quasi cinquecento, di cui circa centotrenta negli appartamenti sul territorio.

Cosa fa, la Casa della Carità? In cosa consiste la sua attività? Consiste nell’offrire accoglienza e ospitalità a chiunque ne abbia bisogno, a chiunque si trovi a vivere una situazione di difficoltà. A un’umanità composita e dolente. A qualunque genere di persona priva di sostegno, uomini o donne che siano, adulti o minorenni: persone senza dimora; donne sole o con bambini; donne maltrattate; intere famiglie; migranti in cerca di soccorso; rifugiati e richiedenti asilo; minori stranieri non accompagnati; anziani; persone con problemi di salute mentale; detenuti ed ex detenuti.

Ma queste sono solo classificazioni, sono solo definizioni, mentre le difficoltà della vita non si lasciano né classificare né definire: sono verità molto più complesse che, come tali, non consentono di stabilire confini fra una situazione e l’altra. Di solito sono le leggi, semmai, a fissare limiti e confini; oppure è la burocrazia. E comunque anche le leggi e la burocrazia, e soprattutto coloro che sono chiamati a farsene interpreti, dovrebbero sempre ricordarsi che dietro ogni norma o circolare – anzi: davanti a qualunque norma o circolare, a precederle – esistono sempre degli occhi, dei volti, delle persone in carne e ossa, dei destini individuali. Esiste appunto l’umanità, esiste la vita vera: e nella vita vera le categorie si incrociano, si sovrappongono, si mescolano. Una persona in condizioni di bisogno, più o meno urgente che sia la sua necessità, è semplicemente una persona in condizioni di bisogno, né più né meno che dire una rosa è una rosa: una persona in condizioni di bisogno è quello che è, uomo o donna che sia e qualunque sia la sua storia, la sua provenienza, qualunque sia la somma delle sue colpe e delle sue ragioni.

L’umanità che la Casa della Carità ospita nella propria sede di via Brambilla, e negli altri luoghi della sua rete cittadina, è dunque un’umanità molteplice e variegatissima, come sempre diverse sono le traiettorie della vita di ciascuno di noi rispetto alla vita di ciascun altro: le une alle altre irriducibili. Come irriducibili a se stesse, in fondo, sono anche le difficoltà: nel senso che neppure le difficoltà si lasciano definire una volta per tutte, neppure quando si tramutano in disperazione. Non sono concetti astratti, come forse invece lo è, un po’ di più, la felicità. Forse perché la felicità può essere inconsapevole, le difficoltà e la disperazione no: sono sempre consapevolissime di sé. Sono sempre concrete, tangibili, pesanti; possono arrivare a togliere l’aria e lo spazio, a provocare frane e rovine. Possono essere cieche, senza futuro, fino al punto di escludere vie di fuga; per non dire che la disperazione contiene la negazione della speranza perfino nel suo nome, nella sua etimologia.

Ma l’ospitalità offerta dalla Casa della Carità non è, per citare il titolo di una canzone di Bob Dylan, Shelter from the storm, un puro e semplice riparo dalla tempesta. Non è solo una carezza e non è pura e semplice consolazione. Non è neppure, per usare categorie più prosaiche, puro e semplice assistenzialismo. Non è un’ospitalità né statica né arresa, ma al contrario: è un’ospitalità che sa rivolgersi anche all’immaginazione e alla costruzione di quel futuro che le difficoltà della vita possono indurre non solo a negare, ma addirittura a proibirsi. Se citare la canzone di Bob Dylan può avere un senso, è allora quello che possiamo trovare in uno dei versi conclusivi, che dice: «Beauty walks a razor’s edge,/ someday I’ll make it mine». Ovvero: ‘La bellezza cammina sul filo del rasoio, un giorno o l’altro la farò mia’.

La Casa della Carità offre sì, a chi ne ha bisogno, anche solo un tetto, un letto, dei pasti, una doccia, un’assistenza diurna; offre sì un sostegno anche nelle questioni più materiali, dalla ricerca di una casa alla gestione di una pratica per l’ottenimento di un permesso di soggiorno o per l’assegnazione di una pensione. Offre sì anche supporto psicologico e consulenza legale. E qualcuno è anche solo questo che cerca, è anche solo di questo che ha bisogno: e del resto non è poco, è già moltissimo. Ma essere ospiti della Casa può significare ancora di più, per chi lo voglia: può significare essere sostenuti nella restituzione di un senso al proprio tempo, nella restituzione al tempo della sua naturale continuità. Predisporsi attivamente verso un futuro, attraverso l’impegno nello studio o in un mestiere, o nella frequentazione di un corso, scolastico o professionale: anche rispetto a questo la Casa della Carità offre un sostegno, a chi lo voglia ricevere.

E quindi, certo: l’umanità alla quale la Casa offre la propria accoglienza potremmo chiamarla, in generale, anche “ultimità” – per quanto si tratti di “ultimità” molto diverse le une dalle altre, e per quanto non sempre le difficoltà siano tali da essersi trasformate in disperazioni vere e proprie. Ma è altrettanto vero che quel «senso di ultimità» di cui parla ad esempio il fotografo Paolo Pellegrin, quando spiega ciò che lo muove a fissare in un ritratto le sofferenze e le ingiustizie del mondo per non farle andare perse, qui non è da intendere come impotenza, o come dato irredimibile ed eterno, bensì come un orizzonte che si può cercare di oltrepassare, come un limite che si può cercare di superare. Come negazione possibilmente solo provvisoria della speranza e della bellezza. O magari anche della felicità.

Per questo la Casa della Carità assomiglia al mondo come dovrebbe essere, come sarebbe bello che fosse: perché incarna, anche nella sostanza oltre che nel nome, anche nella pratica quotidiana oltre che nei princìpi da cui è nata, l’idea di un vivere comune ispirato alla “carità” come valore politico prima ancora che religioso. E mi riferisco, in particolare, alla carità nell’accezione che dava a questa parola Pier Paolo Pasolini: quella di «rapporto concreto, vivente e realistico con la storia», e cioè – come quell’accezione è stata ripresa anche da Luigi Manconi e Gaetano Lettieri in un bel libro intitolato Poliziotto-Sessantotto, pubblicato nel 2023 – di «umanitaria capacità di mettersi dalla parte dell’altro». Volendo, sono le medesime accezioni che potremmo conferire anche alla parola “pietà”, se è vero che anche la pietà implica ed esprime una medesima disponibilità a rinunciare a sé, al proprio punto di vista egoistico, per accogliere il punto di vista dell’altro da sé, per riconoscerlo come ugualmente degno rispetto al nostro. In entrambi i casi si tratta di concetti che rispondono, prima ancora che al pensiero o alla filosofia, al significato originario delle parole: carità e pietà come benevolenza, come rispetto, come riguardo; ma anche come gratitudine e riconoscenza, solo dall’altro lato della medaglia. In entrambi i casi, si tratta di affermare la necessaria natura relazionale della vita umana: e di convincersi che non esiste una vita che possa essere solo personale, così come non esiste niente di quello che accade nel mondo che non ci riguardi, che non riguardi ognuno di noi.

Se ci riflettiamo, è l’esatto opposto sia della realtà che abbiamo davanti agli occhi, sia della politica che la interpreta. La realtà è una dimensione in cui tutto si è frantumato, sotto ogni aspetto. In primo luogo il senso dell’appartenenza di tutti a un comune destino: viviamo chiusi e reclusi nelle nostre separazioni identitarie, perché il massimo della comunità al quale il nostro individualismo riesce ad arrivare è quello dei territori nazionali intesi come confini da difendere contro le aggressioni di qualunque straniero, di qualunque estraneo che non riconosciamo simile a noi. Ma non solo. Si è frantumata anche la nostra memoria collettiva, se non di più: perché forse è nel giusto chi afferma che non solo non esistono più memorie condivise ma non esiste più neppure la memoria tout court, che non esiste più il ricordo del passato ma esiste solo un continuo presente. Si è frantumato anche il lavoro, il modo di lavorare. Si è frantumata anche la legge, che negli ultimi anni è caratterizzata da una produzione sovrabbondante, incontenibile: vengono emanate leggi in continuazione, per tutto, per tutti, per ognuno – e perché? Ma proprio per questo: perché tutti ne reclamiamo continuamente una, perché ciascuno ne vuole continuamente una per sé, perché ciascuno di noi pretende continuamente il riconoscimento di un proprio diritto.

Davanti a tutto ciò la politica sembra impotente, sembra aver perso le parole. Oppure sembra capace solo di parole vuote, che suonano false nell’attimo esatto in cui vengono pronunciate; e che infatti nessuno ascolta. Pensiamo all’immigrazione: alle tragedie che ci scandalizzano, o in cui inciampiamo, per un giorno o per qualche ora (anche a questo proposito l’etimologia delle parole è illuminante, come sempre, perché “scandalizzarsi” significa letteralmente ‘inciampare’). Pensiamo, non so, a quanto successo a Lampedusa nel 2013 o a Cutro nel febbraio del 2023. Anche davanti a tragedie come queste la politica sembra totalmente incapace di esprimere parole che sappiano entrare in contatto con il dolore, con le sofferenze; sembra incapace di interpretare quello che succede. Come se fosse ormai priva di una sua grammatica e di una sua sintassi. I politologi forniscono una definizione molto adatta per descrivere la politica com’è diventata: una forma di pura e semplice amministrazione tecnica dell’esistente. Perdipiù spesso connotata da una forte dose di cattiveria, quale esito inevitabile di un individualismo che pensa solo a salvare se stesso.

Ecco perché la “carità” e la “pietà”, come d’altronde anche la “fraternità”, possono essere lette come valori politici a tutti gli effetti, a prescindere dal fatto di essere anche valori religiosi. Religione e politica riguardano piani diversi dell’esistenza, che magari possono coincidere ma in ogni caso rimangono diversi: perché la religione, che è un territorio intimo per definizione, contiene verità cui non per forza si deve avere accesso; mentre la politica, che è uno spazio pubblico altrettanto per definizione, è l’esplorazione continua di territori nei quali si misura la nostra appartenenza al mondo oltre che a noi stessi. Il punto è che dietro ogni vicenda esistenziale, come avvertiva Hannah Arendt, va sempre riconosciuto un fenomeno politico, indipendentemente da qualunque ulteriore coinvolgimento di altri piani del discorso. Ogni singolo dramma esistenziale dovrebbe richiamare la politica all’assunzione della propria responsabilità, dei propri compiti: che dovrebbero essere quelli di curare le ferite, riannodare i fili, ricomporre le cose. Di includere o riportare nel mondo chiunque si trovi per qualsiasi motivo a sentirsene escluso, o per qualsiasi motivo se ne sia allontanato.

Ed è esattamente questo il senso delle azioni svolte nella sua pratica quotidiana dalla Casa della Carità: come luogo nel quale il pensiero e l’etica si traducono, tutti i giorni, in esperienza vissuta e sostanziale (al di là della natura religiosa dell’ente). Non sempre le azioni raggiungono lo scopo, non sempre esiste un lieto fine: ma questo è ovvio, perché il lieto fine non esiste quale necessità ontologica, in sé e per sé, e perché la vita è sempre molto più complessa di una trama letteraria o cinematografica che finisce come vorremmo. O comunque, e forse per fortuna, è troppo complessa per poter essere racchiusa in un esito definitivo, quale che sia: nel bene o nel male. Ma è sufficiente che esistano una direzione, una prospettiva, un orizzonte: ed è già tutto, o quasi.

Questo libro è sorto dal desiderio di raccontare le storie di chi, in un modo o nell’altro, ha trovato nella Casa della Carità un luogo di accoglienza. Le storie che ho raccolto sono dieci e vorrebbero, nella loro varietà, essere indicative e rappresentative dell’eterogeneità umana che ritroviamo, su più ampia scala, all’interno della Casa della Carità stessa. E quindi la Casa come unico denominatore comune fra le storie, tolto il quale ogni storia rimane quello che è: una storia unica, che racconta una vita unica.

A parlare sono cinque uomini e tre donne, di nazionalità sia italiana che straniera, dai venti ai sessant’anni; una giovane coppia afghana (marito e moglie); e una famiglia rom, composta da padre, madre e tre figli – due ragazzi rispettivamente di venti e diciotto anni, e una bambina di dieci (anche se al nostro incontro ha partecipato solo il figlio più grande). Ogni storia è il frutto di un incontro, anzi, di molti incontri: perché non c’è storia, di quelle raccolte in questo libro, il cui racconto si sia esaurito in un solo incontro. E sono proprio loro a parlare: le persone che mi hanno raccontato la loro storia. Questo mi era chiaro fin dall’inizio: avevo in mente dei racconti in prima persona, volevo che le voci fossero direttamente quelle dei protagonisti, non la mia. Ed era fin da subito chiaro anche a chi mi parlava, perché l’ho sempre subito precisato chiedendo il permesso a tutti, ogni volta, al primo incontro.

Sono ben consapevole, naturalmente, che raccontare una storia di un altro attraverso la voce del protagonista, quando non è il protagonista a scriverla ma come se lo fosse, è sempre una finzione. Di più: sono ben consapevole che si tratta di una finzione doppia. Da un lato, il nostro io non può scomparire per magia, se siamo noi a scrivere: per quanto si faccia da parte e si ritragga, e per quanto inconsapevolmente, il nostro io non può non emergere anche solo in una sfumatura, in un dettaglio. Possiamo assumere l’io di chiunque, scrivendo, ma la stessa mediazione della scrittura, attraverso il gesto di scrivere, genera una confusione fra un io e l’altro: li inscrive uno dentro l’altro. Per quanto fedele possa essere la trascrizione della storia, o addirittura per quanto forte possa essere l’identificazione di chi scrive nell’io di chi racconta, l’io dell’uno avrà sempre un tono diverso da quello dell’altro: e la scrittura non può non rivelarlo. Magari nessuno se ne accorgerà, o magari se ne accorgeranno solo i diretti interessati; magari non se ne accorgerà neppure chi ha scritto (e quindi magari non me accorgo neppure io), magari se ne accorgeranno solo coloro che vedranno trascritta la loro storia. Magari non riconosceranno, non dico una parola o un’espressione, ma anche solo una pausa o una vibrazione. Magari anche solo un certo andare a capo, sulla pagina, potrà aver tradito la consecuzione che volevano dare al loro discorso mentre lo svolgevano.

Da un altro lato, bisogna essere onesti: in realtà l’identificazione di un io con un altro non è mai possibile, e tanto meno lo è quando la storia che raccontiamo è così diversa dalla nostra. È onestissimo nell’ammetterlo, ad esempio, lo scrittore canadese Matthieu Aikins, autore di un reportage, Chi è nudo non teme l’acqua, che racconta il suo viaggio dall’Afghanistan all’Europa insieme a un migrante fingendosi anche lui tale. Aikins ha rischiato per davvero la propria vita insieme a quella del migrante che accompagnava, ha per davvero messo in gioco il proprio corpo, e dunque chi più di lui sarebbe stato legittimato a rivendicare un’identificazione? Eppure Aikins non l’ha rivendicata: «Ho viaggiato con i rifugiati, ho rischiato la vita sulle stesse barche», ha dichiarato a Giuliano Battiston in un’intervista uscita su «il manifesto» l’1 ottobre 2023,

ma non pretendo di essere stato un rifugiato, né di capire veramente cosa significhi esserlo. Il libro mostra questa impossibilità. È doloroso riconoscerla. Vorremmo immaginare che siamo tutti uguali, che solidarietà e uguaglianze vincono. Ma ci sono profonde divisioni tra Paesi sviluppati e gli altri in via di sviluppo, tra europei e afghani, i confini esistono anche dentro di noi. Non possiamo trascenderli solo con un atto di volontà.

Ma quello di Aikins è un caso estremo, basta anche molto meno: se non è possibile identificarsi in vite troppo diverse dalla nostra, non è comunque possibile identificarsi neppure in vite alla nostra più simili. O perlomeno non è possibile identificarvisi totalmente, perché avanzeranno sempre dei resti o degli scarti: ed è anche solo nei resti e negli scarti che la vita di ognuno conserva la propria unicità.

Insomma: assumere l’io di un altro è sempre una finzione, se non un’illusione. E la scrittura, dicevo, è perfino un’aggravante: perché il gesto stesso dello scrivere costituisce, di per sé, un ulteriore elemento di cesura e di distanza fra chi scrive e chi viene trascritto. Trascrivere equivale sempre, almeno in una certa misura, a riscrivere: a scrivere di nuovo, a scrivere anche in proprio.

In più, devo confessare di non aver mai registrato chi parlava: ho sempre solo preso appunti, pensando che registrare avrebbe potuto in qualche modo inquinare il racconto, falsificarlo. Ho pensato che prendere appunti, usare solo un quaderno e una penna anziché altri strumenti, avrebbe potuto lasciare più libertà a chi parlava. Né ho mai voluto pormi come un intervistatore, davanti alle persone che incontravo. Non ho mai voluto conferire agli incontri il carattere o la forma di un’intervista: nelle mie intenzioni dovevano essere degli incontri, appunto, e non delle interviste. Non volevo che chi mi parlava rispondesse a delle domande: volevo che raccontasse senza la minima forzatura. Salvo che alla libertà corrisponde necessariamente una certa imprecisione, perché gli appunti sono sempre imprecisi per loro natura e riflettono a loro volta l’io di chi li prende: anche di questo sono ben consapevole.

A tutte le mie consapevolezze di finzione ho potuto opporre solo il tentativo di essere il più possibile rispettoso nei confronti delle storie che mi sono state affidate e di chi le ha vissute. Se assumere l’io di un altro da noi non è possibile, è però possibile concedere l’ascolto più attento di cui siamo capaci. Ed è proprio l’ascolto a sopperire all’impossibilità di assumere un io diverso dal nostro: perché è solo ascoltando che capiamo quanto gli altri siano portatori di universi simbolici diversi dai nostri, che le loro esperienze sono diverse dalle nostre (sotto ogni profilo, non solo fattuale e cognitivo ma anche emotivo, sentimentale, volitivo). Come a dire: forse identificarsi totalmente negli altri non è mai possibile, e può risultare anche presuntuoso, ma ascoltare per capire, invece, non solo è possibile ma è anche doveroso. Ascoltare significa anche immaginare: e senza immaginazione, come nota Joseph Conrad in quel piccolo capolavoro che è Amy Foster, non è possibile la comprensione degli altri.

In un primo momento, dunque, ho solo potuto offrire l’ascolto più attento di cui ero capace e cercare di essere il più preciso possibile negli appunti; poi, ho solo potuto cercare di essere altrettanto attento e preciso nella loro trascrizione. Non so se e quanto chi mi ha raccontato la sua storia potrà ritrovarla in questo libro, ma so che ho provato, per quanto mi era dato, a riprodurre anche la voce di ogni singola persona con cui ho parlato. Perché ogni singola persona ha una propria voce, nel senso di una propria musica: di un proprio ritmo, nel pensare e nel parlare, e di una gestualità del corpo che diventa anche suono e respiro. Per questo mi auguro che chi leggerà queste storie potrà sentire tutte le diversità fra l’una e l’altra: nel linguaggio, nella struttura, nel passo (solo il fiato è sempre uguale: tutte le storie, come per un misterioso accordo sotterraneo, sono più o meno della medesima lunghezza). Mi auguro, cioè, di essere riuscito a rendere giustizia, nella diversità delle pagine, alla diversità delle persone. E sarebbe bello che loro per primi, i protagonisti di queste storie, potessero intimamente e sinceramente dirsi: «Sì, questa è la mia storia, la riconosco».

Ho lasciato che i racconti scorressero, che le parole che mi erano state donate rimanessero puro racconto – così come mi erano state donate, le parole, e così come veniva, il racconto. Anche lo stesso ordine in cui i racconti sono stati svolti: non l’ho quasi mai modificato, in qualche rara occasione mi sono limitato ad aggiustarlo solo perché risultasse più chiaro il discorso. Ho conservato tanto le ripetizioni quanto le scorrettezze sintattiche e gli anacoluti, quando ce n’erano: sia perché, di nuovo, mi sembrava che questa fosse la scelta più coerente rispetto alla decisione di assumere, nella scrittura, l’io di chi raccontava, nel senso che quelle ripetizioni o quelle scorrettezze e quegli anacoluti erano parte integrante del racconto che mi era stato fatto così come mi era stato fatto; sia perché le ripetizioni, le scorrettezze e gli anacoluti appartengono al parlato (al parlato di chiunque), e volevo che il libro rispecchiasse il più possibile la lingua parlata piuttosto che quella scritta. Anche questa era una forma di rispetto, per quanto mi riguardava: il racconto mi era stato affidato oralmente, e del racconto orale volevo che conservasse il tono. Altrimenti lo avrei trasformato in qualcos’altro: in un discorso scritto, al quale sarebbe stato a quel punto veramente inevitabile aggiungere parole diverse da quelle originali.

Inoltre, volevo evitare il più possibile l’immissione nei racconti di sovrastrutture mentali. Da questo punto di vista volevo che lo scorrimento dei racconti, come puri racconti, mantenesse una sua fedeltà non solo nei confronti delle loro versioni originali ma anche nei confronti della vita, che nel suo fluire quotidiano è azione più che pensiero, azione più che riflessione. Il fluire di un’esistenza, il suo ritmo interno, non può essere racchiuso in una successione logica e consequenziale di eventi, ma è semmai il risultato di una caccia al tesoro, di una ricerca: la vita, come diceva Gianni Celati, di per sé passa e basta. Giorno dopo giorno scorre, ed è solo a posteriori che se ne può eventualmente cogliere un senso. Questo vale anche nei racconti di questo libro: le storie raccontate scorrono e basta – e se esiste un nucleo fondante da cui ognuna è caratterizzata, una specie di cuore segreto da cui tutto il resto dipende, è però sempre un cuore segreto che non viene rivelato come tale, ma che semplicemente trapela dal racconto, da solo.

Al tempo stesso, devo anche dare atto che tutte le persone che mi hanno raccontato la loro storia lo hanno fatto con una precisione, linguistica e logica, per molti versi sorprendente. Innanzitutto non era scontato neppure che mi avrebbero raccontato: è vero che avevano accettato di incontrarmi, ma questo non equivaleva ancora a dire che sarebbero state disposte a svelarsi. Anzi: potevo immaginarmi resistenza, da parte loro, e resistenza invece non ne ho trovata mai. In alcuni casi lo svelamento è stato progressivo, ma è il minimo ed è anche giusto: anche due amici che non si vedono da molto tempo possono aver bisogno di un po’, di qualche minuto o di qualche ora, per ritrovarsi. E la confidenza che mi è stata concessa è stata sempre di una qualità analoga a quella che potrebbero concedersi due amici, perché ha presupposto una fiducia che di solito siamo disposti a concedere solo a chi conosciamo bene. E questo non solo non era scontato: nei termini in cui è avvenuto, non era quasi neppure prevedibile.

Ma dicevo della precisione del racconto. Non è semplice raccontarsi. Lo è ancora meno quando l’impulso a farlo proviene da una domanda aperta, sconfinata: «Mi raccontate la vostra vita?». È questa la prima domanda che rivolgevo alle persone che avevo davanti, all’inizio dei nostri incontri: li invitavo a raccontarmi la loro vita. Non mi interessavano episodi specifici: non tanto perché non potevo conoscerne prima che mi venissero raccontati, ma più in generale perché non mi interessavano tanto quei momenti che dall’esterno, di certe vite in particolare, potremmo considerare cruciali. Mi interessavano, piuttosto, i momenti vissuti come cruciali dall’interno. Ad esempio: rispetto alla vita dei migranti, ci aspettiamo che il momento cruciale sia quello del viaggio e delle sofferenze patite durante il viaggio. Ma una vita è lunga, e non è detto che non esistano momenti altrettanto o più cruciali, prima di quel viaggio o dopo: e comunque quello che mi interessava, nei limiti in cui chi avevo davanti fosse disposto a concedermelo, era il racconto di una vita nella sua interezza.

Per questo la domanda che rivolgevo a tutti – «Mi raccontate la vostra vita?» – è una domanda che definisco sconfinata, perché lascia al soggetto cui viene rivolta la libertà di riempirla dei contenuti che voglia: ma impone anche un’organizzazione o una riorganizzazione del pensiero che potrebbero, paradossalmente, lasciare ammutoliti. Chi di noi si è mai sentito rivolgere una domanda o un invito simile? Raccontami la tua vita. Quanti di noi hanno mai raccontato la propria vita ad altri o anche solo a se stessi? Da dove cominceremmo? E dopo aver cominciato, dopo aver trovato le prime parole, come proseguiremmo? Sapremmo raccontare? Le persone che ho incontrato hanno saputo farlo benissimo, ciascuna a modo suo (anche se quasi tutti hanno iniziato nello stesso modo, dal luogo e dalla data di nascita), ma in ogni caso come se ciascuna di loro avesse perfettamente assimilato il senso della propria esistenza, e come se le parole venissero alla luce di conseguenza.

Forse per questo neppure la lingua è mai stata d’ostacolo: anche le persone di nazionalità straniera hanno sempre trovato e saputo usare le parole giuste per dire quello che volevano dire. E sì: la vita è azione, più che riflessione, è scorrimento più che interpretazione, ma tutti sono stati capaci, in mezzo al racconto dei fatti nella loro concretezza, nella loro materialità, di fornirne anche interpretazioni riflessive – e di trascendere, in un certo senso, il piano della singolarità verso quello della universalità. Ciascuno di noi, credo, potrebbe indursi a pensare anche a sé, alla fine, attraverso le riflessioni contenute nei racconti di questo libro; ciascuno di noi potrebbe indursi, a partire da certe riflessioni, a porsi domande a propria volta.

Ma non sono solo certe riflessioni a rappresentare un punto di contatto fra le vite di ciascuno di noi e quelle raccontate qui. È vero, e vale la pena di ripeterlo: la vita di ognuno è diversa dalla vita di chiunque altro. Ogni vita è unica, ed è irripetibile. E quindi sono uniche, irripetibili, anche le storie raccolte in questo libro: l’unico elemento che le accomuna, oltre alla Casa della Carità, è il dolore che le attraversa. Sono storie segnate dalle difficoltà, a tratti anche dalla disperazione; sono storie di fragilità. Sono racconti di vite che spesso non si sono solo crepate: spesso si sono anche rotte, sono anche crollate. Poi si sono ricostruite, o si stanno ricostruendo: ma prima si erano perse. Ed è questo che potrebbe capitare a chiunque fra noi: chiunque fra noi potrebbe attraversare momenti di fragilità, di difficoltà, potrebbe rompersi, crollare, perdere la speranza e se stesso. Il titolo del libro, La storia di ognuno, vuole dunque alludere tanto alla singolarità delle storie che lo compongono quanto a questa loro potenziale universalità: l’ognuno a cui fa riferimento il titolo non è solo chi mi ha raccontato la propria storia ma è anche, almeno potenzialmente, ognuno di noi.

Scrivere, ha detto qualcuno, è raccontare un’assenza. A me è successo il contrario: il senso della scrittura di questo libro, per me, è stato quello di restituire delle presenze. Tutte le presenze che hanno dato corpo agli incontri che hanno preceduto la fase della scrittura. Gli incontri sono durati circa un anno, fra tutto, e si sono svolti quasi sempre in via Brambilla. Quasi sempre la sera, o nel tardo pomeriggio. Arrivando, nell’aria sentivo sempre un profumo di bucato fresco, appena lavato, che proveniva proprio dalla Casa della Carità e conteneva anche un retrogusto di nostalgia: era quello il segno che ero arrivato. Entravo, e nell’atrio avevo ogni volta il mio appuntamento. Cercavamo una stanza, o un angolo appartato, e l’incontro cominciava.

© 2024 Lit Edizioni s.a.s. Tutti i diritti riservati

Nato a Milano nel 1973. Avvocato e scrittore. Svolge attività di docenza presso l’Università degli Studi Milano e l’Università Cattolica del Sacro Cuore e di relatore in convegni e seminari.

Supportaci

Difendiamo la Costituzione, i diritti e la democrazia, puoi unirti a noi, basta un piccolo contributo

Promuoviamo le ragioni del buon governo, la laicità dello Stato e l’efficacia e la correttezza dell’agire pubblico

Leggi anche

Newsletter

Eventi, link e articoli per una cittadinanza attiva e consapevole direttamente nella tua casella di posta.

×