Ringrazio per questo premio che mi onora e che, proprio oggi, assume il significato di una festa e, al tempo stesso, della promessa di impegno e responsabilità a cui questo giorno ci lega.
Lo scorso 25 aprile, in una lettera al “Corriere della Sera”, la presidente del Consiglio fece riferimento alle «persecuzioni anti ebraiche» senza mai nominare le gravissime responsabilità del fascismo. Quelle responsabilità che Liliana Segre – deportata all’età di tredici anni, sopravvissuta alla prigionia nel campo di concentramento e sterminio di Auschwitz-Birkenau e alla “marcia della morte”, tra i 25 bambini ebrei, su 776, che in tutta Italia poterono far ritorno alle proprie case – ha chiamato “il filo nero”, descrivendo il percorso che dalle leggi razziali fasciste portò ad Auschwitz. «C’è un filo ideale», mi disse in un’intervista, «un filo nero, un filo dell’abiezione umana che parte pian piano da quelle leggi razziali, che prima sottovoce, poi con firme molto importanti, hanno sancito l’esistenza di una “questione ebraica” in Italia. Quelle leggi hanno fatto sì che un quarto della popolazione italiana di religione ebraica sia finita nei campi. E se ancora oggi, dopo tanti anni dalla fine della Seconda guerra mondiale, ancora se ne parla, non se ne parla abbastanza. Non è sufficientemente chiara, né sufficientemente insegnata nelle scuole, la colpa del governo italiano fascista di allora, e di tutti quegli italiani che, con indifferenza, hanno voltato la faccia dall’altra parte».
Perché è importante parlarne oggi, nel giorno della Liberazione? Perché è sempre stato più facile parlare di Shoah guardando al nazismo, quando invece la persecuzione ebraica nel nostro paese è stata anche, grandemente, un delitto italiano, attivamente perpetrato dalla Repubblica Sociale, lo stato collaborazionista del nazismo fondato da Mussolini dopo l’8 settembre 1943 nella parte d’Italia ancora occupata dai tedeschi.
Quando, lo scorso 25 aprile, la presidente del Consiglio ha asserito di voler «prendere le distanze» dal fascismo, non ha citato la Repubblica di Salò, né lo ha fatto in seguito. Così come non ha espresso un giudizio sulla violenza del regime fascista, sulla soppressione dei suoi oppositori, né sui crimini coloniali commessi in Africa, quando il fascismo andò alla conquista di un impero sorretto dalla grottesca invenzione della superiorità della «stirpe italica».
Pur nominando la «vergogna delle leggi razziali del 1938», lo scorso 27 gennaio non ha parlato, né lo hanno fatto gli esponenti del suo partito, di come queste nascessero da una teorizzazione e una pratica di superiorità gerarchica sulle vite assunta come diritto “di natura” e principio politico. Allo stesso modo, non è stato oggetto di riflessione e assunzione di responsabilità il fatto che il fascismo sia nato in Italia e che, come un cancro, si sia diffuso – preso a modello dai regimi totalitari che si affermarono in Germania, Spagna, Portogallo, e via via in altri paesi europei – per poi interrarsi nella storia come un fiume carsico, tornando a riemergere in molte parti del mondo, come in Argentina, con il golpe militare del 1976 che causò trentamila desaparecidos.
Un comportamento politico che, soglia dopo soglia, porta al revisionismo storico e all’affermazione di un autoritarismo che sfigura la nostra democrazia
Daniela Padoan
Ma torniamo alla Repubblica Sociale Italiana che, con la Carta di Verona approvata il 14 novembre 1943, decise, al settimo dei suoi diciotto punti programmatici, di classificare «gli appartenenti alla razza ebraica in generale come stranieri e, durante la guerra, nemici», con le conseguenze che questo produsse nella persecuzione e deportazione di intere famiglie di cittadini italiani, rastrellati persino dagli ospizi, e che, con l’Ordine di Polizia n. 5, trasformò Fossoli – prima direttamente e poi in mano alle SS – nel principale campo di concentramento e transito italiano per la deportazione in territorio tedesco di ebrei e oppositori politici, principalmente verso Auschwitz.
Sappiamo che della Repubblica di Salò fu esponente, con l’incarico di capo di gabinetto del ministero della Cultura popolare, Giorgio Almirante, fondatore del Movimento sociale italiano, partito in cui la presidente del Consiglio militò fin da giovane e la cui fiamma tricolore è stata traghettata nel simbolo di Fratelli d’Italia, strenuamente difesa anche di fronte alle richieste di Liliana Segre di ripensare al significato divisivo di quel simbolo per il nostro paese.
Nel libro autobiografico pubblicato nel 2021, la cofondatrice di Fratelli d’Italia non ha esitato a esprimere l’emozione provata nell’assumere, con la presidenza del partito, la «responsabilità di una storia lunga settant’anni» sedendo nell’ufficio che era stato «di Gianfranco Fini, e prima di lui di Pino Rauti e Giorgio Almirante». Come Almirante, Rauti aveva aderito alla Repubblica sociale italiana. Sono questi i conti che chiede il 25 aprile. È di questa responsabilità che parliamo, oggi. Non basta dichiarare «incompatibilità con qualsiasi nostalgia del fascismo», serve consapevole condanna, se non si vuole ingannare, insieme agli italiani, lo spirito stesso della nostra Costituzione repubblicana e antifascista.
Mostrare una generica avversione per i totalitarismi, equiparare le vittime, procedere nella volontà di deformare l’impianto costituzionale e il bilanciamento dei poteri che rappresentano l’eredità della Resistenza mortificando il ruolo del Parlamento, del presidente della Repubblica e dei partiti, sono tutte facce di un comportamento politico che, soglia dopo soglia, porta al revisionismo storico e all’affermazione di un autoritarismo che sfigura la nostra democrazia. Democrazia che si vorrebbe trasformare in “decidente”, con un ossimoro che insinua il falso mito della governabilità e della stabilità, della mancanza di conflitto e infine, inevitabilmente, della compressione delle libertà di espressione e di manifestazione.
Sappiamo che questo è il modo in cui un passo dopo l’altro si lede lo stato di diritto e si arriva all’instaurazione dei regimi.
Nell’ottobre del 1952, Piero Calamandrei, nel numero monografico della rivista “Il Ponte”, sentì la necessità di avvertire del pericolo del ritorno non del regime fascista ma di una subcultura non ancora estirpata: «Bisogna fare di tutto perché quella intossicazione vischiosa non ci riafferri: bisogna tenerla d’occhio, imparare a riconoscerla in tutti i suoi travestimenti. In quel ventennio c’è ancora il nostro specchio: un aspetto deformante che dà a chi vi si guarda un aspetto mostruoso di caricatura. Ma i tratti essenziali sono quelli: non dimentichiamoli. Solo guardando ogni tanto in quello specchio possiamo accorgerci che la guerra di liberazione, nel profondo delle coscienze, non è ancora terminata».
Buon 25 aprile