Padoan. La nebbia nucleare, sul precipizio tra indifferenza e tracotanza

11 Luglio 2023

Daniela Padoan Presidente Libertà e Giustizia, Scrittrice

Condividiamo questa analisi di Daniela Padoan, presidente di Libertà e Giustizia, pubblicata su La Stampa del 10 luglio 2023

La notte del 4 luglio siamo andati a dormire con il sinistro annuncio di Mosca: «Kiev attaccherà la centrale nucleare di Zaporizhzhia» e la risposta ugualmente terrificante di Kiev: «Falso, sono stati i russi a piazzare gli ordigni per darci la colpa». Nonostante questo ci siamo addormentati. Il mattino dopo abbiamo constatato che il mondo c’era ancora. I tg non ci invitavano a barricarci in casa, i giornali davano scarso rilievo alla notizia perché, effettivamente, non era che una piccola notizia, una notizia marginale, un’ulteriore dissoluzione della nostra capacità di allarme e reazione – etologica, prima ancora che politica – subito tacitata dal susseguirsi dei fatti del giorno. Eppure era stato il consigliere del direttore generale dell’agenzia russa Rosatom ad affermare che, nelle prime ore del 5 luglio, forze armate ucraine avrebbero sganciato munizioni con scorie radioattive sulla centrale nucleare di Zaporizhzhia, ed era per voce dello Stato maggiore delle forze armate di Kiev che si accusava Mosca di aver posizionato oggetti simili a ordigni esplosivi sul tetto del terzo e quarto reattore con l’intenzione di simulare un bombardamento da parte dell’Ucraina, e si assicurava che l’esercito monitorava la situazione «pronto ad agire in qualsiasi circostanza».

Alla «nebbia della guerra» descritta dal generale prussiano von Clausewitz, fatta di informazioni «in gran parte contraddittorie, in parte ancor più grande menzognere, e quasi tutte incerte», oggi si aggiungono i quotidiani annunci di un’apocalisse atomica i cui colpevoli sarebbero, a turno, russi e ucraini: attori volontari o involontari di una progressiva erosione degli spazi di convivenza in un continente ormai quasi anestetizzato, dove tutto procede in una normalità abnorme, segnata dai danni collaterali del conflitto: impoverimento, contrazione dei diritti, avanzata delle destre, costruzione dell’odio verso quelle ideali funzioni di sollievo dall’angoscia che sono gli “stranieri” in arrivo per mare o segregati in ghetti. Ma il portato forse più abnorme di questa erosione è la perdita del tabù atomico.

E d’altro canto era stato lo stesso vicepresidente del Consiglio di sicurezza russo – quando l’insurrezione di Yevgeny Prigožin e la preoccupazione che l’arsenale nucleare russo potesse finire nelle mani della Wagner parevano già storia vecchia, nel susseguirsi quotidiano e velocemente immemore degli allarmi – ad affermare: «Noterò una cosa che i politici di ogni parte non amano ammettere: un’apocalisse nucleare non è solo possibile, ma anche abbastanza probabile». Un’affermazione raggelante, abissale, che l’autore dichiarava invece «piuttosto banale: le armi nucleari sono già state utilizzate, il che significa che non ci sono tabù». Medvedev sembrava citare, per quanto inconsapevolmente, una tra le lezioni più gravose che ci sono state lasciate da Primo Levi: l’abisso dei campi di sterminio è stato «introdotto irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono e quindi sono possibili».

Lo stesso vale per la distruzione nucleare, della quale Levi non si stancò mai di parlare, fino al saggio breve pubblicato poco tempo prima di mettere fine alla propria esistenza, I padroni del destino. «È lecito a un incompetente, inerme, ingenuo, ma non del tutto inesperto dei mali del mondo», scriveva con inarrivabile ironia, «dire qualche parola a titolo personale sulla questione delle questioni, quella della minaccia nucleare?» Uomini e donne non pensano al rischio atomico, o ci pensano poco, e meno di tutti ci pensano i giovani, anche a causa di un cauto ottimismo, argomentava, sviluppato «dal momento in cui la pila di Fermi ha cominciato a funzionare, dimostrandoci ad un tempo che l’umanità potrà in futuro disporre di quantità illimitate di energia, e che l’energia sviluppata dalla trasmutazione di pochi grammi di materia è stata sufficiente a distruggere due città in pochi attimi e a creare una somma non misurabile di dolore umano».

In questa mistura letale di tracotanza e indifferenza, con immutata fede nella tecnosfera, camminiamo sul precipizio della minaccia atomica – un’atomica depotenziata, tattica, come se le parole potessero indebolire, ingannare la realtà di ciò che viene pronunciato con sempre maggiore frequenza.

Abbiamo assorbito per anni la dottrina strategica militare nota come Mutual Assured Destruction (MAD, “pazzo”, nella sapienza inconscia degli acronimi). Ci siamo lasciati rassicurare dalla Pax europaea garantita dalla costruzione dell’Unione, che nel 2012 venne insignita del Nobel per la Pace per aver «contribuito a trasformare la maggior parte dell’Europa da un continente di guerra in un continente di pace». Ma il potere nucleare è l’antitesi della pace, della democrazia, della vita: è un potere esclusivo, chiuso, segreto, che, senza assoggettarsi ad alcun controllo, ha la facoltà di concedere o revocare, in ultima istanza, la sopravvivenza a intere comunità umane e agli ecosistemi che le ospitano. Nessun diritto, neppure quello all’autodifesa degli Stati “sovrani”, precede il diritto alla sopravvivenza dell’umanità. Questo vale per le armi nucleari e per il nucleare civile che, come scriveva Robert Jungk negli anni Settanta, in quella pietra miliare che è Lo stato atomico, mettono in pericolo cittadini e democrazia, perché «una catastrofe atomica può essere provocata da un difetto tecnico, dall’umana incapacità o da un’azione malvagia». Con l’invasione di uno Stato che ha sul proprio territorio la centrale di Chernobyl, dove il 26 aprile 1986 è avvenuto il più grande disastro nucleare della storia, sembra iniziata la realizzazione della profezia di Jungk: abbiamo tremato quando, nel febbraio 2022, dopo scontri violenti nell’area di esclusione di 30 km intorno all’impianto, il sarcofago del reattore 4 venne preso in consegna da reparti speciali dell’esercito russo. E poi quando, nella notte fra il 3 e il 4 marzo 2022, venne colpito e prese fuoco un edificio adiacente la centrale di Zaporizhzhia; e ancora, dall’agosto 2022, continui allarmi su blackout elettrici, fino alla «significativa discrepanza» denunciata dall’Aiea sui dati relativi al livello dell’acqua necessaria per raffreddare i reattori della centrale, messa in discussione dal crollo della diga idroelettrica di Kakhovka sul fiume Dnipro.

«L’atomo per la pace non si distingue dall’atomo per la guerra», scriveva Jungk: entrambi sono oggetto di rischi militari e di terrorismo, prevedono un governo autoritario e devono sottostare a rigide regole e segreti.

Nel 1957, nel discorso che tenne a Stoccolma per il conferimento del Nobel per la Letteratura, Albert Camus diede voce all’angoscia vissuta dalla propria generazione nell’abitare un pianeta che pareva sempre più assomigliare a una bomba innescata: «Questi uomini, nati all’inizio della prima guerra mondiale, che avevano vent’anni nel momento in cui si installavano a un tempo il potere hitleriano e i primi processi rivoluzionari, e che dovettero poi confrontarsi, per perfezionare la propria educazione, con la guerra di Spagna, la seconda guerra mondiale, l’universo concentrazionario, l’Europa della tortura e delle prigioni, devono oggi far crescere i loro figli e le loro opere in un mondo minacciato dalla distruzione nucleare».

Infatti è qui che siamo cresciuti, cittadini inermi, ciechi, cui è stato inoculato il veleno della relativizzazione, ingaggiati in un gioco mortale di cui non siamo nemmeno comparse. La paura nucleare è nuova, nella storia umana, scriveva Primo Levi in Eclissi dei profeti, è «strana e informe: è troppo vasta per essere razionalmente accettata. Non ci pesa addosso come sarebbe da aspettarsi: ha assunto la forma di un oscuro disagio, dovuto alla novità della nostra condizione, alla quale non siamo preparati».

 

Scrittrice, saggista e Presidente di Libertà e Giustizia. Si occupa da anni di razzismo e dei totalitarismi del Novecento, con particolare attenzione alla testimonianza delle dittature e alle pratiche di resistenza femminile ai regimi.

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