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I tentativi dei suoi spin-doctor di riciclarla come semplice “moderata”, insistendo sulla figura accattivante di “donna, madre, italiana, cristiana”, non possono cancellare la sua biografia, quella dei suoi più stretti collaboratori, il suo tetragono rifiuto di ripetere quanto a suo tempo ebbe invece il coraggio di dichiarare Gianfranco Fini, ultimo segretario del Msi (il partito neo-fascista dell’intero dopoguerra italiano): “Il fascismo è stato il male assoluto”. Per non parlare dello stillicidio di braccia tese nel saluto romano, di “Eia! Eia! Alalà!” di squadristica memoria, di foto e frasi lapidarie del Duce sui muri delle sezioni, insomma di tutta la funesta paccottiglia di “nostalgia” per l’orrendo ventennio di totalitarismo mussoliniano, che hanno accompagnato per anni vita e manifestazioni dei suoi “Fratelli d’Italia”, nome abusivo del suo partito (costituendo il primo verso dell’inno nazionale).
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Per crudeltà della sorte, dal 27 al 31 ottobre cade il centesimo anniversario della Marcia su Roma, dopo la quale Mussolini si installò al potere. Per quella data la onorevole Meloni e i suoi fedeli si riuniranno ormai a Palazzo Chigi, sede del governo. Non credo che festeggeranno apertamente l’obbrobrioso centenario, sarebbe controproducente, una confessione smaccata del proprio humus e ethos fascisti, ma certamente brinderanno i loro cuori, e quelli dei loro militanti.
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Sarà intanto cominciato il buio di una nuova storia, di una Repubblica in mano a chi odia l’antifascismo che ha costituito la Grundnorm kelseniana, cioè il fondamento storico di legittimità, della Costituzione e della vita politica (Grundnorm già minata dai governi di Silvio Berlusconi, però). Come è stato possibile?
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Non per i numeri, cioè per le volontà espresse dagli elettori nelle urne. Stupisce che quasi nessuno lo abbia notato e doverosamente sottolineato. Se guardiamo alle cifre, la percentuale dei voti delle destre assommano al 46%, quelle di sinistre, centro-sinistra e centro al 52%, con un 2% frammentato in un pulviscolo di liste sia di destra che di estrema sinistra. Queste cifre si ricavano conteggiando per le destre anche i voti di una lista “contro tutti” (Italexit), e sull’altro versante la coalizione di centro-sinistra a guida Partito democratico, il Movimento 5 Stelle, la nuova formazione centrista di Calenda e Renzi (entrambi in passato eletti con il Pd) e due partitini che non entreranno in parlamento avendo avuto l’1,4 e l’1,2%.
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Perché vincono quelli che hanno meno voti risulta chiarissimo: perché a destra Meloni, Berlusconi e Salvini si sono presentati uniti, sull’altro versante invece divisi, divisissimi. Il resto lo ha fatto una legge elettorale iniqua e irrazionale, tra le peggiori del mondo occidentale, dove un terzo dei seggi viene assegnato in collegi uninominali dove si può vincere anche avendo solo un terzo o un quarto dei suffragi, e il resto con un proporzionale corretto.
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Per fare un esempio, se in un collegio uninominale il candidato unico delle destre prende il 34% e quelli del M5S e del Pd il 33% ciascuno, il seggio va alle destre. Che potrebbero vincerlo anche con un risultato inferiore al 34%, molto inferiore, se i suoi avversari sono 3 o 4 anziché 2 (come è effettivamente avvenuto). Si potrebbe replicare che le destre erano unite nel senso di omogenee sui programmi, mentre M5S, centro-sinistra, nuovi centristi avevano programmi troppo diversi per stabilire candidati comuni.
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Non è così, però. Anche a destra le divergenze erano clamorose (comprese le rivalità personali e gli insulti reciproci: andando a votare Berlusconi ha definito Salvini “uno che non ha mai lavorato in vita sua”). Berlusconi e Salvini hanno inanellato giustificazioni ed elogi per Putin (Berlusconi è arrivato a dire che il suo amico Putin ha invaso l’Ucraina per sostituire Zelens’kyj con “delle persone perbene”), mentre Giorgia Meloni cercava di accreditarsi come atlantica perinde ac cadaver (il motto dei gesuiti, maestri di doppiezza, viene a proposito). Opposte le ricette sulla flat tax e sullo scostamento di bilancio. E via confliggendo.
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Nella non-destra, invece (sarà meglio definirla così, ormai, nel Pd e nel M5S di sinistra autentica, coerentemente giustizia-e-libertà, c’è poco o nulla), le rivalità personali, i narcisismi identitari delle varie forze e correnti, l’ego che si gonfia fino a scoppiare quanto più si è mediocri (penso a Calenda e Renzi,) hanno acutizzato fino al parossismo ogni differenza e dichiarato impossibile fin dall’inizio ogni alleanza.
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La responsabilità maggiore ricade su Enrico Letta, il segretario del Pd: per nessuna ragione il suo partito avrebbe potuto allearsi con il M5S. Per poi cercare di raffazzonare un “campo largo” che tenesse insieme i neo-centristi di Calenda e Renzi e i residui comunisti e verdi di “Sinistra italiana”, senza mai una linea politica chiara. Linea che deve avere l’eguaglianza (la lotta alle crescenti diseguaglianze) come bussola irrinunciabile, senza la quale non si può essere di sinistra, ontologicamente.
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L’inesistenza di una sinistra egualitaria, coerente con i valori di giustizia, libertà, laicità, illuminismo, dunque totalmente estranea ai rigurgiti reazionari di “politicamente corretto”, “woke”, islamofilia, fanatismi ideologici lgbtq+, eccetera, propinati ad esempio in salsa populista da Mélenchon e qualche volta (comunque troppe!) da Podemos, costituisce la questione cruciale del panorama politico italiano. Fino a che non nascerà questa forza politica le destre avranno partita facile. E potrebbero durare a lungo e trasformare il loro governo in vero e proprio regime.
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Rispetto a questo rischio, reale anzi incombente, il clima dominante tra le non-destre (partiti, testate giornalistiche, opinione pubblica) è purtroppo di spensierata e sconsolante noncuranza. Si pensa, si spera (ci si illude) che Giorgia Meloni non durerà, che il suo governo entrerà in crisi per le contraddizioni interne, che la sua popolarità andrà a picco non appena dalla protesta passerà all’azione di governo (diventando a sua volta oggetto delle proteste), che l’Europa non lo permetterà…
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Eppure anche due autocrazie elettorali come quelle di Orbán e Erdogan sembravano agli inizi instabili, fragili, destinate al collasso. Sono invece diventate regimi fin troppo solidi di eclisse e negazione della democrazia. La politica internazionale di Giorgia Meloni va anch’essa in tale direzione: stabilire una sorta di internazionale antidemocratica che in Europa poggi sull’Ungheria, la Polonia e una Spagna a egemonia di Vox (qualche giorno fa si è augurata platealmente la vittoria di Santiago Abascal), e che rinnovi l’alleanza/sudditanza con gli Stati Uniti, ma nella operosa speranza che presto si tratti di nuovo degli Stati Uniti di Trump (in prima persona o meno).
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Per tutta la campagna elettorale a destra si è insistito sulla novità “progressista” di una donna per la prima volta primo ministro, puntando ad allargare i consensi (ci sono stati gruppi di femministe che ci sono cascate, ahimè). Oggi non c’è nessun commento che faccia riferimento a tale novità. Che sia donna o meno, non conta. Conta che è una ex-neo-post fascista che cerca di camuffarsi da destra presentabile. La verità l’ha detta la cantante e attrice Elodie: Giorgia Meloni è un uomo del 1922.
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* Questo testo è uscito originariamente in spagnolo su El País il 28 settembre 2022