«Invece dobbiamo guardare ed esaminare insieme: che cosa? Noi stessi. Per abituarci a vedere in noi la parte di responsabilità che abbiamo dei nostri mali. Per riconoscere quanto da parte nostra si è fatto, per giungere ove siamo giunti. Vorrei che con me conveniste quanto ci sentiamo impreparati, e gravati di recenti errori e pensassimo al fatto che tutto noi dobbiamo rifare. Tutto, dalle case alle ferrovie, dai porti alle centrali elettriche, dall’industria a i campi di grano. Ma soprattutto, vedete, dobbiamo rifare noi stessi: è la premessa per tutto il resto»[1].
Confesso di non avere più la voglia o il coraggio di scrivere. Anche in un’occasione come questa. Il 25 aprile, la festa che ho sempre celebrato con gratitudine e persino gioia. La festa della memoria e della speranza. L’unica festa in cui mi sono sempre riconosciuto. Io insieme ad altri.
Oggi le parole – le mie, sia chiaro – mi pare girino a vuoto. Non solo perché di parole e di immagini siamo pieni, e di dolore: anche se spesso mi faccio forza in me per sentire che non è per le parole e per le immagini che provo dolore, ma per coloro che vengono costantemente esibiti sulla scena.
Come fare a sentire il dolore delle vittime senza ridurlo a oggetto del discorso, a figura di un’immagine? È così difficile imparare l’empatia, quando tutto è così visibile, così discutibile. A portata delle nostre parole e dei nostri occhi, ma distante dai nostri cuori. A volte penso che questa saturazione di parole, cose e immagini serva a non farci sentire più il cuore spezzato per il dolore degli altri.
Per le donne, i bimbi, gli innocenti. E per tutte le vittime. Confesso che vorrei di nuovo sentire il mio cuore spezzarsi. Come quando leggo le lettere dei partigiani condannati a morte. Nessuno “spettacolo della parola” (non è così che si traduce talk show?), nessun filmato sparato sulla mia bacheca social. La nuda fattezza del reale: questa la cognizione del dolore che abbiamo perduto.
Non è soltanto questo. È anche la sensazione nitida di un’occasione in cui vi sia una frattura tra di noi che non trova forma per suturarsi, non trova conciliazione.
Io, che tra le tante cose dovrei anche provare a rappresentare un’associazione intera, so di non poterlo fare. So di poter parlare solo a titolo personale e che, oltre tutto, le cose che dico, che penso e che scrivo saranno offensive per tante persone con cui, fino a poco fa, ho gioito e provato gratitudine ogni 25 aprile. Oggi non sarà più così. Festeggeremo tutti, ma non festeggeremo più insieme.
Io sono un pacifista. Fino a pochi giorni fa non credevo con ciò di offendere delle compagne e dei compagni. Ho sempre pensato che il 25 aprile si festeggiasse certo la liberazione dal nazifascismo, ma che non fosse accidentale il fatto che quella liberazione coincidesse anche con la fine della guerra. Non di una guerra, tra le tante. Ma di un’epoca dominata dalla logica della guerra. Un giorno che designa l’extraterritorialità della guerra dalla storia. So che non è stato così. Non lo è stato mai.
Ma era un postulato fondamentale delle nostre democrazie: la guerra è diventata uno scandalo, non una manifestazione in fondo naturale della natura degli uomini (persino Kant pensava che il fine del cosmopolitismo potesse aver bisogno di passare per qualche guerra per essere raggiunto). Ma adesso, è come se tra noi avessimo smesso di crederci. Avessimo accettato che non può essere così. E non dubito che sia colpa di Putin. Ma per lui non posso far nulla. Per noi un po’ di più. Perché questa guerra Putin la perderà – come tutti coloro (a partire da noi occidentali) che negli ultimi decenni hanno mosso le guerre – ma qualcosa ci sta togliendo. La convinzione – che per decenni ha cercato di imporsi – che non solo la guerra non sia una continuazione della politica, ma che ne sia la sua confutazione.
Dove comincia la guerra, finisce la politica. E se vogliamo far finire la guerra, è della politica che abbiamo bisogno. Come un corpo a corpo per conquistare lo stesso spazio, dentro cui non stanno due corpi contemporaneamente, il corpo della guerra e quello della politica. Guerra e politica non si compenetrano più. Non voglio urtare la sensibilità di nessuno, non oggi. Come la penso io l’ho scritto prima, ma non ha così valore. Voglio solo suggerire alcune cose.
La prima è che non è un caso se questa rivincita della guerra ci giunga nel periodo in cui la politica ha perso la sua credibilità. Siamo certi che per tornare credibili – noi, le democrazie liberali, quello strano animale mitologico a più teste che definiamo “occidente” – dobbiamo farci sedurre dall’idea da cui siamo stati liberati, cioè che politica e guerra condividano essenza e natura? Dobbiamo trasformare le democrazie in forme di vita difensive e potenti? Non è la vittoria di Putin, quella per cui la potenza di una democrazia non si misura più dal benessere dei suoi cittadini ma dalla forza accumulata?
La seconda è che se questo è vero, allora tutti – anche quelli che si sentono offesi dal mio pacifismo – potremmo trovarci d’accordo nello smettere di parlare delle armi, per ricominciare a parlare di politica. Perché anche quelli che credono che armare gli ucraini sia necessario (io non lo credo, evidentemente, ma – di nuovo – non è importante), non possono che riconoscere che non può essere sufficiente. Invece tutte le nostre discussioni hanno letteralmente sostituito la politica con la guerra.
Qualcuno mi dirà – con disprezzo anche: non possiamo trattare con chi non vuole trattare. Che è una sciocchezza: mica c’è bisogno di far la pace con gli amici, ma con i nemici. E trattare si deve, non solo perché c’è di mezzo la minaccia nucleare, ma anche perché è questa l’eredità che ci è data e per cui oggi festeggio: non abdicare alla politica e non cedere alla tentazione di immaginarla nella forma decisiva della guerra. Se qualcuno muove la guerra, a noi – da adesso – spetta fare la pace. Ho sempre creduto che fosse questa l’eredità della fine della seconda guerra mondiale e della lotta partigiana.
Ci sono tre simboli importanti ad accoglierci a New York, al palazzo dell’Onu, il più prezioso e il più assente dei lasciti del dopoguerra. C’è la statua di Sant’Agnese. Proviene direttamente da una Chiesa di Nagasaki. È il pezzo più importante di una mostra che ricorda la tragedia della bomba nucleare e la necessità del disarmo. Evoca la sproporzione delle nuove guerre e l’evidenza che ciò che è in gioco nella guerra non è soltanto un territorio, ma la terra.
Sul muro di fronte al palazzo di vetro c’è la frase di Isaia 2, 4: «Egli giudicherà tra nazione e nazione/ e sarà l’arbitro fra molti popoli;/ed essi trasformeranno le loro spade in vomeri d’aratro,/e le loro lance, in falci;/una nazione non alzerà più la spada contro un’altra,/e non impareranno più la guerra”. Scriveva Remo Sottili, partigiano ucciso il 29 agosto 1944, pensando ai suoi figli: «per quanto le sarà possibile, non cerchi di fare dei bimbi dei militari o dei militaristi»[2]. Se immaginiamo il futuro delle nostre democrazie nel segno della necessità della guerra, veniamo meno al suo lascito. Disimparare a fare le guerre, è questo il nostro compito. Altrimenti perdiamo noi stessi.
Infine, c’è la statua di San Giorgio che uccide il Drago, ed è intitolata “Il Bene uccide il male”. Ieri mi è capitato – ringrazio Roberta De Monticelli per questo – di rileggere una meravigliosa parabola di Jeanne Hersch[3]. È la storia di un cavaliere che ha il destino d’uccidere il drago. È indomito e la principessa lo attende. Sa che può farcela e fa di tutto per ucciderlo. Ma c’è un solo modo per vincere: somigliare a un drago. Avere una corazza, sputare il fuoco. Viene però avvisato: «Vai. Ma ricordati: dal momento in cui il drago sarà morto, ritroverai anima e cuore e il tuo corpo di uomo. A meno che, prima che muoia, tu non abbia bevuto il suo sangue. Perché, allora, sfortunato te, sfortunato!».
Preso dall’odio nei confronti del drago – e chi oggi ha difficoltà a individuare le fattezze del drago? – il cavaliere ne berrà il sangue. Quando la principessa lo cercherà – più indomita di lui – troverà le tracce del drago ucciso. Il cavaliere ha vinto. Ma non c’è più traccia di lui. C’è solo il grido di un drago in caccia. E lo sgomento di chi resta.
Giacomo Ulivi, in una delle lettere più famose dei condannati a morte della resistenza, ricordava che, ora che la guerra era vinta, tutto restava da rifare. Oggi abbiamo tutto ciò che allora mancava: «dalle case alle ferrovie, dai porti alle centrali elettriche, dall’industria ai campi di grano». Ma sono decenni che rischiamo di perdere noi stessi. E di noi stessi volevo parlare qui. Di noi, di me. Di quello che vorremmo essere, di ciò che siamo diventati, di ciò che forse saremo. Perché lavorare su sé stessi è «la premessa di tutto il resto».
Oggi festeggio i miei cavalieri, i partigiani. Il drago l’hanno ucciso ma non ne hanno voluto bere il sangue. E noi? Qual è il destino che stiamo scegliendo? Uccidere il drago o diventare come lui?
[1]Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana, Einaudi, Torino 2003, p. 320 (Lettera di Giacomo Ulivi, fucilato il 10 novembre 1944).
[2] Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana, Einaudi, Torino 2003, p. 297.
[3] Si trova qui: https://www.phenomenologylab.eu/index.php/2022/04/san-giorgio-e-il-drago-una-parabola-di-jeanne-hersch/?fbclid=IwAR0oNyE1NckBBKjVnIH1P_Yw6LsvcazBGWaonY4UdfrUCXmeh_yZamvvEUY .