La fatica di scrivere è utile

08 Dicembre 2021

Si stanno muovendo in tanti per chiedere al ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi di non accogliere l’appello degli studenti ad eliminare anche nel 2022 i test scritti dalle prove di maturità. I ragazzi vorrebbero un esame sul modello di quello dello scorso anno: solo orale e con una tesina da discutere a voce. La prova light però non convince prima di tutto gli insegnanti che si stanno organizzando per far sentire la loro voce contro quella che considerano una scorciatoia che non giova ai ragazzi.

Ne è nata una lettera, una sorta di contro- appello al ministro, firmata da molti docenti e intellettuali autorevoli. La questione è complessa, ne parliamo via Skype con Gustavo Zagrebelsky, professore emerito di Diritto costituzionale all’università di Torino, tra i firmatari di questo nuovo documento in cui si chiede il ripristino di una «verifica seria e impegnativa ». Zagrebelsky, costituzionalista insigne affezionato al suo ruolo di docente, sta tra l’altro per pubblicare a breve un libro intitolato proprio La lezione, dove confluiscono le riflessioni di 50 anni di insegnamento.

Professore, non crede che questi due anni abbiano gravato sui ragazzi e che la loro richiesta di un esame più leggero possa avere delle ragioni? «In realtà andando incontro a quella richiesta non facciamo loro un favore, tutt’ altro. Difendere gli esami scritti non è una cattiveria nei loro confronti, ma un atto a loro sostegno. Gli studenti forse non si rendono conto di ciò che perdono rinunciando alla scrittura. L’idea di abolire i compiti scritti mi pare sia una corsa alla superficialità. E direi che non ne abbiamo bisogno».

Perché ritiene che l’atto della scrittura sia un passaggio essenziale per l’approfondimento? «Perché obbliga ad esplorare. È un passaggio che richiede sforzo. Scrivere vuol dire cercare le parole giuste, tra le molte a disposizione, per esprimere il proprio pensiero. Si tratta di un esercizio fortemente fecondo, che implica un’esplorazione su se stessi. Ecco perché ritengo che chiedere di abolire la prova scritta equivalga a un’amputazione».

L’idea di sforzo a cui fa riferimento rimanda a una concezione della conoscenza legata alla fatica. Pensa che i giovani non siano più abituati? «Tutti noi vorremmo evitare la fatica ma è quell’impegno che poi porta alle soddisfazioni. Un bravo insegnante dovrebbe far comprendere agli studenti che nella fatica è intrinseca la soddisfazione».

Non ha paura che su questa visione pesi la distanza generazionale? «Non mi concentrerei su questo ma sull’importanza del tempo. Ci stiamo abituando a stimoli e risposte immediate. Tutto oggi deve essere rapido. Stiamo perdendo il tempo lungo della riflessione. La scuola dovrebbe invece continuare ad essere un’oasi di tranquillità, di tempo a disposizione».

È questa la differenza che passa tra la comunicazione dei social network e un’idea tradizionale di formazione? «La comunicazione implica una relazione non prolifica tra le parti nella quale chi accoglie l’informazione è in una posizione passiva, di puro recipiente. Ma attenzione. La tecnologia se usata responsabilmente può invece servire a elaborare un pensiero matur o. Perché ciò avvenga però bisogna superare la logica dei like e delle reazioni istantanee. Torniamo allora all’importanza della scrittura, che è sempre ricerca del linguaggio giusto ed è un insegnamento a fermarci, a pensare prima di reagire. Mi capita a volte quando scrivo articoli di ricevere insulti. In genere rispondo sempre. Un giorno un avvocato siciliano mi ha mandato all’inferno. Gli ho risposto “egregio avvocato la ringrazio dell’attenzione” e poi ho spiegato cosa intendevo dire, cercando le parole appropriate. Ne è nato un dialogo, mi ha perfino detto che se dovesse capitare a Torino mi cercherà. Forse era una minaccia (ride, ndr) ».

Dunque, dovendo rivolgersi ai ragazzi cosa direbbe loro? «Nell’ultima parte della mia esistenza dedico molto del mio tempo ad andare nelle scuole. Sulla mia cinquantennale esperienza di insegnamento è in uscita un libro che s’ intitolerà proprio La lezione. Sono molto ottimista verso i nostri ragazzi. Sono convinto che se si annoiano o sbuffano è perché noi professori falliamo. Forse siamo noi a doverci interrogare, a chiederci perché spesso non riusciamo a risvegliare quello che hanno dentro. Ci siamo mai domandati che cosa sia veramente una lezione? Forse non ci siamo resi conto del privilegio che abbiamo a poter dedicare ogni volta un’ora a parlare con i ragazzi. La responsabilità di come usare al meglio quel tempo è nostra».

Dopo due anni difficili tra lezioni a singhiozzo e didattica a distanza, che idea si è fatta delle lezioni? «Il sapere non è riducibile a una trasmissione di nozioni, per la quale basterebbe acquisire dati o comunque sarebbe sufficiente lo strumentario fornito da buoni libri di testo. La parola “lezione” rimanda a “leggere” che significa raccogliere, mettere insieme, collezionare. È dentro un’aula che tutto ciò può avvenire. In uno spazio collettivo ma protetto, chiuso, separato dall’esterno».

L’aula come spazio democratico? «Come luogo che accoglie individui che sanno di far parte di una comunità. Chi sale su una sedia a Hyde Park e sbraita al pubblico qualcosa non sta facendo lezione. La Dad ha avuto molti meriti, innegabili aspetti positivi, ma ha tolto alla scuola le aule, vale a dire lo scambio dal vivo. Partecipare a una lezione, come diceva Pavel Florenskij, non è come prendere un tram. Non si tratta di salire a una stazione e scendere una volta arrivati a destinazione. È invece molto più simile a una passeggiata tra amici durante la quale ci si guarda intorno, si fatica un po’ camminando, si interagisce. Insomma non si è semplicemente trasportati passivamente. Per quanto mi riguarda non considero importanti i voti, anzi li eliminerei. La cosa essenziale che un docente deve fare è accertarsi che nello studente si sia accesa una scintilla creativa».

Per trovare una situazione di emergenza simile a quella che stiamo vivendo bisogna tornare al secondo dopoguerra quando la maturità fu sostituita dallo scrutinio finale. Il Covid è stato la nostra guerra? «Ma no, mi sembrano semplificazioni. Metterla su questo piano sarebbe una dichiarazione di fallimento. Equivarrebbe a dire agli studenti che gli ultimi due anni della loro vita non contano nulla, mentre la verità è che sono stati molto importanti nella loro crescita».

I più recenti test Invalsi hanno certificato il fallimento della Dad e le differenze tra regioni e scuole. Stiamo andando incontro a nuove discriminazioni sociali? «In questi due anni si sono creati disagi profondi, che hanno a che vedere con condizioni sociali differenti. Partiamo da una considerazione: non tutti hanno un computer, né tutti lo sanno usare. E non tutte le famiglie vivono le stesse condizioni. C’è chi deve condividere uno spazio di quaranta metri quadrati con altri, molti non hanno uno studio in cui appartarsi. Anche per questo ritengo che la scuola deva poter essere garantita in presenza».

 

la Repubblica, 7 dicembre 2021

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