Ci sono vari modi di valutare eventi storici. Uno, quello più spettacolare, consiste nell’edificare o distruggere monumenti. Abbiamo assistito a numerosi casi nei paesi occidentali di demolizione di simboli di quelli che oggi sono giudicati come fatti di dominazione, non di civiltà. Anche le conquiste politiche possono essere, e sono oggi, oggetto di rivisitazioni critiche.
Esemplare è il caso delle celebrazioni del centesimo anniversario del diciannovesimo emendamento alla Costituzione degli Stati Uniti, che vieta agli Stati e al Governo federale di negare il diritto di voto ai cittadini sulla base del sesso. Inizialmente presentato al Congresso nel 1878, fu sottoposto agli Stati per la ratifica e il 18 agosto 1920 il Tennessee fu l’ultimo dei 36 stati ratificanti per garantire l’adozione, proclamata il 26 agosto successivo.
Si trattò di una conquista epocale. Innanzi tutto perché dimostrò l’efficacia di nuove armi di lotta politica nell’era del governo rappresentativo: quelli dei movimenti organizzati, dell’opinione internazionale, della militanza degli intellettuali, della forza visiva e simbolica delle manifestazioni pubbliche di contestazione e di resistenza non violenta.
Il movimento guidato da quelle donne straordinarie che erano Elizabeth Cady Stanton and Susan B. Anthony era cominciato ben prima del 1920, con la Seneca Falls Convention nel 1848, ispirata dall’incontro della Stanton con Lucrezia Mott alla World Anti-Slave Convention tenutasi a Londra nel 1840, dove venne proibito alle delegate americane di sedere alla tribuna perché donne. Un’esclusione che stimolò Statton e Mott a lanciare la proposta di una convention sull’emanancipazione femminile. L’abolizione della schiavitù e il suffragismo ebbero una storia parallela, dunque, ma solo parzialmente intersecantesi.
Questo è oggi il tema che guida le celebrazioni. Le donne americane che lottarono per il voto non misero in primo piano la richiesta della libertà dal razzismo e dal classismo. Non si tratta di una critica di nuovo conio, ovviamente. Ma le celebrazioni del voto alle donne cadono in un anno particolare, di rivolta contro la violenza razziale della polizia, di contestazione dell’interpretazione della storia dell’emancipazione. Emancipazione per chi? E’ la conquista di un diritto un fenomeno davvero inclusivo?
Su queste domande si è confrontato il New York Times, seguendo due direttrici interessanti e radicali. Una di autocritica e una di critica del movimento suffragista. Il quotidiano americano, diretto per la prima volta nella sua storia da una donna, Jill Abramson, ha deciso di celebrare questo centenario ricordando l’opposizione del giornale al voto alle donne. Un’opposizione antica, nel nome di un pregiudizio che sembrava legge di natura: “senza la guida e il consiglio degli uomini, nessuna donna potrebbe mai governare saggiamente bene” si diceva in un editoriale del 1913.
Il Times mette se stesso sul banco degli imputati. E però vi ci mette anche il movimento delle suffragiste, guidato da donne bianche che nell’età del “terrore razziale” che seguì l’emancipazione, dopo la Guerra civile, rivendicarono l’eguaglianza rispetto agli uomini ma non posero la questione della parità con e delle donne nere. Le leader del movimento suffragista tennero le donne nere distanti e in ombra. La celebrazione del voto alle donne nel tempo della revisione storica è celebrazione di un lavoro incompiuto, con una tappa cruciale nel Voting Right Act del 1965, che eliminò alcune delle più vergognose misure di discriminazione che tenevano le donne nere lontano dai seggi, per ragioni di censo e di analfabetismo.
Il diritto di voto conquistato un secolo fa diventa un’occasione per squadernare e denunciare gli ostacoli al suffragio che esistono ancora oggi nei codici di diversi Stati dell’Unione, a causa del razzismo e della povertà in primo luogo, ma non solo. In questo anno elettorale, celebrare il diciannovesimo emendamento è un’occasione per ricordare l’importanza del voto, un diritto che non è mai completamente conquistato, sempre oggetto di ostacoli artificialmente creati da chi governa per renderne difficile l’esercizio, come il tentativo del Presidente Trump di contrastare il voto per posta in età di Covid, tagliando i finanziamenti al servizio postale. Un bene che negli States è ancora pubblico.
da Repubblica, 21 agosto 2020