C’è la libertà personale dietro la privacy hi-tech

30 Aprile 2020

Nadia Urbinati Consiglio di Presidenza Libertà e Giustizia

Il governo ha scelto l’app Immuni per la gestione del contact tracing coronavirus nella fase 2 dell’emergenza. Ad aggiudicarsi il bando è stata la compagnia Bending Spoons (fondata in Danimarca nel 2013) con sede a Milano. L’app servirebbe a monitorare la nostra (in)sicurezza all’uscita dalla reclusione sicura. Da qui alla seconda metà del 2021 per convivere con il Covid 19 occorrerà tracciare chi viaggia, si muove, interagisce. Diverse le reazioni all’app: entusiasmo dei tecnofili, ostilità dei resistenti al digitale, scetticismo dei pragmatici. Ma nutrire dubbi è, oltre che legittimo, utile.
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Immuni è avvolto da problemi da risolvere in tempi brevi, visto che si prevede la sua entrata in funzione a fine maggio. Questioni tecniche, ma soprattuto morali e psicologiche. Connesse ovviamente alla privacy. Certo, la libertà individuale non sta tutta incapsulata nella sfera della mia intimità psicologica ed emotiva. È anche decisione di agire insieme agli altri e nel mondo. Ma il cuore della libertà sta nella certezza di essere io soltanto a vedere e vivere me stessa. Proteggere il mio intimo dall’occhio pubblico o altrui è la condizione senza la quale non c’ è rispetto per la mia libertà.
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L’intimità di me con me stessa è, scriveva Hannah Arendt, quella condizione recondita che deve avere la certezza di non essere ispezionata. Dobbiamo essere diffidenti verso tutti i sistemi di sorveglianza, anche se e quando fatti (ci si assicura) per il nostro bene. La garanzia dei diritti è figlia di questa sana diffidenza, che non scompare mai, nemmeno quando poteri politici limitati si impegnano a non violarla. E che fare quando è la tecnologia del software a proporsi come ancella del nostro bene? Abbiamo tutto il diritto di non fidarci del paternalismo tecnologico; di chiedere come l’app tratterà i dati sensibili e altamente personali che dovrebbero essere usati solo per ragioni sanitarie e solo relativamente all’ infezione da Covid 19.
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È legittimo (e realistico) dubitare di questa intromissione degli interessi privati nella conoscenza di quel che dovrebbe spettare solo al pubblico avere, e per gli scopi delimitati previsti. È legittimo chiedersi chi svolgerà la funzione di archiviazione dei dati. È ovvio che la legge prevede che gli attori privati siano responsabili per ogni operazione; ma la pena segue il danno. E questo danno è comunque incalcolabile: come si vive “dopo”, ovvero sapendo che qualcuno ha carpito e usato pezzi della mia vita, che sa chi ho frequentato e con chi ho interagito?
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Si tratta di un danno difficile da calcolare e la sola idea di poterlo subire è insopportabile. Quali che siano le garanzie e benché tutto avverrà secondo le regole stabilite dall’Unione europea, che sono stringenti e severissime, resta il fatto che ci saranno operatori privati a noi sconosciuti che avranno un potere straordinario su di noi, occhi invisibili puntati sulla nostra vita intima e personale.
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Ultimo problema, squisitamente hobbesiano. Che cosa mi accadrà se le persone che stanno nello stesso mio scompartimento di un treno sono allertate dalla app sulla mia positività? Non è rischioso stare sotto i riflettori dei miei casuali compagni di viaggio, ai quali di me interessa solo che sia immune? In uno scenario “Sci-fi”, vi è ragione di rabbrividire nel dover vivere in una società che ci classifica come immuni o contagiati e che si dota di monatti-bluetooth.
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La Repubblica, 26 aprile 2020

Politologa. Titolare della cattedra di scienze politiche alla Columbia University di New York. Come ricercatrice si occupa del pensiero democratico e liberale contemporaneo e delle teorie della sovranità e della rappresentanza politica. Collabora con i quotidiani L’Unità, La Repubblica, Il Fatto Quotidiano e con Il Sole 24 Ore; dal 2019 collabora con il Corriere della Sera e con il settimanale Left.

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