Angelo Panebianco, sul Corriere della Sera, torna a criticare i sostenitori del No alla riforma costituzionale di Renzi, che non svolgerebbero un’ altrettanto energica campagna contro “le dichiarazioni di Casaleggio e Grillo”, che si proporrebbero “di mandare in soffitta il Parlamento”.
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In realtà, la critica è distrutta dalla stessa premessa per cui “certamente c’ è una grande differenza fra una consultazione referendaria al termine della quale si deve decidere se cambiare o no alcune parti di una Costituzione e le dichiarazioni di intenti dei leader di un partito”. Ma ciò non ferma il professore, secondo il quale questo confermerebbe che “il vero mastice” che teneva insieme i sostenitori del No era quello di “fare fuori politicamente Matteo Renzi”, essendo deboli gli argomenti “pro-no” di una riforma volta semplicemente a una “razionalizzazione della nostra democrazia rappresentativa”.
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Forse è stucchevole tornare su un testo già più volte criticato nel merito (mi sia consentito un rinvio a La Costituzione spezzata, Lindau 2016), ma vale la pena almeno ricordare che questo non avrebbe eliminato il bicameralismo, né semplificato i procedimenti decisionali, né migliorato i rapporti tra lo Stato e le Regioni, né diminuito (significativamente) i costi della politica, né aumentato la partecipazione popolare. Tanto mi sembrava sufficiente per contrastare la riforma costituzionale nel merito, a prescindere dalla valutazione sul resto dell’ azione governativa, che pure ha prodotto modesti risultati. Del resto, non ricordo nessuno che abbia dichiarato di votare No nonostante la validità della riforma proposta, mentre importanti esponenti politici – da Prodi a Barca a Cacciari – hanno annunciato il loro Sì nonostante non fossero convinti del merito della riforma.
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Le recenti dichiarazioni di Grillo sulla democrazia non sono certo condivisibili, ma pongono la questione della partecipazione, sulla quale, come altri colleghi, insisto da tempo. Il 40% del Pd alle Europee fu enormemente festeggiato, trascurando il fatto che avesse votato il 58% degli elettori e che quei voti fossero quasi un milione in meno di quelli ottenuti dallo stesso partito alle politiche del 2008.
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Casaleggio non ha detto che il Parlamento è superato, ma che questo deve “garantire che il volere dei cittadini venga tradotto in atti concreti e coerenti”, salvo poi aggiungere che “tra qualche lustro è possibile che non sarà più necessario nemmeno in questa forma”. Anche quest’ ultima affermazione non è condivisibile, ma non ha nessuna attualità, e sembra più interessante il richiamo alla valorizzazione degli strumenti di partecipazione, non solo a livello nazionale ma anche euro-unitario.
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D’altronde, c’è da chiedersi dove fossero tutti questi sostenitori del Parlamento quando non solo questo era indebolito dal testo della riforma costituzionale, ma intanto veniva svilito con voti sulla riforma costituzionale a raffica, con contingentamenti e sedute fiume, mentre i parlamentari sospettati di dissenso erano sostituiti in commissione, in barba a quel divieto di mandato imperativo ora giustamente richiamato come un cardine della democrazia.
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D’altronde, si dovrebbe ammettere che nessun attacco al Parlamento è venuto da chi da statuto è il leader del M5S , Luigi Di Maio, né dal ministro Riccardo Fraccaro, che, in una recente intervista, è tornato sulla necessità che le riforme costituzionali siano solo puntuali, proponendo l’ eliminazione del Cnel, la riduzione del numero dei parlamentari e il potenziamento degli istituti di democrazia diretta.
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Riforme condivise, nella scorsa legislatura, anche da quella parte della sinistra che non appoggiava la riforma costituzionale. Forse, occorrerebbe mettere finalmente da parte il confronto su una riforma costituzionale bocciata dal 60% degli elettori, pari a circa 20 milioni di voti, senza troppi rimpianti, per concentrarci, in modo costruttivo, sul merito delle proposte che vengono concretamente avanzate.
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Il Fatto Quotidiano, 15 agosto 2018