Il dovere di salvataggio in mare di persone in pericolo, prima di trovare àncora in un vasto oceano di normative nazionali[1], comunitarie[2] ed internazionali[3], affonda le proprie radici in un’antica consuetudine marittima che investe chiunque – in prossimità di una situazione di pericolo altrui – versi nelle condizioni di prestare aiuto, senza distinguo in base a nazionalità o status.
Tale principio esalta un primordiale istinto di solidarietà e racchiude la sua cifra di verità, oltre che nella diffusione e longevità, nella spontaneità del rispetto della regola, permettendo così di consolidare uno straordinario patrimonio valoriale (morale, prima ancora che giuridico) resistente alle erosioni del tempo.
Non casualmente, fedeli ed inconsapevoli interpreti di un tale imperativo si rivelano i bambini, eredi naturali della tradizione: al loro candido immaginario, infatti, appartiene quel fiero ed eroico senso del dovere di soccorso che li induce – in riva al mare – a navigare con l’immaginazione e scrutare l’orizzonte in trepida attesa di un SOS contenuto in un collo di bottiglia.
Paradossalmente, in un racconto tra innocente fantasia e cruda realtà, su una sponda opposta del mare, una mamma si accinge a consegnare il destino di suo figlio ai percorsi tortuosi ed imprevedibili delle onde, lontano da guerra e miseria.
Due opposte sponde di fantasia e verità, sogno e disperazione, eccitazione e paura si fondono, tra l’azzurro del cielo ed il blu dell’acqua, in un comune (reale) orizzonte di solidarietà, a testimonianza della incontenibile funzione coagulante del mare.
Grazie alle correnti, portatrici infaticabili di opportunità, si tracciano sulle rotte del mare scie invisibili ma indelebili di umanità e maree inarrestabili contribuiscono a scrivere, silenziosamente, la storia dei popoli.
Nei solchi d’acqua, scivolano veloci ed imprevedibili i destini e le speranze di uomini e donne alla estrema ricerca di un traguardo di salvezza, troppo spesso irresponsabilmente in balìa di umori ondivaghi di capitani (poco) coraggiosi nei porti di approdo, condizionati da venti fetidi di odio ed indifferenza e mescolati tra le foschie dell’opinione pubblica.
In un tali nebbie, anche lo sguardo incantato di un bambino in riva al mare si disorienta. L’immaginario di coraggiosi comandanti in divisa rischia di salpare verso altri lidi. E, con esso, l’emozione di scrutare l’orizzonte ed aspettare.
Ma le dighe di egoismo non possono arginare le maree di una tradizione nautica secolare, ansiosa di trasformare piccoli eroi sognanti in uomini fieri e leali; a quel punto, alla vista dell’ancheggiamento stanco di un collo di bottiglia tra i flutti, senza esitazione il bambino (r)accoglierà nel palmo il messaggio di un ignoto in difficoltà, correndo affannosamente alla ricerca di aiuto.
Erede degno di un patrimonio antico, nelle mani di un (piccolo) capitano coraggioso sarà consegnata la fiaccola della instancabile maratona di soccorsi in mare di (veri) capitani coraggiosi, tesoro troppo prezioso per affondare negli abissi di un medioevo culturale e politico, purtroppo ostaggio di avventurieri senza scrupoli e predatori di storia e civiltà.
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[1] In diritto italiano (oltre alle fattispecie contemplate dal codice penale): artt. 1113 e 1158 del codice della navigazione
[2] In particolare: regolamenti europei n. 656/2014 e n. 1624/2016
[3] Tra le principali: convenzione internazionale per la sicurezza della vita in mare del 1974; convenzione sulla ricerca e soccorso in mare del 1979; convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982
(*) L’autore è fondatore e animatore del Circolo LeG di Ginevra.